mercoledì, marzo 31, 2010

Il picco delle automobili negli Stati Uniti

Immagine da sustainablog.

Stiamo vedendo quello che potrebbe essere un nuovo picco negli Stati Uniti: quello del numero dei veicoli su strada. I dati (vedi sopra) indicano un netto rallentamento nel numero di veicoli circolanti che potrebbe essere "il picco" con il numero di veicoli che si assestano sui 250 milioni in totale. E' un picco veramente epocale per un paese, come gli Stati Uniti, che hanno fatto dei veicoli stradali la base della loro economia e del loro sistema di trasporto.

Non si può escludere una ripresa, ma su questo punto anche Lester Brown sembra essere daccordo; avendo annunciato recentemente il picco delle automobili negli Stati Uniti:

"Nel 2009, 1 14 milioni di automobili mandate in demolizione ha superato i 10 milioni di automobili nuove vendute; riducendo la flotta degli Stati Uniti di quattro milioni di automobili,  quasi il 2 percento in un anno. La flotta, che totalizzava 250 milioni di veicoli nel 2008, è scesa a 246 milioni nel 2009. Brown ritiene che questa riduzione continuerà fino al 2020."

Va detto che Lester Brown, qui, ha fatto una discreta confusione dando come riferito alle "automobili"  un dato che in realtà si riferisce a tutti i veicoli stradali. In realtà, le automobili private negli Stati Uniti sono "soltanto" circa 135 milioni (dati del Department of Transportation) .

Comunque, è vero che il numero di automobili negli Stati Uniti sta ristagnando e che ha avuto un picco non molto netto nel 2001. I dati del Department of Transportation sono disponibili fino al 2007. Le vendite sono calate nel 2009 e, di conseguenza, è probabile che si stia disegnando un "picco delle automobili" piuttosto largo che ha interessato la prima decade del secolo.

Niente di strano: con i consumi petroliferi in calo, si comprano meno automobili e meno veicoli in generale. E' il picco, gente!

domenica, marzo 28, 2010

La grande bufala del prezzo della benzina

Dopo alcuni anni di letargo, approfittando della disinformazione e della credulità di molti italiani, in questi giorni ha ripreso a circolare un appello a lanciare una catena di Sant’Antonio finalizzata a boicottare due compagnie petrolifere, la Esso e la Shell, con lo scopo dichiarato di costringerle ad abbassare i prezzi della benzina. I proponenti (per la verità ignoti) dichiarano che l’iniziativa sarebbe promossa da Beppe Grillo, ma chiunque può verificare sul blog del popolare attore – politico che tra le campagne avviate dal suo movimento non è presente questa sorta di “sciopero della benzina”.
In effetti si tratta di una vera e propria bufala, per certi versi spassosa e divertente, che però va smascherata in nome della razionalità e contro la manipolazione costante della realtà che rappresenta da qualche anno uno dei tratti distintivi della società italiana.

Cominciamo ad esaminare i contenuti del volantino che si sta diffondendo in maniera virale sulla posta elettronica degli italiani.
Sentite bene come comincia: “E’ importantissimo piegare questi maledetti che alzano in continuazione il prezzo!! (gli americani si sono incazzati perché gli si è alzata la benzina a 0,75 € per 5 litri) e noi paghiamo 1,50 € a litro. Ma siamo impazziti?” A parte il tono violento e l’imperfezione dell’italiano, già qui appare chiaramente il pressappochismo e l’incompetenza degli autori. Negli Stati Uniti, come ho scritto in questo articolo, quando i prezzi del petrolio avevano raggiunto i massimi del 2008, si pagava proprio 0,75 € per la benzina, ma al litro, non per 5 litri! Certo, è quasi la metà di quanto si paga in Italia, ma se si considera che i consumi americani sono quasi il triplo di quelli italiani, si capisce che nemmeno loro se la passano tanto bene.
Proseguiamo per giungere al succo della brillante trovata dei proponenti: “Come avere la benzina a metà prezzo”, “La parola d’ordine è colpire il portafoglio delle compagnie senza lederci da soli”, “La proposta è che da qui alla fine dell’anno non si compri più benzina dalle due più grosse compagnie Shell ed Esso… se non venderanno più benzina (o ne venderanno molto meno), saranno obbligate a calare i prezzi. Se queste due compagnie caleranno i prezzi, le altre dovranno per forza adeguarsi.”
Ma come avevamo fatto a non pensarci prima, avranno esclamato i tanti benzina-dipendenti del nostro paese. Eppure le cose non sono affatto così semplici. Guardiamo il grafico allegato che rappresenta la scomposizione del prezzo. Una percentuale del 61% è costituita dalla componente fiscale, accise ed IVA che, gravando sulla quantità di benzina consumata, non verrebbe minimamente intaccata dall’eventuale quanto improbabile spostamento degli acquisti sulle altre compagnie. L’altro 39% corrisponde al prezzo industriale, a sua volta scomposto nel 28% relativo al costo della materia prima e nell’11% relativo al margine lordo (cioè l’utile d’impresa dei vari passaggi a valle dell’acquisto della materia prima). La prima quota, comprensiva dei costi di trasporto, stoccaggio e deposito, rappresenta il valore dei prodotti raffinati scambiati sui mercati internazionali e rilevati da un’Agenzia indipendente (Platts) in base alle condizioni di domanda – offerta del momento. Dipende ovviamente dalle quotazioni dei futures petroliferi, particolari titoli scambiati sui mercati internazionali, e dai prezzi di raffinazione del prodotto. Si è molto discusso sui meccanismi che influenzano la formazione di questi prezzi e non si possono escludere alcuni aspetti speculativi, ben sintetizzati in questo articolo. Essi sono però principalmente determinati dalle condizioni della domanda e dell’offerta mondiale di petrolio e dei prodotti raffinati. Quindi, anche in questo caso, il “boicottaggio” dei consumatori italiani, non modificando minimamente la struttura della domanda, non farebbe nemmeno il solletico ai prezzi. Rimane una quota variabile dal 10% al 15% che rappresenta il margine di guadagno degli operatori della distribuzione. Su questo valore, circa 15 centesimi di euro, potrebbe influire teoricamente il “boicottaggio” di alcune compagnie. Rispetto all’obiettivo del 50% di riduzione del prezzo della benzina garantito dai sedicenti grillini, è ben poca cosa. Ma persino questa è solo un’illusione. Se davvero una parte consistente dei consumatori spostasse i propri acquisti sulle compagnie minori, molto probabilmente quest’ultime non avrebbero la possibilità di rifornirsi adeguatamente sui mercati internazionali, lasciando all’asciutto gli incauti automobilisti, che si affretterebbero a ritornare tra le braccia delle odiate compagnie maggiori.

L’unico modo efficace da parte dei consumatori per influire seriamente sui prezzi dei carburanti l’abbiamo sperimentato di recente con l’esplodere della crisi finanziaria ed economica internazionale. Essa ha determinato un calo consistente della domanda mondiale e i prezzi del petrolio e dei carburanti sono scesi sensibilmente rispetto ai massimi del 2008. Quindi, consumatori di tutto il mondo unitevi, usate meno l’auto e più i piedi, la bicicletta e i mezzi di trasporto collettivo. Vedrete che i prezzi scenderanno, non del 50%, ma scenderanno.

Infine, è opportuno riflettere su due ultime questioni. La prima riguarda le motivazioni reali e gli interessi realmente sottesi dietro questo tentativo di mobilitazione. Siamo sicuri che gli ignoti proponenti siano solo degli ingenui sprovveduti? Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che l’obiettivo reale della catena di Sant’Antonio sia lo spamming, altri sospettano che i mandanti occulti possano essere proprio le compagnie minori che per un po’ si avvantaggerebbero dagli acquisti anche di una percentuale minima di consumatori “allocchi”.
La seconda è Beppe Grillo: l’iniziativa del “boicottaggio” sta assumendo dimensioni talmente pervasive che sarebbe opportuno un chiaro intervento di dissociazione. A meno che il brillante comico non tenti di sfruttare a fini elettorali questa gratuita campagna pubblicitaria.

venerdì, marzo 26, 2010

L'executive e il petrolio

Credo che tutti i lettori conoscano la fiaba de "La volpe e l'uva", attribuita ad Esopo, di cui riprendo la trama sotto (da wiki):

Una volpe, dopo aver sognato di raggiungere un grappolo d'uva, si sveglia accorgendosi che quel grappolo esiste davvero. L'animale affamato tenta con grandi balzi di staccare il grappolo ma ogni sforzo è vano. Constatando di non poterla raggiungere, esclama: "tanto è ancora acerba!"

La morale è:

"È facile disprezzare quello che non si può ottenere".

Ora, se ci pensiamo un attimo, è una sistuazione molto simile a quella cui stiamo assistendo. Gli AD di compagnie petrolifere, industriali in genere e i politici dicono che a causa della depressione economica non ha senso estrarre petrolio al ritmo del "picco" di 85 milioni di barili/giorno.



Vediamo in dettaglio le due situazioni.

La volpe e l'uva

COSA vorrebbe la volpe: raggiungere l'uva con un salto
QUAL è la realtà: non riesce a saltare sufficientemente in alto
COME presenta la faccenda: non la VUOLE prendere perchè è acerba

L'executive e il petrolio

COSA vorrebbe l'executive: aumentare la produzione di petrolio per rifornire i mercati e accrescere i profitti
QUAL è la realtà: i pozzi non riescono a tenere il ritmo, sia in termini di quantità che di qualità estratta, e si genera rallentamento economico
COME presenta la faccenda: non si VUOLE estrarre più petrolio perchè la richiestà è diminuita a causa della "crisi"

La volpe ha avuto almeno la "fantasia" di cercare una causa diversa dalla sua "inabilità" per giustificare l'insuccesso; l'executive, invece, inverte la causa (diminuzione dell'estrazione) con la conseguenza (crisi).
La morale, adattata, diventa:

"E' utile distorcere quello che è scomodo".

PS : anche nel blog di Debora Billi si parla del problema delle riserve petrolifere stimate "gonfiate" e del delicatissimo quinquiennio che ci attende, in termini di approvvigionamenti energetici

mercoledì, marzo 24, 2010

Lettera ai candidati (di qualsiasi elezione democratica)



created by Luca Pardi


Proponiamo sul blog di Aspo questo post di Luca Pardi, uscito oggi sul suo blog.
Per un aspista come me è difficile non inorridire di fronte a campagne elettorali propagandistiche e scollegate dalla dinamica dei sistemi: "Lavoro, lavoro, lavoro per tutti"; "Piani per rilanciare i consumi e la crescita"; e via di questo passo.
E' comunque comprensibile che in un sistema macroscopico quale quello della società nel suo complesso, sia mediamente difficile rendersi conto dello stato dell'arte di quello che sta molto probabilmente per accadere. Quando siamo immersi nella folla di una sagra di un paese mai visto prima, difficilmente riusciamo a fare fisicamente il percorso che avevamo immaginato. Bisognerebbe volare a 3 metri da terra, e individuare il miglior percorso nella moltitudine di flussi di persone che interagiscono in modo piuttosto caotico.
Allo stesso modo, non siamo riusciti ancora a capire molti meccanismi del funzionamento del cervello; se ne fossimo in grado, il cervello sarebbe così evoluto da risultare imperscrutabile.
Le situazioni autoreferenziali hanno questa piccola "pecca" di essere difficilmente governabili e di condurre sovente a paradossi.
Siamo parte di una situazione che è più grande di noi. Avremmo la possibilità di muovere alcune leve cruciali, ma nè l'uomo medio nè (di conseguenza !) i politici hanno il coraggio di farlo. L'inerzia dei sistemi ormai costituiti è davvero grande.
Se non riusciremo ad attuare azioni ben più incisive delle domeniche a piedi e delle auto a GPL per tutti, arriveremo a toccare con mano il comportamento dei sistemi reali quando sono portati al limite: disoccupazione, inflazione, problemi di stabilità bancaria, difficoltà di approvvigionamento, stabilità sociale a rischio, tensioni internazionali   (FG)


Caro candidato,

iniziata l'ultima settimana di campagna elettorale ognuno si chiede per chi sarebbe meglio votare, per motivi di interesse personale, generale, nazionale, umano …. e la confusione si fa preoccupante.

Personalmente avrei un criterio molto semplice: votare qualunque politico che mostri di comprendere una o più delle questioni elencate qui di seguito (o possibilmente l'intera sequenza):


1- La crisi economico – finanziaria in cui siamo piombati nel 2008 non è altro che l'effetto di un più generale manifestarsi dei limiti della crescita economica. Il fattore più evidente di questi limiti è stato il raggiungimento di un picco di produzione globale del petrolio convenzionale che ha determinato un aumento impetuoso del prezzo dell'energia nel periodo 2004-2008 (da 30 a 140 USD/barile) che il sistema del credito basato sulla continua estensione del debito non poteva reggere altro che in condizioni di crescita materiale infinita. Fine della crescita, fine del sistema finanziario contemporaneo.

2- Il globalismo economico, le istituzioni che lo governano e le infrastrutture fisiche che lo rendono possibile dipendono da un flusso continuo di energia a basso costo. Fine dell'energia a basso costo: fine del globalismo economico e delle sue strutture locali cioè dell'intero sistema da cui dipendiamo attualmente per ogni singola azione della nostra vita.

3- Raggiunti I limiti della crescita economica e superati molti dei confini ecologici del pianeta, si è raggiunto anche il limite della crescita demografica. L'unica opzione sensata è un progetto politico di rientro dell'economia e della popolazione. Tale progetto non può evitare nel prossimo futuro un periodo di instabilità e incertezza, ma è l'unica via di uscita praticabile per attenuare, se non evitare, il collasso del sistema.

4- Tale progetto non può che partire dal 'locale'. La produzione industriale, e in particolare la produzione di energia, deve essere diffusa sul territorio e restare nelle mani delle comunità locali. Il modello di produzione e distribuzione polare dell'energia è incompatibile con il progressivo assottigliamento della dispobibilità di risorse fossili e minerali ed è impensabile in assenza o in fase di assottigliamento della disponibilità di combustibili liquidi.

5- L'intero modello di trasporto di merci e persone è legato alla disponibilità di combustibile a buon mercato. Nessuna delle soluzioni proposte per la sostituzione dei combustibili liquidi con altri combustibili (biocombustibili, idrogeno, carbone liquefatto ecc …) sono praticabili per un volume di traffico come quello attuale. Il sistema di trasporti attuale è condannato, tanto vale prenderne atto. Le case automobilistiche sono un dinosauro come le compagnie aeree. Quanto di questo potrà restare in piedi non è certo, ma quello che è certo è che si dovrà pensare ad un modo di rispondere alla crisi dell'auto e di tutto il sistema dei trasporti e del suo indotto.

Un modello di trasporto che garantisca una residua capacità di movimento di persone e merci deve essere basato principalmente sul trasporto pubblico perchè, piaccia o meno, la stagione del trasporto automobilistico di massa è al crepuscolo. Con una crescente elettrificazione della produzione di energia, la trazione elettrica potrà diventare un'alternativa praticabile per il trasporto individuale e non, ma non è pensabile, neppure in questo caso, di riproporre il modello “una automobile per ciascuno” per mancanza di risorse.

6- La produzione di cibo è attualmente legata a filo doppio alla disponibilità di combustibili liquidi e perciò di petrolio a buon mercato. L'intera filiera agroalimentare industriale globalizzata va incontro a difficoltà crescenti nella fase di assottigliamento della disponibilità di petrolio. Si deve assecondare e stimolare lo sviluppo di filiere alternative che siano ecologicamente e socialmente sostenibili. Anche in questo caso non si può prescindere da una rilocalizzazione della produzione.

La rilevanza delle questioni sopra elencate in una competizione elettorale democratica come quella attuale è altissima. Le elezioni in questione riguardano infatti in gran parte le regioni che, in Italia, appaiono come la divisione territoriale dimensionalmente più adatta per mettere in atto progetti di gestione e governo dell'emergenza. Un candidato serio dovrebbe promettere di opporsi, o in caso di vittoria di porre fine, ad ogni progetto che nasca da una visione conformistica di crescita economica: blocco dei progetti edilizi, blocco della costruzione di strade e capannoni e di ogni altra infrastruttura che porti a quel drammatico consumo del territorio che ha distrutto il suolo fertile delle nostre regioni, marginalizzato e frammentato gli habitat naturali e saturato, senza altra giustificazione che la crescita indifferenziata, gli ecosistemi con gli scarti del nostro metabolismo sociale ed economico. Riduzione a zero dei rifiuti, blocco della costruzione e dell'uso degli inceneritori. Ripensamento totale della politica energetica: abbandono dei e opposizione ai megaprogetti che implicano una produzione polare dell'energia (rigassificatori, centrali nucleare e termoelettriche) a favore di una produzione distribuita, adatta alle necessità delle comunità locali e basata sull'uso esclusivo delle fonti rinnovabili. Questo porterà quasi certamente ad una riduzione dell'offerta e quindi dei consumi, ma è l'unica via per affrontare realisticamente e da subito l'emergenza. Difesa dei suoli agricoli e ripristino della loro fertilità. L'agricoltura industriale petrolio dipendente è segnata, ci si deve attrezzare per produrre cibo in quantità sufficiente per la popolazione residente. E' abbastanza ovvio che un progetto di totale autonomia alimentare sia di lunga o lunghissima durata, a meno che non sia forzato e traumatico per cause esterne (fatto che non si può escludere), ma prima si comincia a metterlo in atto, meno traumatico sarà il passaggio. Per fare questo le valutazioni sull'uso del suolo devono essere fatte olisticamente con il rigoroso rispetto dei vincoli ecologici e non in ossequio alle (sole?) convenienze economiche. Ad esempio l'uso dei suoli fertili e dei prodotti agricoli per la produzione di biomassa e biocombustibili deve essere valutata in vista dell'uso del suolo come fonte primaria di cibo.

Si deve considerare non solo l'urgenza attuale, ma la sostenibilità di certe produzioni. In un ottica del genere diventa chiaro come il sole che ogni progetto di produzione di biocombustibili deve essere abbandonato, ma anche l'uso della biomassa, utilizzando, ad esempio, gli scarti delle produzioni alimentari, può non essere considerato sostenibile a causa del mancato ritorno al suolo agricolo di una parte sostanziale dei nutrienti necessari al ripristino della fertilità. In poche parole per la sostenibilità si deve adottare non le leggi della politica economica, ma quelle della politica ecologica che tiene conto della natura termodinamica del mondo fisico in cui viviamo, fatto di cui l'economia si è dimenticata sia nella pratica che nella teoria.

Per la sostenibilità si deve altresì smettere di elevare lamenti per la decrescita della natalità. La descrescita della natalità è un fatto positivo che non può che aiutarci ad affrontare gli anni che verranno. Dalla decrescita della natalità si deve, di fatto, passare alla decrescita della popolazione. Questo sarebbe l'obbiettivo sensato da perseguire in ogni regione, nell'intero paese e sul pianeta. Una politica di riduzione demografica non può prescindere da una opportuna politica che affronti il temporaneo invecchiamento della popolazione non come una calamità, ma come un INEVITABILE fenomeno da governare.

Nessuna altra ipotesi può condurre ad alcunchè che somigli ad una politica sensata. Questo è il realismo, questo è essere pragmatici. Il resto appare come il sogno stralunato di una classe politica che non è in grado di comprendere i fenomeni in cui si è trovata ad operare e vive nel mondo dell'intrattenimento- spettacolo- informazione come se fosse il mondo reale. Tale classe politica non può chiedere il mio voto.

lunedì, marzo 22, 2010

Il consumo delle risorse rinnovabili




created by Marco Bressan


Non so se vi è mai capitato, ma ogni tanto quando si parla di esaurimento delle risorse "rinnovabili" ci si sente rispondere che, tanto, torneranno in circolo. Un esempio classico è quello dell'acqua dolce: la settimana scorsa ho sentito da due persone il medesimo ragionamento secondo cui "l'acqua che usi non viene mica distrutta, ma torna in circolo". Naturalmente, dopo aver fatto questa considerazione, spesso la conseguenza logica è che possiamo usare quanta acqua ci pare.
È ovvio che c'è qualcosa che non va in questo ragionamento, e che il consumo mondiale giornaliero di acqua deve per forza avere un limite - altrimenti, staremmo violando qualche legge fondamentale della fisica. Qual è dunque l'errore? Se ci pensate un attimo, chi ha proposto quel ragionamento stava facendo un equilibrismo sul significato di "consumo"; ovvero, sul fatto che "consumare" significa usualmente "distruggere": poiché l'acqua non viene distrutta, allora non c'è nessun problema di consumo.
Naturalmente è un discorso che non sta in piedi: anche i soldi che spendo non vengono distrutti, ma questo non mi impedisce certo di finire sul lastrico.

Allora qual è il punto? Se ci pensate un attimo, il problema è sempre lo stesso: per ogni risorsa c'è un tasso di produzione e un tempo di rigenerazione. Nel caso dell'acqua dolce, il tasso di produzione corrisponde al flusso totale verso la terraferma, cioé decine di migliaia di km cubi all'anno. E` un limite fissato dal ciclo dell'acqua e non ci si può fare niente. Si possono anche mettere in cascata più impianti che riutilizzino lo stesso flusso, ma questo ha un impatto sulla qualità dell'acqua e, in molti casi, è impossibile. Pensate ad esempio all'irrigazione: una volta che l'acqua è sparsa in un campo, non la potete più riutilizzare - almeno finché non evapora e precipita nuovamente. Ovvero, dovete aspettare il tempo di rigenerazione.

Dunque, è vero che l'acqua non viene distrutta; ma, dal punto di vista della disponibilità, viene comunque "consumata". Ecco perché il ragionamento "l'acqua che usi non viene mica distrutta, ma torna in circolo" non porta da nessuna parte. Ed ecco perché non possiamo usare quanta acqua ci pare, altrimenti finiremo in brutti guai; anche se, a dire il vero, un po' ci siamo già.

domenica, marzo 21, 2010

Il senso della vita se sei un dinosauro



"Non so, Carlo, credo solo che ero stato pensato per qualcosa di più nella vita" (da Geekologie)

venerdì, marzo 19, 2010

The age of clever



A furia di sentirne parlare in Aspo e dintorni non ho resistito alla tentazione di andare a vedere il film “The age of stupid”, offerto da Legambiente in un piccolo cinema della Toscana. Sono arrivato tardi e la sala era stracolma sicchè, non trovando posto a sedere, mi sono sorbito la proiezione in piedi fin quasi alla fine, quando uno spettatore visibilmente contrariato ha lasciato prematuramente la comoda poltrona, su cui mi sono immediatamente lanciato come un naufrago sulla ciambella di salvataggio. Era dai tempi di “Via col vento” che non assistevo in piedi a uno spettacolo, ma erano passati quasi quarant’anni e li sentivo tutti.
Alla fine della proiezione mi sono guardato intorno ad osservare gli spettatori. Avevano quasi tutti quell’aria di incredulo stupore che spunta immancabilmente sul volto dei miei interlocutori quando parlo loro di picco del petrolio e limiti dello sviluppo. Mi aspettavo che da un momento all’altro si alzasse il Fantozzi di turno esclamando nel delirio generale: “Per me, the age of stupid è una cagata pazzesca”, quando è cominciato il dibattito con gli esperti chiamati da Legambiente, tra cui il buon Meneguzzo di Aspoitalia. Beh, confesso che dopo un po’ sono andato via anch’io. Per carità, non per la qualità degli interventi, apprezzabili e condivisibili, semplicemente perché non sentivo bisogno di una ripassata di concetti già noti. Repetita iuvant, ma fino a un certo punto.
Così, pian pianino, mi sono incamminato verso casa, rimuginando lentamente sugli aspetti contenutistici e formali del film (scusate quest’espressione da cinefilo incallito) che più mi avevano colpito. Non so se capita anche a voi, ma quando esco dal cinema mi rimane ancora addosso per qualche minuto la sensazione strana di far parte del film, come se fossi uscito direttamente dallo schermo. Comunque, provo qui a sintetizzare il frutto delle mie elucubrazioni vaganti:
1) Il film è di buona fattura. Il ritmo è incalzante e il montaggio della storia tiene viva l’attenzione. La scelta di alternare scene reali con cartoni animati per illustrare la storia energetica dell’umanità è originale e indovinata, come pure la figura del narratore nella torre-biblioteca che compulsivamente richiama spezzoni dei filmati di quando e quanto eravamo stupidi. La fotografia è ottima.
2) La storia mostra un pianeta stravolto dalle conseguenze planetarie dei cambiamenti climatici indotte dall’uso dei combustibili fossili e, forse per questo, sottovaluta e approfondisce poco la questione cruciale del limite delle risorse. All’inizio del film la voce narrante ci annuncia che il petrolio finirà tra quarant’anni, senza spiegare che oggi la produzione ha iniziato a declinare, inducendo anche nello spettatore l’effetto di sottovalutazione del problema.
3) Il titolo del film non mi convince, io l’avrei chiamato “The age of clever”, l’era dell’intelligente, e spiego perché. L’enorme potenza distruttrice dell’ecosistema che l’umanità ha prodotto negli ultimi centocinquant’anni, è stata possibile solo grazie alle innumerevoli scoperte scientifiche e tecnologiche necessarie per sfruttare le risorse naturali disponibili sulla Terra, che non erano accessibili alle generazioni precedenti. Tali scoperte sono state partorite da poche menti con intelligenza superiore alla media e hanno consentito alla maggioranza della popolazione umana il comportamento consumistico che sta portando la specie all’autodistruzione. L’intelligenza è una delle caratteristiche della nostra specie che presenta una distribuzione statistica nella popolazione rappresentata, guarda un po’, proprio da una gaussiana. Circa il 16% della popolazione è caratterizzata da un’intelligenza superiore alla media (con un 2% di geni), un altro 16% ha un’intelligenza inferiore alla media (con un 2% di minorati mentali). Il resto è il famigerato uomo medio delle ricerche di mercato contemporanee. In genere nelle popolazioni animali avviene che meccanismi genetici (e culturali nell’uomo) emarginano i devianti dalla norma (cioè dalla media) impedendone una diffusione nella popolazione con potenziali effetti distruttivi. Nel caso dell’intelligente invece, la società umana (tranne che in qualche raro caso come l’Italia) ha trasformato questo meccanismo escludente in un meccanismo di valorizzazione che tende a premiare questa qualità intellettiva. Il motivo è comprensibile: lo sfruttamento della risorsa costituita dagli intelligenti consente di migliorare le condizioni di vita dell’intera società.
Lo so, qualcuno ora osserverà che la colpa non è degli intelligenti, ma degli stupidi che applicano male le loro intuizioni e invenzioni. Ma è un dettaglio secondario, la causa prima rimangono sempre le brillanti menti che hanno progettato il progresso umano e hanno aperto la strada ai comportamenti umani consumistici e dissipativi.

Ho aperto la porta di casa e sono andato a letto. Prima di addormentarmi ho pensato che non sarà l’intelligenza a salvare l’uomo, ma la temperanza.

martedì, marzo 16, 2010

Futuro si, nucleare no



created by Luigi Sertorio

1

Poiché l'alimentazione elettronucleare civile italiana non è la continuazione di una realtà esistente, ma è una novità, il governo dovrebbe elaborare uno studio programmatico e sottoporlo alla discussione del Parlamento che a sua volta dovrebbe interloquire con tutti i cittadini. Tuttavia il presente Parlamento è stato votato prima che il tema nucleare, che viene presentato non come idea teorica ma come pretesa esecutiva, saltasse fuori: ne segue che la dinamica dell’informazione su un problema così importante è anomala. Il progetto nucleare italiano ha implicazioni decisionali immediate, ha implicazioni di strategia economica a lungo termine, e infine implicazioni tecnico-scientifiche su un intervallo di tempo di imprecisata lunghezza. Osserviamo che queste tre fasi, inesplorate per l’Italia, sono all’opposto ben note e fanno parte della storia degli ultimi sessantasette anni per gli Stati Uniti. E’ necessario ricordare queste tappe essenziali.

- Il progetto Manhattan, 1943-45, frutto di circostanze scientifiche favorevoli e decisioni immediate, segretissimo, e mastodontico come impegno tecnologico e organizzativo, culminato con Hiroshima e Nagasaki.

- Il periodo della guerra fredda, 1945-91, dominato dalla produzione industriale di bombe nucleari, sommergibili nucleari e, in misura minore, di centrali elettronucleari civili. Naturalmente queste produzioni su larga scala nell’arco di tempo di oltre mezzo secolo hanno visto il succedersi di diverse generazioni di aggiornamenti tecnologici.

- Il problema aperto delle scorie nucleari. Anche qui segretezza alla sorgente e assenza di informazione alla base dei cittadini. Esiste il deposito di Yucca Mountain in Nevada? Quale capienza ha (quella presente e quella futura)? Quanti e dove sono i sommergibili nucleari dismessi (quanti sono attivi, quanti programmati)? Quante e dove sono le bombe nucleari dismesse (quante attive, quante programmate)? Tutte le filiere dei cicli nucleari, incluso ovviamente il nucleare civile, finiscono a Yucca Mountain? Sappiamo che la risposta è no. Quali altri siti sono implicati?

Il progetto nucleare italiano è piccolino e palesemente non autonomo. L’Italia non fa parte del club nucleare del quale i membri più importanti sono USA, Russia, Inghilterra, Francia, Cina. Tra questi paesi esistono contrasti passati e presenti. In tale dinamica l’Italia dal 1945 a oggi è stata implicata solo con un ruolo passivo. In conclusione i cittadini intelligenti dovrebbero porsi queste domande: “perché si propone questa visione del futuro del paese, da che radici parte, verso quale direzione si muove? “

Per rispondere a queste domande dobbiamo affrontare una analisi articolata su tre punti: scelte, spese, responsabilità.

Scelte.

Quale è il panorama sociale ed economico al quale si riferisce l'alimentazione energetica elettronucleare? L'energia entra nella vita domestica, nei trasporti, nella produzione di beni semipermanenti o di consumo, in un mix che oggi è il risultato della crescita, mai veramente pianificata con una visione a lungo termine, avvenuta dopo le distruzioni materiali e morali della guerra, ossia il periodo che parte dal 1945. Le vicende caratterizzanti la vita economica e sociale dell’Italia dopo la sconfitta della guerra non si articolarono per scelta politica libera, autonoma, ma per assoggettamento all’esorbitante superiorità militare e industriale del vincitore, l’America, che plasmava le relazioni e gli scambi di tutta la metà occidentale dell’Europa, quella raccolta sotto il trattato Nato e contrapposta all’altra metà appartenente al Patto di Varsavia. Sistemi economici e politici molto diversi anzi contrapposti in una guerra subdola e nascosta, la guerra fredda. In generale possiamo dire che per l’Italia l'alimentazione energetica è stata basata sul petrolio, le fabbriche sono state inventate e sono state indirizzate a produzioni tutte basate sul petrolio, che veniva e viene fornito da poche sorgenti esterne al nostro paese. L'Italia in tutto questo periodo evolutivo ha importato la grande maggioranza dell'energia primaria. E’ chiaro che l’assetto economico energivoro faceva molto piacere alle compagnie petrolifere americane, così come è chiaro che le iniziative autonome di Enrico Mattei furono sgradite, considerate sovversive e fermate non con le parole ma coi fatti. Nel regime ipotetico in cui ci fosse una importante presenza dell'energia nucleare l'alimentazione sarebbe ancora più rigida e centralizzata e si aumenterebbe ancora di più l'allontanamento da un modello di vita collettiva del tipo ad alimentazione energetica diffusa, una dinamica sociale a rete anziché a polo erogatore. Anche nel progetto nucleare l'Italia importerebbe energia primaria da sorgenti esterne e inoltre si orienterebbe verso un processo di erogazione e distribuzione poco flessibile. Quale è la valutazione fornita dal governo sul futuro del paese che porta alla preferenza per la erogazione di energia nucleare estero-dipendente rispetto alla erogazione di energia diffusa, basata sulle risorse proprie del nostro territorio? Ci possono essere ottime ragioni per la preferenza nucleare, ma ci può essere totale assenza di analisi progettuale su tale dilemma: la esposizione dei motivi della scelta è obbligatoria. Oggi in Italia non esiste l'alimentazione nucleare, ed esiste una piccola penetrazione della tecnologia di alimentazione solare nelle sue tre forme o canali inorganici: termico, elettrico, eolico. Poi ovviamente c'è il canale organico o biologico, il cibo, quello tradizionale noto e sfruttato da sempre. Peraltro, il trasporto dei generi alimentari a lunga distanza è basato sull'uso di mezzi energivori (tutti a loro volta basati sulla sorgente petrolio), che si contrappongono alla dinamica di produzione e consumo locale. La movimentazione dei generi alimentari su lunghi tragitti può essere stata interessante in una certa fase di sviluppo per paesi a bassa densità di popolazione, ma è discutibile per un paese come l'Italia. L'energia elettronucleare dovrebbe operare nel contesto generale della vita attiva e produttiva dell'Italia e quindi dovrebbe essere giustificata da scelte che tengono conto di varie alternative progettuali. C'è certamente un dilemma, e dunque la scelta nucleare deve essere discussa molto seriamente e non fatta passare come semplice decisione settoriale. E’ chiaro che il posizionamento dell’Italia nel sistema di alimentazione nucleare globale è assoggettato a un complesso di pressioni esterne e queste non devono restare nascoste.

E' evidente in conclusione che il tipo di società che si configura per il futuro non è lo stesso nel caso nucleare e nel caso solare. Quale futuro a lunga distanza il governo propone? Tale proposta deve essere esposta non solo al Parlamento ma in tutti i canali di discussione democratici.


Spese.

Nel progetto nucleare la voce "spese" è peculiare perché implica un mix internazionale, ben diverso dal progetto solare che implica all'opposto un mix locale. Le spese si differenziano in tre fasi: costruzione delle centrali, gestione e alimentazione delle centrali, dismissione delle centrali. I tempi tipici possono essere nella prima fase dell'ordine di 5 anni, nella seconda fase 50 anni, nella terza fase non si sa, perché l'insieme dei problemi da affrontare è complicatissimo.

A) La fase di costruzione implica sia aziende italiane sia aziende straniere, dove la differenza fra italiano e straniero può essere difficile, non netta, poiché le attività imprenditoriali multinazionali operano su una scacchiera del denaro di tipo globale. Tuttavia un certo flusso di denaro esce dallo stato italiano e tale flusso uscente deve essere documentato e giustificato.

B) La fase di gestione implica l'acquisto del combustibile e la discarica del combustibile esaurito, anno per anno. Tale dinamica sarà operativa per un periodo dell'ordine di grandezza di mezzo secolo. Quali garanzie sa dare il governo presente sugli aspetti decisionali e burocratici dei problemi che si presenteranno per questo lungo periodo di tempo? Quali enti sono o saranno preposti al controllo di tale dinamica? Non abbiamo in Italia alcuna esperienza per una gestione così importante per un tempo di tale durata. Non si parla di progetto (che può essere comprato da un ente straniero ben collaudato), ma di controllo, due aspetti ben distinti della realtà, persone e strutture gerarchiche diverse. Un paragone potrebbe essere fatto con la costruzione e la gestione di grandi dighe e relativi bacini idrici artificiali. In questo caso l'esperienza italiana è stata tormentata e negativa, ingegneri progettisti bravi, valutazioni geologiche cattive, dialogo fra il calcolo scientifico e l’informatica burocratica assente. Un motivo di più per esigere delle garanzie.

C) La fase di dismissione. E' la più complessa, è quella che nessun paese che abbia sperimentato l'avventura nucleare ha saputo risolvere soddisfacentemente. Quando non ci sarà più petrolio chi azionerà i mezzi pesanti necessari per eseguire le opere di bonifica nucleare? Si manterrà attiva una ultima centrale nucleare onde alimentare le opere implicate nella bonifica delle centrali che la precedettero?

Responsabilità.

L'assunzione di responsabilità ovviamente vale in tutte le fasi del progetto ma diventa particolarmente importante nella fase finale di dismissione delle centrali. Nessuno dei politici che decidono oggi sarà vivo nel periodo della dismissione. La dismissione non è un lascito concettuale ma un ben preciso lascito fisico. Ciò che è deciso oggi è la prenotazione di azioni che dovranno essere intraprese fra oltre mezzo secolo. Il governo attuale pensa di allocare delle risorse socioeconomiche oggi per tale problema futuro? Alternativamente è in grado di dichiarare che ha predisposto un meccanismo automatico o semiautomatico di seppellimento eterno delle centrali a fine vita? Si parlava molti anni fa di meccanismi di autoseppellimento, ma erano considerazioni al livello di fantascienza. Quale soluzione ha scelto il governo italiano presente? Esistono dei precedenti, nella storia delle nazioni civili, di decisioni che implicano responsabilità alle quali non si può far fronte? Esistono, anche solo in teoria, leggi dello Stato scritte per gestire degli eventi non noti, quindi valide non per oggi ma per il lontano futuro? Il ministro Scajola non mente sulle discariche nucleari futuribili perché non sa quello che dice, peggio, non può saperlo; però decide, ha il potere di nominare un ente incaricato di individuare i posizionamenti geologici, i metodi di scavo, e così parte una successione di artifici per coprire gli errori e le bugie: e alla fine, chi lo punirà fra cento anni?

In conclusione il problema delle responsabilità è enorme e inesplorato. Nei paesi in cui l'erogazione di energia elettronucleare civile è in opera già da diversi decenni, gli aspetti legali furono relegati alla struttura esistente del sistema assicurativo. Insomma alla legge civile. Con la comparsa di eventi socialmente dannosi implicanti l'intervento delle compagnie di assicurazione sono nati dei contenziosi che sono tuttora irrisolti. Il Diritto degli stati e il Diritto internazionale sono impreparati di fronte a problemi nei quali le variabili causa, effetto, tempo, quindi i concetti di proprietà e responsabilità, sono mal definiti. Per questo la tendenza è di sottomettere il nucleare civile al controllo militare, cioè fare tornare il nucleare civile sotto il dominio del nucleare militare, che è la matrice da cui tutta l'industria nucleare è nata e cresciuta a partire dagli anni fra il 1943 e il 1945 sia in USA che in Unione Sovietica. Vuole il governo italiano indirizzarsi su tale strada pericolosissima? Non ci si muove sul terreno internazionale del potere militare nucleare solamente armati di furbizia, ma privi di forza, anzi essendo storicamente in posizione subalterna alla strapotenza americana. La militarizzazione dei siti nucleari potrebbe implicare una dipendenza additiva rispetto alla dipendenza puramente economica. Così come l’Italia oggi deve accettare di essere portatrice di alcune fra le più grandi basi militari USA, potrebbe essere costretta ad accettare di essere portatrice di siti di discarica nucleare utilizzati anche da altri Paesi. Questa prospettiva è di estrema importanza, è difficilissimo valutare ora le conseguenze storiche che possono essere implicate; non si possono tollerare patti internazionali segreti, questo punto deve essere chiarito dal governo, e i cittadini devono studiare, informarsi, e arrivare a creare dei canali intelligenti per pretendere che il governo si esprima con chiarezza su tali problemi.


2

L’analisi della prima parte, scelte, spese, responsabilità, si confronta con il vuoto storico dell’Italia nella dinamica industriale nucleare, sia militare che civile. Non fa quindi stupire che il governo attuale non abbia fatto precedere la comparsa delle decisioni sul programma nucleare da una presentazione logica: non esiste, per questo, il fondamento culturale né dalla parte originante né dalla parte della cittadinanza passiva recipiente. Il dialogo, che dovrebbe essere articolato, è purtroppo limitato in gran parte a due sole voci: l’asserzione autoritaria che le centrali nucleari moderne sono sicurissime, a cui si oppone la conoscenza della gestione clientelare e corrotta della cosa pubblica, di cui tutti i cittadini italiani sono espertissimi, che trasforma la sicurezza in paura. La sicurezza esiste nel Laboratorio di Los Alamos, sede da sessantasette anni di eccellenza e disciplina, là dove ancora si ricorda il rigore di Oppenheimer, di Fermi, di Bethe, la sicurezza esiste nei libri di fisica e nei manuali della tecnica; la corruzione esiste nel tessuto della nostra società e delle nostre gerarchie. Il risultato del dialogo è zero, e la manovra dei filonucleari improvvisati ha via libera.

In conclusione il programma nucleare del governo italiano è caratterizzato da insipienza e segretezza. Invece vorremmo vedere in azione saggezza e cultura alla guida dei progetti tecnici e industriali, e chiarezza nelle strategie della dinamica della nazione. Ma esistono tali virtù altrove, nel grande mondo che ci circonda? Limitiamoci a considerare due nazioni, Germania e Stati Uniti. Un buon motivo per limitarci a questa scelta è che la Germania è stata la culla dell’industrializzazione europea basata sulla sorgente fossile carbone già nell’ottocento, e poi anche nazione portatrice della cultura scientifica da cui nacque la fisica nucleare nella prima metà del Novecento; ha qualcosa da insegnarci. Gli Stati uniti sono cresciuti sul flusso d’alta marea della industrializzazione basata sull’abbondanza della sorgente fossile petrolio e poi sono diventati, a partire dal 1945, la massima potenza nucleare. Ebbene la Germania è oggi al primo posto nel mondo per la ricerca e sviluppo della tecnologia solare, eolica e da biomassa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la nostra attenzione è polarizzata sulle recenti dichiarazioni del presidente Obama relative al finanziamento statale per la costruzione di “alcune” centrali elettronucleari. Le parole del presidente americano, ad ascoltarle con attenzione, sono un capolavoro di scaltrezza dialettica. E’ noto che in USA una piccolissima parte della popolazione segue il discorso politico; chi ascoltava il discorso di Obama sul nucleare, e ora chi discute sulle sue parole, è una minoranza di persone letterate, orbene queste persone sono state invitate al dialogo, al dibattito razionale sul dilemma nucleare e ambiente, invitate a pensare alla solidità dell’economia nazionale, all’orgoglio della nazione, al futuro. Chi segue la stampa americana sa che tale tipo di dibattito è già in corso da tempo e quindi, stimolati dalle parole del presidente, si può continuare a scrivere e parlare e scambiarsi opinioni per tantissimo tempo. A cosa serve guadagnare tempo? A portare avanti la dinamica industriale nucleare, l’aggiornamento della tecnologia dei sommergibili nucleari, tecnologia per la quale è in atto una transizione evolutiva sia per il normale ritmo industriale di rinnovamento (il ciclo è rozzamente valutabile in dieci o quindici anni) sia per l’innovazione imposta dalla emergenza delle nuove tecnologie russe e cinesi. Infatti le caratteristiche prestazionali della flotta sottomarina sono intimamente legate alle caratteristiche della tecnologia missilistica - si parla ovviamente di sommergibili portatori di missili balistici. La ricerca e sviluppo nucleare è realizzata da tre o quattro complessi industriali; si tratta di attività complicatissime che richiedono competenze specialistiche implicanti anni di educazione di fisici, ingegneri, tecnici spesso operanti in simbiosi, ed è proprio da questa realtà che nascono i tempi tipici ciclici dell’aggiornamento della produzione citati prima. L’America con Truman ha aperto la strada all’era delle armi nucleari prodotte su larga scala, ma la proliferazione tanto temuta dalle persone intelligenti è avvenuta, solo l’ingenuità o l’ignoranza dei politici credeva che le armi nucleari potessero restare un segreto e un privilegio nelle mani del Pentagono. I fisici, a partire da Einstein e Fermi, hanno sempre saputo che non è così, e furono loro gli iniziatori dei ragionamenti sulla logica globale del disarmo. Non ascoltati. Ora è compito dell’America continuare a gestire, in qualità di nazione più potente, il precario stato di cose dell’armamento nucleare globale. E questo ingrato compito spetta al presidente Obama.

L’Italia si trova a un bivio. Tentare la strada della leadership nella scienza del futuro, l’ecofisica, e nelle tecnologie che ne conseguono, ossia entrare in collaborazione e competizione con la Germania. Questa sarebbe la decisione orgogliosa, nella tradizione dell’eccellenza che avevamo nell’era di Edoardo Amaldi, quando le nostre università erano alla frontiera della fisica delle alte energie, dell’astrofisica. In senso profondo l’ecofisica è nella filiera di questa grande matrice di pensiero. Oppure seguire la strada del continuo vassallaggio, ora verso l’America, domani non si sa, Arlecchino tende a essere servo di due padroni.

domenica, marzo 14, 2010

La rivincita di Cassandra



E' passato poco più di un mese da quando ho scelto il nome di "Effetto Cassandra" per un blog personale che avevo messo sul web un paio di mesi prima. La figura di Cassandra mi è parsa significativa per un blog dedicato a discutere come la società non solo rifiuta il messaggio che arriva dalla scienza ma anche demonizza attivamente il messaggero, ovvero gli scienziati. Questo oggi lo si vede principalmente con la scienza del clima, ma è un comportamento del tutto generale. Lo abbiamo visto nel passato recente, per esempio, con lo studio dei "Limiti dello Sviluppo" del 1972, demonizzato negli anni '80, al punto che ancora oggi molta gente continua a credere che era uno studio "sbagliato". (non lo era). Ma anche Galileo Galilei, in fondo, fu vittima dello stesso meccanismo.

Su "Effetto Cassandra" ho parlato principalmente di clima: l'idea che avevo era ed è di smascherare gli imbroglioni; ovvero i propagandisti di professione che stanno attivamente promuovendo un movimento politico che usa le inevitabili incertezze di un campo scientifico complesso come quello del clima per screditare e demonizzare la scienza in generale.

Gli imbroglioni sono un piccolo gruppo di professionisti pagati dalle lobby del carbone e del petrolio. Non c'è dubbio che sanno fare bene il loro mestiere e hanno avuto molto successo negli ultimi tempi nello screditare la scienza e gli scienziati. Fra le altre cose, hanno generato un intera tribù di persone mentalmente squilibrate che si sono dedicate a sfogare le loro personali frustrazioni insultando gli scienziati e tutti quelli che sostengono l'interpretazione scientifica dei cambiamenti in corso. Il grande polverone ha anche confuso un gran numero di brave persone che si trovano oggi a credere in buona fede che il concetto di riscaldamento globale causato dall'uomo sia un imbroglio ordito da un gruppo di scienziati malvagi.

Da questo ragionamento, è nato il blog "effetto Cassandra", un blog dove si parla principalmente di comunicazione scientifica che cerca di contrapporsi alla marea montante di anti-scienza che sta invadendo tutti gli spazi mediatici. Un blog così, in Italia mi sembra che non ci sia; per ora, a parte l'ottimo climalteranti, che tuttavia è più dedicato alla divulgazione scientifica che a discutere di politica della comunicazione. 

Devo dire che Cassandra è stato un notevole successo. Senza nessuna promozione, sono arrivato a circa 400 visitatori al giorno. Non è tanto in confronto ai blog più consolidati; per esempio ASPOItalia è intorno ai 900, Crisis intorno ai 2500. Ma per arrivare a 400 visite al giorno su "nuove tecnologie energetiche", per esempio, mi ci è voluto un anno! Arrivarci in un mese con Cassandra è un bel risultato.

Il blog Cassandra è stato citato su Climalteranti, su Crisis, su Petrolio, su Ocasapiens e altri. Mi sono avuto pubbliche invettive da Paolo Granzotto su "Il Giornale" e insulti privati per un post relativo a un articolo di Giusebbe De Bellis, su "il Giornale". In più mi sono arrivati tantissimi accidenti e insulti di vario genere sia come commenti al blog o su altri siti, oppure anche come messaggi privati. Per il momento, sono stati insulti raramente violenti e/o volgari e non ho ricevuto minacce di morte (come invece è capitato a Luca Mercalli). Più che altro sono stato accusato di essere una vergogna per la scienza, di non meritarmi il titolo di professore, di essere in preda a una crisi di senilità, di essere un disinformatore pagato da "qualcuno", eccetera, eccetera.... Insomma, ho pestato qualche piede in giro. In effetti, devo dire che avevo dei sassolini nelle scarpe e una certa voglia di levarmeli; e non ho ancora finito.

D'altra parte, devo anche dire che il successo del blog "Cassandra" mi preoccupa un po'. Se la situazione degenera al livello in cui è arrivata negli Stati Uniti e in Inghilterra, c'è da cominciare ad aspettarsi minacce di morte e anche di quelle molto pesanti che cominci a dubitare che qualcuno voglia mettere in pratica.

Devo anche dire che un post al giorno tutti i giorni è un grande stress e non so quanto a lungo riuscirò a tenere questo ritmo, soprattutto perché è una cosa che posso fare soltanto nel mio tempo libero. Lo stress viene anche aumentato dal fatto che ogni volta che pubblico qualcosa su Cassandra faccio andare in bestia un certo numero di persone il cui equilibrio mentale non mi sembra del tutto garantito.

D'altra parte, credo anche che ogni tanto uno deve anche prendere una decisione e dire certe cose che gli sembra giusto dire. E non sono il solo a pensarla così - ho ricevuto anche molti messaggi di incoraggiamento e di supporto. Insomma, io ho cominciato, ma bisogna che qualcuno mi dia una mano. Se non volete vedere la scienza sepolta da un'ondata di anti-scienza e di propaganda politica, vedete di farvi sentire anche voi.

Ecco il link al blog "Effetto Cassandra" Dateci un occhiata e ricordatevi che Cassandra, ai suoi tempi, aveva avuto ragione!

sabato, marzo 13, 2010

Blackout, ovvero, l’insostenibile leggerezza nel trattare il carbone


created by David Conti

Non c’è che dire. In questi anni il petrolio ha decisamente fatto parlare di se. Dopo il lungo sonno degli anni 80 e 90, nei quali l’Economist con il suo proverbiale occhio lungo titolava in prima pagina “affoghiamo nel petrolio”, il decennio appena trascorso ci ha regalato una nuova prospettiva sull’oro nero. Certo, siamo ancora lontanissimi da una vera e propria presa di coscienza globale sul concetto di scarsità di una risorsa non rinnovabile e fondamentale per la nostra civiltà, ma, nel muro di ottimismo spinto e di business as usual messo su da media e politicanti iniziano ad intravedersi delle crepe, beninteso, per chi ha la pazienza e le capacità di analisi per notarle.

Ma c’è un’altra risorsa, importante come se non di più del petrolio, sulla quale perdura un silenzio inquietante: il carbone, che da solo contribuisce al 40% della produzione elettrica mondiale. Onore e lode quindi a Richard Heinberg che con il suo libro, Blackout, offre al lettore medio (categoria alla quale appartiene il sottoscritto) una panoramica esaustiva, ovviamente dal punto di vista del picco di Hubbert. Ed è a partire dalle primissime pagine che smonta, pezzo per pezzo, la formula che nelle intenzioni dei sostenitori del carbone dovrebbe sopire sul nascere ogni dubbio sulla sua abbondanza: il famigerato rateo R/P, risorse diviso produzione. Il risultato di questa formula, espresso in anni, non tiene conto della curva di Hubbert e nel lettore, sia esso un cittadino qualunque o l’amministratore delegato di una grossa compagnia, instilla un falso senso di sicurezza. “Abbiamo carbone per i prossimi 200 anni” è lo slogan dell’industria carbonifera americana che sembra chiudere la discussione, poco importa se i 200 anni prospettati originariamente ad un’analisi più scrupolosa risultano quasi dimezzati e che alla fine di questi la produzione disponibile non sarà che una frazione minima rispetto a quella odierna. Tanto basta.

Il campanello di allarme di Heinberg non fa che rilanciare le preoccupazioni segnalate in 2 report tanto significativi, quanto ignorati dai policy makers internazionali. Il primo, pubblicato nel 2007 dall’Accademia Americana delle Scienze, sostiene che le attuali stime sulle riserve di carbone negli Stati Uniti sono state stabilite con metodologie non aggiornate dal 1974 e che l’applicazione delle ultime tecniche disponibili potrebbe ribassare, e di molto, questo dato. Il secondo report pubblicato lo stesso anno è firmato dall’Energy Watch Group , un gruppo indipendente di scienziati impegnati nel fornire informazioni quanto più accurate possibili sullo stato delle risorse energetiche mondiali. Trattando i dati esistenti con la “cura Hubbert”, gli analisti dell’EWG indicano nel 2025 l’anno del possibile “picco del carbone” a livello mondiale, posticipato di 10 anni per quanto riguarda gli States.

Il resto del libro risponde pienamente a quello che ci si aspetta da Heinberg, ovvero, cifre e proiezioni riguardanti ogni regione mondiale di produzione, una rassegna delle ultime tecnologie disponibili ed i classici scenari futuribili. Provando ad immaginare quale sarà la nuova frontiera del carbone, troviamo in Pole Position il Sud America, nello specifico Colombia e Venezuela pronte a rifornire dei giganti insaziabili come Stati Uniti ed Europa. Già, proprio gli States che abbondano della materia prima, suggerisce Heinberg, potrebbero preferire alla Lignite del Wyoming da trasportare in treno il Carbone bituminoso colombiano da trasportare in nave. Per la serie, avere “200 anni” di riserve conta poco se la maggior parte non sono di buona qualità.

Per quanto riguarda gli scenari tratteggiati da qui al 2040, il fallimento clamoroso di Copenhagen mi fa propendere verso la prima ipotesi offerta dall’autore: “Business as Usual”. In questo scenario, gli sforzi mondiali per limitare l’emissione di Co2 sono puramente di facciata, mentre si brucia carbone a go go per compensare il declino della produzione petrolifera e, soprattutto, per cercare di non far inceppare la spaventosa macchina della “crescita”. La crescita esponenziale del mercato delle auto elettriche non fa che aumentare la richiesta di carbone andando ad impattare violentemente sui prezzi.

Nel frattempo, l’economia di Cindia è sotto stress per delle carenze locali di carbone mentre nell’occidente si assiste ad una progressiva rilocalizzazione delle industrie pesanti. Dopo il 2020 il declino di petrolio e gas inizia a farsi sentire pesantemente, spingendo tutti alla disperata impresa di gasificare e liquefare quanto più carbone disponibile. La maggior parte delle auto sono elettriche e gli aerei volano solo grazie alle buonanime di Fischer e Tropsch, tuttavia il traffico automobilistico ed aereo è sensibilmente ridotto rispetto ai livelli del 2010. Nelle nazioni più industrializzate si assiste al razionamento energetico e questo comporta un notevole peggioramento delle condizioni di vita. Fra il 2030 ed il 2040 il commercio mondiale di carbone è praticamente bloccato. Chi ha qualsiasi tipo di combustibile fossile lo usa esclusivamente per se, mentre la crisi economica ormai istituzionalizzata ed il graduale decadimento delle infrastrutture e dell’industria non permettono di completare la transizione verso le energie rinnovabili. Solo le nazioni con alla base un’agricoltura di sussistenza ed una discreta dose di fonti fossili possono pensare di sopravvivere. In qualsiasi altra nazione i governi semplicemente smettono di operare e l’ordine sociale svanisce. Blackout. Brrr…

PS: Una manina innocente ha consegnato una copia del libro ad un importante dirigente del settore. La reazione avuta mi ha definitivamente convinto della veridicità dello scenario tratteggiato da Heinberg.

mercoledì, marzo 10, 2010

La cura del ferro per risparmiare energia

Di Terenzio Longobardi



La mobilità collettiva su ferro è a mio parere la soluzione più efficiente sul piano economico, gestionale, ambientale ed energetico per affrontare sia gli attuali gravi problemi di inquinamento delle nostre città, sia per costruire un modello di mobilità sostenibile che minimizzi l’uso dei combustibili fossili.
In altri articoli (1, 2) ho spiegato le ragioni a favore dei moderni sistemi ferro-tranviari che consentono, rispetto al trasporto collettivo su gomma, una maggiore efficienza nella gestione delle risorse economiche pubbliche. In questa sede intendo affrontare un’altra tematica cruciale, quella energetica che, se non ha ancora assunto un ruolo determinante nell’equilibrio economico delle aziende di trasporto (le spese energetiche incidono attualmente solo per il 10% dei costi operativi), riveste importanza strategica nel risparmio di risorse energetiche e nella riduzione delle emissioni di inquinanti e di gas serra nel settore dei trasporti (che incide in Italia per il 30,9% dei consumi finali di energia e per il 62,2% sui consumi finali di petrolio).

Anche da questo punto di vista le moderne tecnologie tranviarie si rilevano fortemente competitive non solo nei confronti del trasporto privato, ma anche rispetto ai mezzi di trasporto pubblico su gomma (autobus e filobus). I motivi di questa maggiore efficienza energetica sono insiti nella modalità del servizio e nei materiali che determinano il movimento dei mezzi sull’infrastruttura di trasporto.

Per spiegare quest’ultimo aspetto, dobbiamo fare brevemente riferimento a concetti di fisica. L’energia necessaria a muovere un mezzo di trasporto è proporzionale alla forza da applicare per vincere le resistenze al moto. Tale forza di trazione è data dalla somma delle forze che si oppongono al moto, cioè dalla sommatoria delle resistenze al moto e della resistenza all’inerzia del mezzo di trasporto.
Le resistenze al moto si dividono a loro volta in sistematiche Rs ed occasionali Ro. Le resistenze sistematiche si ricavano dalla somma di tre componenti, la resistenza dovuta all’attrito degli organi meccanici che trasmettono il moto, la resistenza di rotolamento dovuta all’attrito volvente delle ruote sul piano di trasporto, la resistenza che l’aria oppone al moto del veicolo. Le seconde due sono nettamente prevalenti sulla prima.

Nella tecnica dei trasporti, per calcolare la forza di trazione Ft e tutte le caratteristiche del moto si integra un’equazione del tipo Ft(v) – R(v) = M * dv/dt, dove R è la somma di tutte le resistenze esterne al moto e M * dv/dt è la resistenza all’inerzia del veicolo, ponendo cioè tutti i termini dell’equazione in funzione della velocità. Ma ai nostri fini accontentiamoci di una stima grossolana.
Per confrontare le due modalità di trasporto consideriamo per le precedenti resistenze i valori per unità di peso, e trascuriamo le resistenze minori. Avremo perciò che la forza unitaria di trazione ft è data dalla somma delle resistenze al rotolamento, all’aria e all’inerzia del veicolo.
La prima è data dalla formula:

Rv = Kv/r * P

dove Kv è il coefficiente di attrito volvente, r è il raggio della ruota e P è il peso del veicolo.

I valori di Kv per il pneumatico su strada asciutta (autobus o filobus) variano tra 5 mm. e 10 mm. mentre per il cerchione sulla rotaia del tram è mediamente di 0,3 mm. (quindi circa 20 volte meno). La spiegazione di questa notevole differenza è legata al fatto che sulla superficie di contatto, la distribuzione delle pressioni di contatto non risulta simmetrica rispetto alla direzione della forza premente, ma le pressioni risulteranno maggiori dalla parte del senso del moto, di un fattore dipendente proprio dal tipo di materiali a contatto e dalla loro elasticità reciproca. Il raggio della ruota di un autobus o filobus è circa 1,5 volte quello del tram.

Introducendo i valori precedenti nella formula scopriamo che la forza per unità di peso necessaria a vincere le resistenze al rotolamento per il tram è circa 13 volte più bassa di quella del mezzo pubblico su gomma.

Passiamo ora al valore della resistenza aerodinamica Ra. Questa resistenza al moto è l’unica che non dipende dal peso del veicolo e diventa preponderante rispetto alle altre per valori della velocità superiori a 80 km/h – 90 km/h (quindi non nel nostro caso considerando che la velocità commerciale dei mezzi pubblici urbani è di 20 km/h – 30 km/h, con velocità massime di 60-70 km/h). Essa si scompone in una resistenza frontale, in una laterale e sottocassa e in una di coda. La formula per determinare la resistenza frontale, nettamente prevalente rispetto alle altre due è:

Ra = Ka * d * S * V², dove

Ka è un coefficiente di forma della testata del veicolo, d è la densità dell’aria, S è la superficie frontale e V è la velocità. Considerando che per le maggiori caratteristiche di aerodinamicità il tram moderno ha un valore di Ka uguale a circa la metà di quello di autobus e filobus (0,3 contro 0,6) e una superficie S inferiore di circa il 15%, ricaviamo che anche per quanto riguarda il valore unitario ρa di questa resistenza al moto il tram è vincente.

La resistenza all’inerzia è data dalla formula:

Ri = Ki * M * dv/dt, dove

M è la massa del veicolo, Ki è un coefficiente correttivo d’inerzia che tiene conto delle masse rotanti connesse alle ruote, dv/dt è l’accelerazione del veicolo.

Ki assume valori tra 1,1 e 1,4 per i mezzi su gomma, leggermente più bassi per il tram (0,7 – 1,1). L’accelerazione varia in funzione delle condizioni di moto nel tempo, però possiamo considerare che l’accelerazione media sia sicuramente inferiore nel caso del moto più regolare (a velocità costante l’accelerazione è nulla) del tram, determinato dalla sede propria e dai tratti maggiormente rettilinei delle linee. In conclusione, possiamo affermare con buona approssimazione che anche il valore unitario ρi (kg/t) di questa resistenza per il tram sia ordinariamente inferiore rispetto al mezzo pubblico su gomma.

Ricapitolando, il tram rispetto ai mezzi pubblici su gomma ha un valore della resistenza unitaria al moto nettamente più basso, (secondo alcune fonti, circa dieci volte; in termini assoluti per i sistemi ferroviari 2,5-3 kg/t contro i 20-30 kg/t su strada) e un valore della resistenza unitaria all’inerzia del mezzo più contenuto. Per questo, il tram moderno necessita di una forza unitaria di trazione inferiore e, conseguentemente, una minore spesa energetica. Nei confronti dell’autobus questo vantaggio è ancora più accentuato a causa della maggiore efficienza di trasformazione del motore elettrico rispetto al motore a scoppio.

Naturalmente, la stima di massima che ho finora effettuato ci serve per stabilire un termine di confronto tra vari mezzi, però concorda abbastanza bene con i pochi dati empirici disponibili. Le aziende di trasporto sia italiane che estere in genere oppongono il segreto industriale (lo hanno fatto anche con me) alle richieste di conoscenza dei consumi energetici dei mezzi, però qualche dato si riesce a reperire. Per il filobus (più confrontabile sul piano energetico con il tram, per lo stesso tipo di trazione) è estremamente difficile ricavare informazioni a causa della sua scarsa diffusione, comunque si stimano in genere consumi di circa 2,5 kWh/km - 3 kWh/km. Per i tram moderni costruiti negli ultimi vent’anni, grazie anche al recupero di energia durante la frenata, i valori sono leggermente più bassi. Questo studio calcola consumi di circa 1 kWh/km. Un altro studio sui tram della Siemens ci da valori tra 1,5 kWh/km e 1,8 kWh/km.

Ma la questione decisiva dal punto di vista energetico e non solo è un'altra. Il parametro che permette di comparare il consumo energetico di sistemi di trasporto diversi e che viene comunemente usato nell’analisi dei trasporti è il cosiddetto consumo specifico, cioè l’energia consumata in rapporto ai km percorsi e ai passeggeri trasportati. E quest’ultimo fattore fa pendere a favore del tram moderno nettamente la bilancia energetica grazie alla maggiore capacità di trasporto (mediamente 250 contro 120 passeggeri) e al maggiore fattore di riempimento che dipende dal miglior grado di apprezzamento del servizio da parte degli utenti (in letteratura si considera in genere un fattore di riempimento dei mezzi su ferro circa il doppio di quelli su gomma).

Se dividiamo il consumo chilometrico dei due mezzi citato in precedenza per un riempimento medio annuo assunto prudenzialmente in 30 persone per il tram e 20 per il filobus, si ottiene un consumo specifico di 33 Wh/pass.*km – 60 Wh/pass.*km nel tram contro i 125 Wh/pass.*km - 150 Wh/pass.*km del filobus.
Considerando che 1 Wh prodotto dal sistema elettrico italiano corrisponde a 0,22 gep (grammi equivalenti petrolio), abbiamo infine che il consumo specifico del tram sarebbe di circa 7 gep/pass.*km – 13 gep/pass.*km contro i 27 gep/pass.*km - 33 gep/pass.*km del filobus. Il valore per il tram è il più basso in assoluto tra tutti i mezzi di trasporto motorizzati. Esso corrisponde abbastanza bene a quello indicato in un mio precedente articolo, tratto dallo studio degli Amici della Terra che fa riferimento a ad un materiale rotabile tranviario di vecchia generazione, caratteristico delle poche linee italiane scampate alla distruzione del dopoguerra.
Infine, è opportuno menzionare alcune recenti innovazioni tecnologiche applicate sui moderni mezzi tranviari che rendono in prospettiva questi mezzi di trasporto ancora più competitivi sul piano del risparmio energetico.

lunedì, marzo 08, 2010

La gru vacilla


Questo è un dialogo che mi ha riferito mia moglie e che è avvenuto non lontano da casa mia. Ovviamente le parole non sono esattamente quelle, ma il senso è riportato fedelmente

Mia moglie: Ciao, come mai oggi sei in giro senza il bambino?

Amica di mia moglie: Sai, l'ho lasciato a casa. Lo guarda mio marito.

M - Ma non lavora tuo marito oggi?

A. No. Sai, la ditta sta chiudendo. Lo hanno messo in cassa integrazione.

M. Ah.... ma come mai la ditta chiude?

A. Eh, beh, hanno costruito tanti appartamenti - più di settanta....

M. E allora?

A. Non riescono a venderli. In due anni ne hanno venduti solo otto.

M. Beh, capisco. Certo che di appartamenti in Italia ne hanno costruiti veramente troppi.

A. No! C'è bisogno di appartamenti. Non vedi come sono cari?

sabato, marzo 06, 2010

Pensare globale


Un concetto che forse non è condiviso da tutti è la differenza che esiste tra il potersi permettere l'uso di una risorsa, e l'effettiva correttezza (di medio/lungo termine) nell'usarla. Vediamo alcuni casi-tipo.

Ad esempio: in Italia, se sono un dentista o un notaio potrò permettermi di girare con un SUV dall'ammortamento di 20.000 €/anno. Obiezioni? No, posso permettermelo, se ad esempio guadagno 180.000 €/anno.

Vivo in un paese dove ad oggi la disponibilità di acqua dolce è elevata, e il costo al m3 è basso. Dunque, posso usarne senza preoccuparmi di risparmiarla.

Tornando all'esempio del professionista di reddito elevato: guadagnando molto, potrò permettermi di avere 8 figli (e un pullmino) senza problemi per il loro mantenimento e futuro.

Vivo in una città ricca. Visti i problemi che ci sono nel terzo mondo, posso essere favorevole a un'accoglienza verso un'immigrazione non pianificata, pur di aiutare delle persone in condizioni di bisogno.

In questi esempi, una psicologia morbida  e "locale" fa a pugni contro una realtà più dura e "globale".

Nel caso del ricco professionista, possiamo dire che il mantenimento energetico del suo mezzo di trasporto equivale al non-possedimento di una piccola utilitaria da parte di circa 4 famiglie. Allo stesso modo, ogni figlio che nasce in un certo contesto sociale "eredita" dal sistema il fabbisogno energetico che gli è "dovuto", caricando il sistema di un certo impatto. Stesso discorso in termini di impatto ce l'ha qualunque migrante che passa da una zona di sussistenza a una realtà industrializzata.

Ma allora, qual è il problema? Qual è la soluzione? La realtà, essendo complessa, si compone di contesti e di azioni, più che di semplicistici problemi-soluzioni. E' sbagliato che ci siano persone che guadagnano 20 volte quello che percepiscono altri, che magari lavorano 3 volte di più in termini di tempo e di fatica; è sbagliato caricare i sistemi solo sulla base di considerazioni economiche o di spinte emotive.
Le giuste azioni locali dovrebbero discendere innanzitutto da un'approfondita conoscenza della realtà globale. Senza assolutismi e imposizioni, ma sulla base di una diffusa razionalità.

giovedì, marzo 04, 2010

Smog, le colpe non sono tutte del traffico


created by Luca Lombroso
[articolo pubblicato sabato 27 febbraio 2010 su La Gazzetta di Modena ]
























Nelle foto sopra, la Ghirlandina ricoperta dal "telo del Paladino" durante i lavori di restauro: il 24 gennaio 2008 il telo, appena installato, era bianco candido, il 26 febbraio 2010 il telo risulta annerito dallo smog.

Sotto, due grafici che mostrano come il miglioramento di qualità dell'aria dal 2006 al 2009 sia stato favorito principalmente dal maggior numero di giorni di pioggia e come, nell'inverno 2009-10, praticamente tutti i giorni in cui non è piovuto l'inquinamento da PM10 è stato oltre la soglia di legge di 50 ug/m3.







Rottamare le vecchie auto non risolve i problemi: occorrono scelte coraggiose in più settori


In questo perturbato inizio di 2010, con semplici elaborazioni dei dati ho scoperto che, sostanzialmente, quando non è piovuto, l’inquinamento da polveri è stato fuorilegge: e dire che siamo stati fortunati, si fa per dire, per l’alto numero di giorni piovosi (o nevosi), già una ventina. Anche l’osservazione storica dei dati, mostra crudamente la realtà: se è vero che dal 2006 al 2009 il numero di giorni di superamenti delle polveri fini, i PM10, è in calo costante, a Modena dai 130 del 2006 ai 76 del 2009, è altrettanto evidente che nello stesso periodo vi è stato un incremento costante dei giorni di pioggia nella “stagione fredda e inquinata” (da ottobre a marzo), dai 48 del 2006 ai 75 del 2009. In poche parole, sembra veramente minimo il beneficio dei provvedimenti antismog e dobbiamo ringraziare la pioggia, il vento e, in parte, la neve.
Il nostro clima però non è il vero responsabile dell’inquinamento. Potremmo pensare alla pianura padana come una stanza piccola, con scarsa areazione, piena di fumatori; infatti le immagini satellitari dell’inquinamento mostrano la pianura padana come una delle aree più inquinate del mondo. Modena sembra in buona compagnia, tuttavia vediamo spesso che la nostra città spicca nelle classifiche dell’inquinamento, in regione insieme a Reggio e Piacenza: perché?
A Modena circa il 25% delle emissione serra (buon indicatore delle emissioni inquinanti) proviene dal traffico, il 17% dalla combustione non industriale, circa altrettanto dalla combustione industriale, un 15% dai processi produttivi, 7% da agricoltura e circa 5% da rifiuti. I settori industriali e produttivi, messi assieme, dunque contribuiscono più che il traffico. Nessun settore poi deve sentirsi criminalizzato, ma altrettanto nessuno può sottrarsi dal fare la sua parte se vogliamo risolvere un problema che riguarda la salute ed anche i costi indiretti dei danni da inquinamento.
Da dove proviene questa gran quantità di emissioni dai settori industriali? Nel distretto ceramico si consuma circa un miliardo di metri cubi di metano, circa 7 volte tanto il consumo ad uso civile. In sostanza, in Provincia, si brucia l’equivalente di metano (non ecologico come si crede) di una grande centrale elettrica con alte ciminiere. L’aria non ha confini e così capita che noi respiriamo polveri di Sassuolo, di Mantova o Piacenza per fare alcuni esempi, e viceversa.
Noi non ci pensiamo, ma quando, a Modena, ad esempio, premiamo un qualsiasi interruttore elettrico o saliamo su un filobus, indirettamente da qualche parte, forse a Piacenza, si producono gas serra e polveri, dato che la maggior parte dell’energia elettrica Italiana proviene da centrali a turbogas o ciclo combinato. Allo stesso modo, chi acquista da lontano le nostre mattonelle ci lascia in carico una certa dose di inquinamento.
Altrettanto, non pensiamo di cavarcela, per la fetta di polveri dovute al traffico, con le rottamazioni per dotarci di auto ritenute più ecologiche. Per costruire un’auto nuova e smaltire la vecchia occorre molta energia e si produce una quantità tale di inquinamento che, prima di ammortizzarla, potremmo circolare per oltre 100000 chilometri. In sostanza, rottamando le auto pensiamo di risolvere un problema locale ma accentuiamo quelli globali e di altre generazioni.
Tornando però ai PM10, che fare? Serve bloccare alcune categorie di veicoli? Un blocco totale, vero, di tutto il traffico, anche autostradale, e di tutte le auto, anche euro 5 e a gas, di tutta la pianura padana sarebbe senz’altro un bell’esperimento: non risolutivo, ma educativo e permetterebbe di quantificare meglio la reale incidenza del traffico. Tuttavia l’annuario ambientale ISTAT ci conferma che, anche in Italia, il traffico è responsabile solo per un terzo delle polveri.
Dovremmo, quindi, ridurre il traffico (e la velocità), ma anche i consumi elettrici e spostarli su fonti rinnovabili, isolare meglio gli edifici, rendere più efficienti gli impianti di riscaldamento, migliorare i processi industriali, produrre e bruciare meno rifiuti. Dovremmo anche usare meglio le previsioni meteo, per pianificare prima, e non dopo, i blocchi del traffico, ma anche la riduzione di tutte le sorgenti inquinanti quando si prevede tempo stabile.
Occorrono dunque soluzioni complesse su tutti i settori sopra citati ed anche sul nostro stesso modello di sviluppo, basato sulla crescita, la quale rischia di annullare i benefici dei miglioramenti tecnologici.
Soprattutto è necessaria la consapevolezza e la partecipazione dei cittadini oltre al coraggio della politica di fare scelte, talvolta impopolari, ma che guardano al futuro.