Gli Stati finanziano queste spese attraverso il prelievo fiscale e, negli ultimi anni, indebitandosi con l’emissione dei titoli di Stato. Attraverso questo meccanismo, lo Stato chiede in prestito ai propri cittadini il denaro necessario a garantire la copertura di disavanzi crescenti tra spese ed entrate e si impegna a restituirlo entro una certa data, maggiorato degli interessi. Si tratta di un meccanismo evidentemente perverso perché gli interessi sui titoli di Stato vanno ad aumentare ogni anno le spese e quindi la necessità di ricorso al mercato per finanziare il debito, alimentando un circolo vizioso generatore di nuovo debito, attraverso una sorta di catena di S.Antonio non molto dissimile da quella che ha mandato all’ergastolo di recente negli Stati Uniti il banchiere criminale Madoff.
Naturalmente, fin quando l’economia di un paese cresce costantemente, il maggior gettito fiscale e la maggiore propensione agli investimenti da parte dei privati tengono in piedi questo sistema traballante. Infatti, non a caso, il debito e il deficit pubblico vengono sempre valutati in rapporto al PIL. Dal dopoguerra ad oggi, il continuo progredire del benessere economico ha inculcato nell’opinione pubblica il concetto che “i soldi non finissero mai”. Ma i soldi non crescono sugli alberi per essere colti all’occorrenza, come molti sembra si siano ormai convinti. La tremenda crisi economica tuttora in corso determinata dall’irresponsabile indebitamento privato degli americani sta conducendo molti Stati nazionali, sotto la pressione della speculazione finanziaria, sull’orlo della bancarotta, proprio per i rischi sempre più concreti di insolvenza rispetto agli enormi debiti contratti negli anni. Se la sfiducia dovesse prevalere e le aste dei titoli di Stato cominciassero ad andare deserte si determinerebbe una situazione d’instabilità economica con conseguenze drammatiche per lo Stato sociale e la vita delle persone.
Purtroppo, molti sottovalutano ancora questa situazione, nell’attesa messianica di una nuova stagione di crescita economica che spazzi via le conseguenze nefaste della crisi. Sfortunatamente si sbagliano, perché non tengono conto di una variabile finora non considerata dalla scienza economica ufficiale, cioè l’esaurimento delle risorse energetiche e, a breve, l’impossibilità della produzione di petrolio e degli altri combustibili fossili di alimentare una domanda in continua crescita. Qualsiasi ripresa economica, questa volta sarà tarpata sul nascere da nuove tensioni sui prezzi dei prodotti energetici, che influenzeranno nuove ondate recessive.
Ma il conformismo dominante fa sì che gli strumenti di previsione e programmazione economica continuino ad essere impostati sull’assunto della crescita, relegando l’attuale crisi al livello di incidente di percorso sulla strada ineluttabile del progresso.
Un esemplificazione di questo atteggiamento la possiamo scorgere in Italia nell’aggiornamento per il 2009 del documento annuale curato dalla Ragioneria Generale dello Stato “Le tendenze di medio lungo - periodo del sistema pensionistico e socio – sanitario”.
Tutto il documento è impostato sul postulato dell’inevitabile ripresa della crescita economica. Per quanto riguarda le pensioni, si assume che i parametri di base della previsione evolutiva del sistema concordino con tale premessa: la speranza di vita deve aumentare ulteriormente rispetto agli attuali già alti livelli, l’immigrazione crescerà di 200.000 unità all’anno, in modo da sostenere economicamente la più ampia domanda pensionistica. Ma, soprattutto, come vediamo nel grafico allegato al documento, il PIL riprenderà a correre come niente fosse, consentendo di mantenere il rapporto tra spesa pensionistica e PIL a livelli sostenibili. Uno degli scenari presi a base di riferimento, contenuti nelle analisi del Comitato di Politica Economica del Consiglio Ecofin, definito “permanent shock” viene solo citato e nemmeno preso in considerazione.
Ma cosa accadrà realmente dopo il picco del petrolio? Difficile prevederlo con precisione, ma certamente il munifico Stato sociale a cui eravamo abituati si ridimensionerà. Nel caso delle pensioni, la stasi e la successiva decrescita economica costringeranno a ridurre i livelli previdenziali mentre la sostituzione della forza lavoro straniera con quella autoctona e il calo della speranza di vita conseguenti al minore livello dei servizi socio – sanitari, compenseranno solo parzialmente questa tendenza.
L’attenzione dell’opinione pubblica e conseguentemente delle forze politiche si sposterà gradualmente sui modi per attenuare e limitare le conseguenze di una minore protezione sociale. Lotta implacabile all’evasione fiscale, politiche dei redditi orientate a riequilibrare la ricchezza tra le fasce sociali, politiche del lavoro volte a incrementare la produttività e a favorire una parziale riconversione produttiva dall’industria all’agricoltura, saranno alcune delle azioni su cui si misureranno le capacità degli stati nazionali di resistere allo smantellamento dello Stato sociale.