mercoledì, novembre 30, 2011

Una breve sintesi degli interventi al Quinto Convegno Aspoitalia

Il Picco del petrolio è ormai alle nostre spalle. Questo è ciò che sembra essere chiaro da quanto è stato detto al quinto convegno della sezione italiana dell'associazione per lo studio del picco del petrolio (ASPO), tenutosi a Firenze il 28 Ottobre. Già nel primo intervento dell'incontro, quello tenuto da Ian Johnson, segretario del Club di Roma, l'enfasi non è stata sul petrolio, ma sui problemi finanziari che il mondo sta affrontando. Questo punto è stato trattato anche da Nicole Foss del blog "The Automatic Earth" che ha parlato del totale ed imminente collasso del sistema finanziario mondiale.

Un altro punto discusso in modo esteso al convegno è come il picco stia portando l'industria del petrolio ad estrarre e trasformare risorse inefficienti ed inquinanti e come ciò sia causa di un peggioramento del problema dei cambiamenti climatici. Questa era la ragione che ha portato ASPO-Italia ad organizzare questo convegno unitamente a "Climalteranti", un gruppo di scienziati del clima Italiani. Almeno la metà degli interventi al convegno erano specificamente dedicati al cambiamento climatico e la questione climatica era praticamente presente in ogni presentazione. Dati recenti indicano un notevole salto in avanti nella concentrazione di CO2 nell'atmosfera a conferma che questa tendenza è in corso.

Il picco del petrolio sta condizionando anche l'agricoltura, come riferito dal vicepresidente dell'associazione, il Dott.Toufic El Asmar, che è anche ricercatore presso la Food and Agricolture Organization (FAO) a Roma. Il problema non è ancora percepito dalla maggioranza delle persone che hanno a che fare con la sostenibilità, ma è chiaro che è enorme. L'agricoltura, per com'è strutturata oggi, non può sopravvivere senza combustibili fossili ed il danno causato dai cambiamenti climatici potrebbe essere devastante.

Un altro punto discusso ampiamente ad ASPO-Italia 5 è stato il problema della comunicazione. Come trasformare i nostri modelli in azioni concrete? Questo si rivela essere un problema estremamente complesso e difficile. Non che non ci abbiamo lavorato. Pietro Cambi, membro di Aspo-Italia, ha stimato nel suo intervento che una persona su tre in Italia è stata esposta almeno una volta ai messaggi sul picco del petrolio durante gli ultimi 5 anni, come risultato del lavoro di ASPO e di associazioni e persone ad essa vicine. E' un notevole risultato, considerando che ASPO-Italia è un'associazione di volontari che opera con risorse finanziarie minime. Tuttavia, l'impatto del nostro messaggio non si manifesta; non ancora, almeno.

Alla fine dei conti, sembra che il picco del petrolio abbia generato una dura reazione da parte dei sistemi industriale, finanziario e politico. Ha causato un movimento contro l'esaurimento che investe più risorse nell'estrazione, nonostante i costi in aumento ed il risultante danno ambientale. Ian Johnson ha esposto molto chiaramente questo punto nel suo intervento. Anni fa, quando era vicepresidente della Banca Mondiale, era stata fatta una stima di quale fosse il prezzo del petrolio che, una volta raggiunto, avrebbe reso l'energia rinnovabile competitiva sul mercato. Ma, quando questo prezzo è stato raggiunto, quello che è accaduto è che le compagnie petrolifere hanno abbandonato i loro programmi per le energie rinnovabili per concentrarsi sulle nuove fonti petrolifere. Non importa quanto sporche e costose possano essere queste risorse, è ancora possibile ricavarne un profitto, a patto che l'industria non debba pagare per i costi dell'inquinamento. Come di fatto è il caso, sfortunatamente.

Quello che stiamo vedendo è uno sforzo tremendo per mantenere livelli di estrazione perlomeno costanti, anche a costo di demolire l'economia mondiale ed anche degli ecosistemi planetari. Sembra essere un classico esempio di ciò che chiamo “effetto Seneca”, che significa scambiare qualche anno ancora di relativa stabilità con un più rapido declino in seguito. Così, stiamo reagendo al picco del petrolio nel peggiore dei modi.

Il convegno è stato organizzato in gran parte da Luca Pardi, che è anche il nuovo presidente di ASPO-Italia. Ha preso il posto di Ugo Bardi che è stato presidente per otto anni. Il convegno è stato organizzato congiuntamente con il gruppo di Climalteranti e sponsorizzato dal Consiglio Regionale della Toscana, che ha fornito la prestigiosa "Sala delle feste" di "Palazzo Bastogi" a Firenze, dove il convegno ha avuto luogo.

Traduzione di Massimiliano Rupalti di un articolo di Ugo Bardi apparso su Legacy

domenica, novembre 27, 2011

La Terra Svuotata

Esce in questi giorni il mio nuovo libro "La Terra Svuotata". Un bel po' di sangue, sudore e lacrime che il libro mi è costato in questa torrida estate. Ora, per fortuna, è finito

Come vi potete immaginare dal titolo, è una storia delle miniere e dei minatori che parte dalle prime miniere di selce di oltre 10.000 anni fa e arriva alla situazione attuale dove la corsa all'estrazione sta svuotando la terra dei tesori minerali che si erano accumulati nel corso di miliardi di anni di attività geologica. Il libro riprende ed espande anche alcuni dei temi del mio primo libro, "La Fine del Petrolio" del 2003. Si parla anche di energia rinnovabile, delle prospettive della sostenibilità in un mondo svuotato delle sue risorse minerali, dell'immancabile "Limiti dello Sviluppo". Insomma, è un po' un compendio dell' "UgoBardiPensiero".

Per questo libro, devo ringraziare moltissime persone per il loro contributo. In particolare, il titolo mi era costato lunghe elucubrazioni che non mi avevano portato a niente, finché Toufic El Asmar non è venuto fuori con il suggerimento giusto. Ringrazio anche Luca Mercalli per la prefazione come pure tutti i membri di ASPO-Italia.

Di seguito qui, la descrizione sul sito di Editori Riuniti.

[...] Le preoccupazioni sull'esaurimento del petrolio sono all'ordine del giorno, ma sono solo una parte di un problema molto più grande. Quando si esauriranno i minerali? Partendo da questa domanda, Ugo Bardi costruisce un racconto di tutta la storia dell'attività mineraria umana, dall'età della pietra fino al petrolio ai nostri giorni. Abbiamo ancora tante cose da scavare e tanto petrolio da estrarre ma, in tempi non lunghissimi, ci troveremo di fronte al limite della capacità umana di sfruttare il nostro pianeta per le sue risorse minerali. Sarà la “fine del popolo dei minatori” che ci porterà a percorrere strade nuove e sconosciute per tenere in piedi la nostra civiltà. [...]

[...] I cambiamenti causati dall'attività estrattiva umana sono qualcosa che non si era mai verificata con la rapidità attuale in centinaia di milioni di anni di storia planetaria. Questi cambiamenti stanno trasformando la Terra in un pianeta completamente diverso. Non è detto che questo nuovo pianeta che noi stessi stiamo creando non si riveli ostile alla vita umana. Che ci piaccia o no, l'ambiente non è un giocattolo per gli ambientalisti. L'ambiente è quella cosa che ci fa vivere. E noi stiamo giocando con questa cosa che ci fa vivere come se non avesse nessuna importanza. In questo libro troverete una descrizione della situazione petrolifera e di tutte le risorse naturali, minerali e rinnovabili. Ci troverete le ragioni che ci spingono a dipendere così totalmente da risorse insostituibili e non rinnovabili. Ci troverete come la nostra fissazione con il petrolio ci stia conducendo a uno scontro con l'ecosistema causato dall'esaurimento e dall'inquinamento; uno scontro che non possiamo vincere, comunque vada. E, infine, ci troverete qualche nota sul futuro che forse vi potrà essere utile. Come si sa, il futuro non si può prevedere, ma riguardo al futuro si può essere preparati. [...]

(Dall’introduzione dell’autore)

Ugo Bardi, è docente dal 1990 presso il Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze. La sua carriera precedente include periodi di studio e insegnamento presso le università di New York, Marsiglia, Berkeley e Tokyo. Attualmente si occupa di nuove tecnologie energetiche e di politica dell’energia È membro dell’associazione ASPO, un gruppo di scienziati indipendenti che studiano le riserve di petrolio mondiali e il loro esaurimento. Ha pubblicato: La fine del petrolio, Editori Riuniti, 2003; Il libro della Chimera, Edizioni Polistampa Firenze, 2008; con Giovanni Pancani, Storia petrolifera del bel paese, Edizioni Le Balze, 2006; The Limits to Growth Revisited, Springer Briefs in Energy, 2011.

INDICE

9 Prefazione di Luca Mercalli


11 Introduzione

Parte prima. Minerali

19 Il popolo dei minatori
59 Il regalo di Gaia: l'origine dei minerali
83 La macchina mineraria universale: energia ed estrazione

Parte seconda. Energia

113 L'ankus del re: la storia dei combustibili fossili
143 Il genio dell'energia: uranio e l'ultima speranza per la crescita
173 L'oca nella bottiglia: le energie rinnovabili

Parte terza. Sostenibilità

217 Balene e barili: come si esauriscono le risorse
242 L'isola degli angeli: modelli del mondo
267 Il cuculo che non voleva cantare; oltre il collasso

287 Conclusione

mercoledì, novembre 23, 2011

Ancora su Fukushima

Scritto da Domenico Coiante

Le imprudenti dichiarazioni, poi corrette, del neoministro dell’Ambiente, Corrado Clini, circa l’opportunità di ritornare sulla decisione del bando al nucleare dopo il recentissimo pronunciamento referendario, induce a qualche ulteriore considerazione nel merito della questione.

Sul ‘Venerdì di Repubblica’ del 4/11/2011 a pag.69 è stato pubblicato un breve trafiletto, che riassume la situazione a Fukushima dopo sette mesi dal disastro. Contro ogni previsione di diluizione più rapida, la radioattività del mare antistante la centrale è ancora a 10 mila Bq (Becquerel). La causa sta nel fatto che ancora si stanno gettando in mare 500 tonnellate al giorno d'acqua di raffreddamento, che contengono iodio-131, cesio-137 e stronzio-90. I pesci stanno accumulando soprattutto quantità di cesio e di stronzio (che hanno emivita di circa 30 anni) in misura pericolosa per la salute di chi volesse mangiarli. Ma la cosa che più colpisce è che il governo ha deciso di rimuovere uno strato di terreno contaminato di spessore 5 cm intorno alla centrale per un totale stimato di 30 milioni di mc. Questo terreno dovrà essere portato in tre depositi sorvegliati e allestiti allo scopo in attesa per decenni che la contaminazione decada. Quanto costerà tutto ciò? La spesa verrà messa a carico del kWh nucleare, o verrà caricata sulla collettività, come al solito?

Sul rapporto dell’Institute of Nuclear Power Operations, dal titolo “Special Report on the Nuclear Accident at Fukushima Daiichi Nuclear Power Station”, pubblicato a Novembre 2011, si può leggere che la quantità di materiale radioattivo equivalente allo Iodio-131 emessa in aria è stata stimata dalla Commissione per la Sicurezza Nucleare giapponese in 6,3 10^17 Bq e in mare 4,7 10^15 Bq. Per confronto, si fa anche rilevare che a Chernobyl fu rilasciata nell’ambiente una quantità di 14 10^18 Bq, cioè 22 volte superiore.

Il significato di queste cifre è scarsamente significativo per i non addetti ai lavori, che non hanno alcuna familiarità con il Becquerel, cioè con l’unità di misura dell’attività di emissione delle sostanze radioattive. Dire che 1 Bq corrisponde ad una disintegrazione al secondo del radionuclide non migliora di molto la situazione, anche se qualcuno potrebbe dedurre da questa informazione che le sostanze radioattive emesse in aria durante l’incidente “sparano” nell’ambiente circostante 630 milioni di miliardi di radiazioni ionizzanti ogni secondo. Il fatto che questa impressionante attività andrà attenuandosi nel tempo secondo le caratteristiche proprie di ciascun radionuclide con tempi di dimezzamento, che vanno dalla settimana per lo iodio-131 a 30 anni per il cesio-137 e lo stronzio-90, non serve certo a tranquillizzare coloro che si trovassero coinvolti nell’incidente. Essi, infatti, non sono in grado di collegare queste cifre con gli effetti prodotti sull’ambiente ed in particolare con i rischi per la salute umana. Le radiazioni non si vedono e non si sentono, cioè non si percepiscono immediatamente in alcun modo con i nostri sensi, cosicché non possiamo evitarle se malauguratamente le incontriamo. E purtroppo esse producono danni sull’organismo degli esseri viventi, piante e animali, uomo compreso.

Da questo punto di vista, può essere più significativo conoscere un’altra grandezza relativa alla radioattività, la dose assorbita dai tessuti organici e la sua unità di misura, il Sievert (Sv), definito come la quantità di energia sprigionata dalla radiazione nell’interazione con il tessuto. 1 Sv corrisponde alla cessione di 1 joule per ogni kg di massa tissutale. Si capisce immediatamente che il Sv misura il danno prodotto dalle radiazione negli organismi viventi. Per avere un idea di che cosa ciò significhi, basti sapere che una dose assorbita di 4 Sv determina la morte nel 50% dei casi delle persone esposte. Alterazione del sangue con danni agli eritrociti si ha con una dose di circa 1 Sv. Il fondo di radiazioni cosmiche a cui siamo sottoposti vale circa 0,27 microSv/ hr.

Nel già citato rapporto, è riportata la misura della dose, registrata mentre era in corso l’incidente a 1 km di distanza dalla centrale: 11,93 mSv/hr. Si è trattato di un valore 44 mila volte più alto del fondo cosmico. Una persona che fosse rimasta in quel luogo per circa 84 ore (3 giorni e mezzo) avrebbe accumulato una dose di 1 Sv, con danni ematici gravi. Se fosse rimasto esposto per 14 giorni, avrebbe avuto la probabilità di morire al 50%.

A 60 km dalla centrale si sono registrate dosi di 8 microSv/hr, circa 30 volte superiori al fondo cosmico. Di conseguenza è stato necessario evacuare tutti gli abitanti entro un raggio di 20 km ed è stato proibito di uscire da casa a tutti quelli che abitavano nella fascia tra i 20 ed i 30 km. Anche senza contare i danni alla salute delle persone esposte prima dell’evacuazione e di quelle costrette a rimanere nella zona di 60 km di raggio, danni che si manifesteranno nel futuro, ci si deve chiedere quanto è costato e quanto sta costando in termini economici una tale operazione sociale. La spesa sarà contabilizzata a carico del kWh nucleare, o sarà sostenuta dalla collettività?

Sono ormai trascorsi più di sette mesi dall’incidente nucleare e gli effetti sul territorio si stanno rivelando molto più gravi di quanto stimato in precedenza. Una ricerca dell’Università di Nagoya, condotta da Tetsuzo Yasunari, (di cui ha dato notizia il supplemento di Repubblica ‘Affari e Finanza’ del 21/11/2011 alla pagina 13 con un articolo dal titolo: “Fukushima, ma l’incubo nucleare non è ancora passato”), ha trovato che “la radioattività emessa dall’impianto nucleare di Fukushima ha contaminato un’area del Giappone più vasta del previsto, fino a 500 km di distanza dalla centrale danneggiata. Una combinazione di dati meteorologici e misurazioni di radioattività dimostrerebbe che radioisotopi di cesio, tellurio e iodio hanno raggiunto anche l’isola di Hokkaido……. Gli eccessi di materiale radioattivo stanno mettendo in ginocchio agricoltura e pesca. Tokyo ha dovuto mettere al bando l’intera produzione di riso della prefettura di Fukushima…… Nella zona di Fukushima i livelli (di Cesio-137) sarebbero otto volte superiori ai limiti di sicurezza”.

Ci si deve chiedere per quanto tempo ancora dureranno gli effetti dannosi sul territorio. Nella stima dei danni economici, effettuata a caldo subito dopo l’incidente, i costi di tutto ciò sono stati considerati? Se si, a carico di chi sono stati posti?

L’unica notizia positiva (si fa per dire), pubblicata recentemente, è che finalmente la temperatura del reattore è scesa sotto ai 100 °C, per cui solo ora, dopo sette mesi, si potrà cominciare a intervenire dentro il contenimento per mettere in sicurezza la centrale.

Tutto quanto sopra detto mette chiaramente in evidenza la peculiarità dell'incidente nucleare nei confronti di qualunque altro disastro tradizionale: la sua natura ha caratteristiche molto diverse, sia rispetto alla dimensione spaziale, sia a quella temporale. Per comprendere questa affermazione si può fare riferimento ad un tipico incidente grave come l’incendio, seguito dallo scoppio di un deposito di combustibile fossile (es. incidente ferroviario di Viareggio del 2009). Il disastro può essere grave con morti e feriti e con danni notevoli alle cose e agli edifici adiacenti al deposito. L’estensione delle dimensioni spaziali dei danni può riguardare un’area di raggio dell’ordine di 1-2 km circa dall’epicentro. La dimensione temporale parte dal momento dello scoppio e può durare qualche giorno nella fase attiva dei danni e poi può proseguire per qualche mese, forse anche un anno, per la fase di recupero del danno alle persone ferite e all’ambiente circostante. Nella maggior parte dei casi, dopo due-tre anni dall’incidente, il sito è recuperato completamente all’uso civile.

La differenza con il caso nucleare balza immediatamente all’evidenza. La dimensione spaziale del danno da radiazioni, a Fukushima, ha raggiunto nella prima fase i 30 km di raggio ed essa ha continuato ad espandersi fino ai 500 km attualmente registrati. La dimensione temporale, poi, si estende asintoticamente secondo la curva di attenuazione esponenziale dell’attività dei radionuclidi emessi. Rigorosamente parlando, tale fase si potrà considerare terminata quando il livello delle radiazioni si sarà diluito in concentrazione e abbassato dagli alti valori attuali fino al fondo cosmico naturale, cioè in qualche centinaio d’anni. In modo più ottimistico, si può assumere come termine un tempo pari ad almeno due periodi di dimezzamento della radioattività, che nel caso del cesio-137 corrisponde a circa 60 anni. Detto in altri termini, il recupero delle condizioni normali d’uso della zona riguarderanno le future generazioni.

Passando poi ad un argomento più generale e quantitativo, si può citare il fatto che allo stato attuale delle norme per la sicurezza degli impianti nucleari, vigenti in Europa e negli USA, i costi e i tempi di costruzione delle centrali hanno raggiunto valori tali che la produzione elettronucleare non è competitiva con quella termoelettrica convenzionale, specialmente con quella dei recenti impianti a ciclo combinato. Una valutazione accurata del costo del kWh nucleare, condotta recentemente sulla base delle spese sostenute per alcune centrali oggi in costruzione in Europa (Olkiluoto e Flamanville), ha portato ad un costo compreso tra 8 e 10 centesimi di euro/kWh, avendo anche considerato il bonus per la CO2 evitata, contro i 4 – 6 centesimi degli impianti termoelettrici a carbone e a gas (leggi qui).

Tutto ciò considerato, sorgono spontanee alcune domande: “Perché ci vogliamo intestardire ostinatamente sul nucleare?” “Siamo forse ridotti alla canna del gas per l’energia, senza alcuna opzione alternativa?” “Oppure, per dirla con Nanni Moretti davanti alla sachertorte, ci piace masochisticamente farci del male?”

domenica, novembre 20, 2011

Petrolio e complessità (quasi una recensione)



Scritto da Luca Pardi

A well from the hell (un pozzo dall'inferno). Con queste parole una delle undici vittime dell'esplosione del 20 aprile 2010, definiva il pozzo della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon (fig1) nel Golfo del Messico. Un oggetto costato 1 miliardo di dollari il cui uso gravava la British Petroleum per 500.000 dollari al giorno


Drilling Down, un libro scritto da Joseph A. Tainter e Tadeusz W. Patzek riporta anche alcuni passi delle deposizioni alla commissione di inchiesta federale sull'incidente. La moglie di Shane Roshto, questo è il nome del giovane di 22 anni il cui corpo non è mai stato ritrovato, continua affermando che suo marito diceva anche: “Madre Natura non vuole essere trivellata quì”. Può sembrare la solita ingenua personificazione della Natura, buona o matrigna, ma in realtà rende il senso della difficoltà estrema che incontrano gli uomini impegnati nell'impresa di estrarre petrolio da giacimenti off shore, per raggiungere i quali si deve operare a migliaia di metri sotto il livello del mare e a migliaia di metri nella roccia. Come si dice: in ambiente ostile. Un'impresa che, secondo gli autori di Drilling Down, supera in difficoltà le imprese di esplorazione spaziale.


La storia dell'incidente e del susseguente disastro ecologico del Golfo del Messico è il simbolo della fine del petrolio facile ed è un evento paradigmatico della legge dei ritorni marginali decrescenti della complessità. Tainter e Patzek forniscono una descrizione dettagliata del pozzo della British Petroleum denominato Macondo, trivellato in mare aperto a 130 miglia a sud est di New Orleans a circa 1600 metri di profondità per andare a succhiare idrocarburi in un giacimento a migliaia di metri sotto le rocce del fondo del mare, e, partendo da questo, mostrano come la questione petrolifera rientri nel generale processo di complessificazione della nostra società che rimanda appunto alla legge di Tainter.

Ugo Bardi ha parlato più volte di complessità e, proprio in relazione alla legge di Tainter, ha proposto un semplice modello che ne offre un'interpretazione fisica (leggi qui).

Nelle parole di Tainter la complessità di un sistema, che può essere un'intera civiltà come una sua parte: le sue infrastrutture industriali, l'infrastruttura dei trasporti, il sistema della ricerca scientifica, o le istituzioni politiche e sociali, è caratterizzata da due componenti: la differenziazione strutturale (il numero di parti e i tipi di parti che la compongono) e l'organizzazione (cioè il modo di far funzionare quelle parti in modo efficace). La crescita della complessità è una modalità di soluzione dei problemi, dei quali in questo mondo c'è sempre abbondanza, che viene adottato ad un certo costo energetico. Infatti in ultima analisi il costo della complessità è riducibile ad un costo energetico

Il grafico che descrive questa evoluzione dei sistemi è una tipica curva che riporta i Benefici in funzione del Costo cumulativo come quella riportata in Figura in blu. Il livello di complessità aumenta nel tempo insieme al costo cumulativo del processo di complessificazione. In una curva come questa si possono individuare tre punti critici e tre regimi distinti. Quando il processo di complessificazione inizia la curva blu è concava, ciò significa che la sua tangente in ogni punto giace in ciascun punto al di sotto della curva stessa, in queste condizioni il beneficio per unità di costo (o per aumento unitario del livello di complessità) è crescente. Tale grandezza, al limite di costo tendente a zero, in Analisi matematica, si definisce derivata prima della funzione che descrive la curva, e la derivata della curva blu è la curva in rosso, e corrisponde anche al famoso Ritorno Marginale secondo cui è definita la legge di Tainter. Il primo punto critico si incontra quando la derivata raggiunge il suo massimo in corrispondenza dei valori C1, B1. Quest'ultimo è un punto di flesso della curva blu, da questo punto in poi la curva è convessa e la tangente alla curva giace in ciascun punto al di sopra della curva stessa e la sua derivata prima è decrescente. Cioè è dal livello di costi cumulativi (o di livello di complessità) C1, che si comincia ad osservare la diminuzione dei benefici per unità di costo o cioè i citati ritorni marginali decrescenti. Qui si innesta il secondo regime. La derivata continua scendere (curva rossa) finché nel punto (C2, B2) essa si annulla in corrispondenza del massimo della curva blu. Da qui in poi la derivata è negativa, cioè un aumento di complessità porta benefici negativi, cioè un ulteriore aumento del livello di complessità è un male invece di un bene. La prima fase fino al punto C1 possiamo chiamarla: Era dell'Entusiasmo Tecnologico, includendo nella tecnologia non solo le applicazioni scientifiche innovative, ma anche l'ingegneria sociale ed istituzionale, oltre il punto C1 ma prima di C2 si vive nell'Era della Delusione Tecnologica con ritorni marginali decrescenti. Raggiunto il massimo si va incontro a un periodo in cui non è più possibile, per risolvere i problemi, continuare ad aumentare la complessità del sistema senza causare danni superiori a quelli che si cercano di riparare o problemi più gravi di quelli che si intende risolvere. La fase intorno al massimo, è una fase di transizione, è piuttosto breve e conduce ad una risposta, i tentativi di aumentare ulteriormente la complessità portano al collasso dell'intero sistema cioè ad una semplificazione traumatica, l'unica strada non, o meno, traumatica è la semplificazione volontaria che è tanto più difficile quanto più a lungo e in profondità il sistema ha accresciuto la propria complessità. Tainter e Patzek riconoscono un unico caso di semplificazione volontaria di una società complessa: quella dell'Impero Bizantino.

Nella società moderna la fase dell'entusiasmo è quella che ha portato all'attuale religione dell'ottimismo tecnologico. In questa fase i costi sociali ed economici sono superati dai benefici. Purtroppo questa fase lascia uno strascico di vera e propria superstizione filo-tecnologica che non ha nulla di razionale. L'atteggiamento razionale sarebbe infatti fermarsi in C1 o appena dopo. Cioè non appena si iniziano a sperimentare i ritorni marginali decrescenti. Ma che l'uomo sia un animale razionale è un'altra delle molte e persistenti illusioni filosofiche.

Va detto a questo punto che la forma della curva rossa non è l'unica possibile, ad esempio potremmo immaginare che la curva sia sempre convessa, cioè che la legge dei ritorni marginali decrescenti valga fin dall'inizio, ma io di questo non sono convinto e credo anzi che nella fase iniziale di qualsiasi ciclo di civilizzazione i ritorni siano crescenti e che questo crei quella fiducia incrollabile nei meccanismi di soluzione dei problemi che più tardi porterà ad una vera e propria corsa al collasso. Vi sono ragioni fisiche che mi fanno pensare questo che saranno esaminate in un altro contesto, ma che sostanzialmente rimandano ai limiti delle sorgenti di energia e risorse da cui le società traggono linfa vitale.

Il processo di semplificazione che “salvò” l'Impero Bizantino nel VII secolo di fronte all'avanzata dell'Islam si riduce ad un abbandono della catena organizzativa che rendeva l'esercito non sostenibile. Invece di far coltivare il grano ai contadini per poi tassarli e attraverso il governo centrale dare la paga ai soldati si decise di dare la terra ai soldati, o, il che è lo stesso, far fare la guerra ai contadini (sembra che difendendo la propria terra fossero anche più motivati). Rinunciarono a difendere l'intero territorio in modo rigido e si ritirarono nelle città fortificate e/o nascoste. Misero in pratica i consigli del saggio Forresterius di cui potete leggere qui. Anche l'Impero Romano d'occidente rimandò la propria caduta con una semplificazione militare che portò all'abbandono delle costose fortificazioni difensive ai limiti dell'Impero.

Naturalmente stiamo parlando di società relativamente semplici rispetto alla nostra. Nel caso della civilizzazione contemporanea, industriale, globalizzata ed altamente energivora semplificare non è una cosa semplice.

La difficoltà dipende dalla natura cumulativa del processo di aumento della complessità. Tale processo si realizza in piccoli passi successivi e raramente per salti significativi. Semplificare significativamente un sistema che si è evoluto in questo modo è comunque traumatico.

Prendiamo, ad esempio, il caso dei telefoni cellulari. Oggi ognuno di noi ne ha almeno uno e lo usa tutti i giorni della settimana, per ragioni di lavoro, familiari e di svago. Supponiamo che sia essenziale tornare indietro e rinunciare ai cellulari. Se questa decisione fosse stata presa nel 1985 sarebbe stata di scarso impatto. Il salto dal telefono fisso al cellulare era recente, tornare indietro relativamente facile. Da allora i cellulari sono diventati non solo la forma prevalente della telefonia, ma sono anche sempre più complessi cioè sono costituiti di un numero maggiori di parti che forniscono funzioni diverse di cui la comunicazione telefonica è soltanto una. E' ovvio che potremmo tornare al telefono fisso, ma ciò comporterebbe la rinuncia a molte comodità e funzioni e sarebbe anche una spesa ingente, ad esempio per ricreare la rete di telefoni pubblici oggi quasi completamente sparita. E' quindi molto più difficile ripercorrere un processo di complessificazione in senso inverso.

L'incidente del pozzo petrolifero denominato Macondo, nel quale è esplosa e successivamente naufragata la piattaforma petrolifera della BP, causando il più grande incidente ecologico della storia dell'estrazione petrolifera, serve da pretesto a Tainter e Patzek per riesaminare il tema della complessità dei sistemi sociali e della loro vulnerabilità. La prima conclusione, forse prevedibile, è che sistemi così straordinariamente complessi, cioè strutturalmente differenziati e gestiti da una intricata organizzazione che prevede decine di diverse figure professionali e gerarchie incrociate, è estremamente soggetto ad incidenti imprevedibili. L'imprevedibilità è proprio data dal numero di componenti tecniche, naturali e umane che interagiscono fra loro. La seconda conclusione è che benché una semplificazione sia inevitabile, non abbiamo la più pallida idea di come realizzarla in modo non traumatico e organizzato.

Gli autori di Drilling Down promuovono l'idea di un dibattito onesto e “adulto” sulla questione energetica, cioè razionale (per esempio basato sull'EROEI) e interessato al mantenimento di pianeta vivibile per i nostri figli e nipoti (quindi basato su considerazioni etiche). E' leggermente irritante il manifesto scetticismo degli autori nei confronti delle fonti rinnovabili di energia, ma più che altro Tainter e Patzek sembrano rivolgersi a coloro che pensano (in buona o cattiva fede) di poter continuare con il livello di flussi energetici attuali semplicemente sostituendo le fonti fossili con quelle rinnovabili, lasciando tutto il resto immutato. Ma la cosa più apprezzabile di tutto il libro è l'atteggiamento non prescrittivo con cui gli autori si pongono nelle premesse del dibattito adulto che promuovono.

giovedì, novembre 17, 2011

Mezzi pubblici. Non esisteranno più?


Debora Billi, sul suo blog, si pone la preoccupata domanda del titolo. I lettori assidui di questo blog, sanno invece che la mia risposta è ottimistica. I mezzi pubblici esisteranno ancora, ma a condizione che l’Italia segua l’esempio europeo (ma ormai mondiale) e riconverta il proprio sistema di trasporto pubblico dalla inefficiente e improduttiva gomma al ferro, sia in ambito urbano che extraurbano. Con una spruzzata di sana liberalizzazione dei servizi.

Ma, facciamo un po’ il riassunto delle puntate precedenti. Dal punto di vista energetico, i trasporti su ferro e, in particolare i tram, sono nettamente i più efficienti, presentando i minori consumi energetici specifici rispetto a tutti gli altri mezzi di trasporto. Se volete approfondire i motivi tecnici e gestionali a supporto di questa affermazione, li potete leggere in questo mio articolo sul sito di Aspoitalia. Nello stesso articolo, mi avventuravo in una valutazione comparata dei consumi specifici di un tram moderno, collocandoli in un intervallo compreso tra i 7 e i 13 grammi equivalenti petrolio/passeggeri*chilometri.

Questa stima concorda ora sufficientemente con alcuni approfondimenti e ricerche internazionali sull’argomento, di cui riporto in allegato alcuni grafici e tabelle esplicative. Si tratta di studi canadesi, finlandesi ed australiani. I risultati sono espressi in varie unità di misura, ma operando le opportune conversioni (che vi risparmio), giungiamo a valori dei consumi energetici specifici variabili da 3,5 a 14 grammi equivalenti petrolio/passeggeri*chilometri.
Ma, ovviamente, è interessante confrontare negli allegati, i consumi dei trasporti su ferro con quelli di tutti gli altri mezzi di trasporto, pubblici e privati, per notare la abissale prevalenza dei primi. In una società che dovrà inevitabilmente utilizzare l’energia con maggiore efficienza, la scelta a favore del ferro appare obbligata.

Passiamo ora alla questione dei costi, cioè dell’efficienza economica dei vari mezzi di trasporto. E’ questo il fattore che sta portando al fallimento il trasporto pubblico italiano, prevalentemente su gomma, in seguito ai poderosi tagli ai finanziamenti da parte del governo, che hanno messo in crisi un settore in cui il rapporto tra ricavi da traffico e costi operativi è in costante diminuzione e non supera il 30%. Per questo motivo, il valore annuale delle compensazioni pubbliche necessarie a coprire l’inefficienza del sistema di trasporto pubblico locale su gomma, ha ormai raggiunto valori stratosferici. Nel 2007 le regioni italiane hanno dovuto ripianare i bilanci delle aziende per più di 4 miliardi di euro, solo per mantenere un sistema di trasporto estremamente inadeguato in termini di qualità del servizio ed utenti serviti. Se a questi finanziamenti stanziati, si sommano anche i contributi e le spese dirette in conto esercizio e capitale che, oltre a Stato e Regione, versano a vario titolo sul Trasporto Pubblico Locale anche le Province e i Comuni si arriva a un vero e proprio salasso annuo per le finanze pubbliche di circa 10 miliardi di euro.

I moderni sistemi di trasporto ferro – tranviari, grazie alla crescita esponenziale dei passeggeri trasportati, riescono invece ad ottenere risultati economici nettamente superiori, con ricavi che spesso superano i costi operativi. Ciò è determinato da vari fattori, tra cui la maggiore capacità e flessibilità delle vetture articolate, l’elevato comfort e comodità delle vetture, la facile accessibilità garantita dal pianale ribassato, la silenziosità e il basso livello di vibrazioni, la panoramicità delle vetrate, che rendono l’utilizzo del tram molto più piacevole e comodo dei mezzi su gomma. Ma soprattutto, la sede propria separata dagli altri flussi di traffico consente frequenze e puntualità impensabili per i mezzi pubblici su gomma.
Per tutte queste ragioni, il fattore di riempimento del tram, cioè il numero medio di viaggiatori presenti sul mezzo è molto più elevato di quello di un autobus o di un filobus.
In tutte le esperienze europee di introduzione nel tessuto urbano di un servizio tranviario moderno si rileva una crescita enorme dei passeggeri trasportati rispetto alle linee su gomma preesistenti sullo stesso tracciato (A Strasburgo, per esempio, la prima linea tranviaria ha quintuplicato i passeggeri).

Anche alcune ricerche specialistiche, confermano le precedenti valutazioni (una l’ho commentata qui). Ma voglio segnalare un recente e interessante studio pubblicato a questo indirizzo, dal titolo “Bus, filobus oppure rotaie?”. I sistemi tranviari si dimostrano nettamente più competitivi in termini di costi specifici (€/passeggeri*chilometri) e più produttivi dal punto di vista economico (in alcuni casi il rapporto ricavi – costi è favorevole anche considerando il costo dell’infrastruttura).

Speriamo che il nuovo governo, composto da persone competenti e probabilmente con una visione più “europea”, riesca ad affrontare correttamente il problema del trasporto pubblico, attraverso un piano massiccio di investimenti dalla strada alla rotaia.

sabato, novembre 12, 2011

I prossimi quarant'anni

Pubblichiamo in italiano, a seguire, uno stralcio del libro di prossima pubblicazione "I prossimi quarant'anni", in cui il famoso "economista ecologista" Herman Daly espone magistralmente le motivazioni economiche della fine della crescita.
Tempo fa, avevo sintetizzato, qui, il pensiero economico di Daly, commentando uno dei suoi libri. In quest'altro articolo, ho provato a spiegare (sono un ingegnere e non un economista) il concetto di "marginale" in economia, citato spesso da Daly nell'analisi che ora vi propongo.
In un momento storico drammatico, in cui cominciano ad avvertirsi i primi sinistri scricchiolii di un sistema economico illusoriamente fondato sulla crescita illimitata e, in particolare, il nostro paese si dibatte in una crisi da cui non sappiamo se e come ne uscirà, gli ammonimenti di Daly indicano una strada per il risanamento in controtendenza rispetto alle ricette fallimentari che molti continuano ancora a proporre. Speriamo che la traumatica situazione che stiamo vivendo inneschi quel "pentimento" che auspica Daly.
Il testo originario è qui e mi scuso per eventuali imperfezioni della traduzione.

Di Herman Daly

Quaranta anni fa, quando lessi The Limits to Growth, pensavo già che la crescita dell’uso totale delle risorse (popolazione x uso pro capite delle risorse) si sarebbe fermata entro i successivi quarant’anni. L’analisi modellistica del gruppo di Meadows era la conferma certa della convinzione diffusa basata su principi risalenti per lo meno a Malthus e ai primi economisti di scuola classica.

Bene, a distanza di quarant’anni, la crescita economica è ancora l’obiettivo politico praticamente di tutte le nazioni – è innegabile. Gli economisti della crescita dicono che i “neo Malthusiani” hanno semplicemente sbagliato e che continueremo a crescere. Ma io penso che la crescita economica sia già finita, nel senso che la continuazione della crescita è attualmente antieconomica – costa più di quanto vale al margine e ci rende più poveri che ricchi. La chiamiamo ancora crescita economica, o semplicemente ”crescita” nella confusa convinzione che crescita debba sempre intendersi in senso economico. Io sostengo che noi - specialmente coloro che vivono nei paesi ricchi - abbiamo raggiunto il limite economico della crescita, ma non lo sappiamo e disperatamente neghiamo l’evidenza di una contabilità nazionale imperfetta, perché la crescita è il nostro idolo e smettere di adorarlo è un anatema.

E’ incontestabile che se ci chiedessimo se preferiremmo vivere in una grotta congelando al buio invece di accettare i benefici che abbiamo tratto dallo sviluppo, la risposta sarebbe, ovviamente, no. I benefici complessivi dello sviluppo sono, a mio avviso, maggiori dei costi complessivi, sebbene taluni studiosi di economia dibattano questa questione.

In ogni caso non possiamo distruggere il passato e bisogna essere grati a coloro che hanno pagato i costi della creazione del benessere di cui oggi noi godiamo. Ma come ogni economista che si rispetti dovrebbe sapere, sono i costi e i benefici marginali (non totali) che sono rilevanti per determinare quando la crescita diventa antieconomica. I benefici marginali sono in declino, perché ormai soddisfiamo i nostri più pressanti bisogni primari; i costi marginali crescono, perché usiamo innanzitutto le risorse più accessibili e sacrifichiamo alla crescita gli ultimi servizi ecosistemici vitali (trasformiamo la natura in artefatti). I benefici marginali del possesso di una terza autovettura valgono il costo marginale dello sconvolgimento climatico e l'innalzamento del livello del mare? Il calo dei benefici marginali uguaglierà l’aumento dei costi marginali mentre i benefici netti sono positivi - proprio quando i benefici netti cumulativi di crescita del passato sono al massimo! Nessuno è contro l'essere più ricco, almeno fino a un sufficiente livello di ricchezza. Che essere ricco sia meglio di essere poveri è una verità lapalissiana. Che la crescita ci renda sempre più ricchi è un errore elementare anche all'interno della logica di base di un’ economia standard.

Quanto detto prima, ci suggerisce che non vogliamo veramente sapere quando la crescita diventa antieconomica, perché allora dovremmo smettere di crescere in quel punto - e non sappiamo come gestire un stato stazionario dell'economia, e che siamo religiosamente impegnati in un'ideologia dell’assenza di limiti. Noi vogliamo credere che la crescita può "curare la povertà" senza distribuzione e senza limitare la dimensione produttiva della nicchia umana. Per mantenere questo stato di illusione si confondono due distinti significati del termine "crescita economica". A volte ci si riferisce alla crescita di quella cosa che chiamiamo economia (il sottosistema fisico del nostro mondo costituito dalle scorte di popolazione e ricchezza, e dai flussi di produzione e consumo). Quando l'economia diventa fisicamente più grande, noi la chiamiamo "crescita economica". Ma il termine ha anche un secondo significato molto diverso - se la crescita di tutto ciò che produce dei benefici aumenta più rapidamente dei costi, anche quella noi la chiamiamo "crescita economica" - la crescita è economica nel senso che produce un beneficio netto o un profitto. Ora, "crescita economica" nel primo senso comporta "crescita economica" nel secondo senso? No, assolutamente no. L'idea che una economia più grande debba sempre renderci più ricchi è pura confusione.

Che gli economisti debbano contribuire a questa confusione è sconcertante perché tutti i microeconomisti si dedicano a trovare la scala ottimale di una determinata attività - il punto oltre il quale i costi marginali superano i benefici marginali e un'ulteriore crescita sarebbe antieconomica. La formula Ricavo marginale = costo marginale è anche chiamata "quando si ferma la legge" di crescita per un'impresa. Perché questa semplice logica di ottimizzazione scompare nella macroeconomia? Perché la crescita della macro-economia non è soggetta ad una analoga "quando fermare la legge"?

Ci rendiamo conto che tutte le attività microeconomiche fanno parte del sistema più grande macroeconomico, e la loro crescita provoca lo spostamento e il sacrificio di altre parti del sistema. Ma la macro-economia è concepita come il tutto, e quando si espande, presumibilmente nel vuoto, non sposta nulla, e non comporta, quindi, alcun effetto costi-benefici. Ma questo è falso, naturalmente. Anche la macro-economia è una parte, un sottosistema della biosfera, una parte della Più Grande Economia degli ecosistemi naturali. Anche la crescita della macro-economia impone un “costo opportunità” crescente della riduzione di capitale naturale che ad un certo punto limiterà l'ulteriore crescita.

Ma alcuni dicono che se la nostra misura empirica della crescita è il PIL, basato sull’acquisto e la vendita volontarie di beni e servizi finali in libero mercato, allora, ciò garantisce che la crescita sia sempre costituita da beni e non da "mali". Questo accade perché la gente volontariamente acquista solo beni. Se essi, infatti, comprassero “mali” allora dovremmo ridefinirlo come un bene! Vero abbastanza, ma fino ad un certo punto. Il libero mercato non stabilisce un prezzo per i mali – i mali, tuttavia, sono inevitabilmente prodotti indivisi dai beni. Da quando i mali sono senza prezzo, la contabilità del PIL non può sottrarli – invece registra la produzione aggiuntiva di anti-mali (che invece hanno un prezzo), e li conta come merci. Per esempio, non sottraiamo il costo dell'inquinamento come un male, ma si aggiunge il valore della pulizia dell’inquinamento come un bene.
Questa è la contabilità asimmetrica. Inoltre calcoliamo il consumo del capitale naturale (l'esaurimento di miniere, pozzi, falde acquifere, foreste, pesca, terriccio, ecc) come se si trattasse di reddito, piuttosto che riduzione del capitale- un colossale errore contabile. Paradossalmente, quindi, il PIL, qualunque cosa misuri, è anche il miglior indice statistico che abbiamo dell'aggregato di inquinamento, esaurimento, congestione e perdita di biodiversità. L’economista Kenneth Boulding ha suggerito, un po’ ironicamente, di ridefinirlo Costo Interno Lordo. Almeno dovremmo mettere costi e benefici in una contabilità separata per il confronto. Economisti e psicologi stanno scoprendo che, al di là di una soglia di sufficienza, la correlazione positiva tra PIL e felicità soggettiva* scompare. Questo non è sorprendente perché il PIL non è mai stato inteso come misura di felicità o di benessere - solo di attività, alcune delle quali sono gioiose, benefiche, altre purtroppo necessarie, correttive, banali, dannose, e, talora, stupide.

In sintesi, la crescita economica in senso 1 (scala) può essere, e negli Stati Uniti è diventata, crescita antieconomica in senso 2 (benefici netti). Ed è il senso 2 che conta di più. Penso che I limiti dello sviluppo in senso 2 siano stati raggiunti negli ultimi quaranta anni, ma che li abbiamo volontariamente negati, con grande danno della maggior parte di noi, ma a beneficio di una élite minoritaria che continua a spingere per una ideologia della crescita , perché ha trovato il modo di privatizzare i benefici della crescita e socializzare i costi sempre maggiori. Ora la questione che mi pongo è: è possibile che la negazione, l’ illusione e l’offuscamento durino altri quarant'anni? E, se continuiamo a negare il limite alla crescita economica, quanto tempo abbiamo prima di schiantarci contro i più discontinui e catastrofici limiti biofisici? Sono fiducioso che nei prossimi quarant’ anni potremo finalmente riconoscere e adattarci al più clemente possibile limite economico. L'adattamento significa passare dalla crescita ad un stato stazionario dell'economia, quasi certamente di scala più piccola di quello attuale. Con scala intendo dimensioni fisiche dell'economia rispetto all’ecosistema, probabilmente meglio commisurato con il rendimento delle risorse. E, ironia della sorte, il miglior indice esistente che abbiamo è probabilmente il PIL reale!

Devo confessarlo, sono sorpreso che la negazione abbia resistito per quarant’anni. Penso che risvegliarci dal nostro stato di confusione e illusione richiederà una specie di pentimento e conversione, per dirla in termini religiosi. È inutile "prevedere" se avremo la forza spirituale e la chiarezza razionale per una tale conversione. La previsione della direzione della storia si fonda su un determinismo che nega scopo e sforzo come cause indipendenti. Nessuno ottiene un premio per aver predetto il suo comportamento. La previsione del comportamento altrui è problematica, perché gli altri sono così troppo se stessi. E, se siamo davvero deterministi, allora non importa ciò che prevediamo - anche le nostre previsioni sono determinate. Come non-determinista spero e lavoro per porre fine alla crescita-mania entro i prossimi quarant’anni. Questa è la mia personale scommessa sul futuro a medio termine. Quanta fiducia ho di vincere questa scommessa? Circa il 30%, forse. È del tutto plausibile che avremo il totale esaurimento delle risorse della terra e dei sistemi di supporto vitale nel tentativo rovinosamente dissipativo di crescere all’infinito: forse con la conquista militare delle risorse di altre nazioni 'e dei rimanenti beni comuni globali, forse con il tentativo di conquistare la "frontiera alta" dello spazio. Molti pensano che sol perché abbiamo gestito un paio di spedizioni spaziali dal costo enorme, la fantascientifica colonizzazione dello spazio siderale sia tecnicamente, economicamente, politicamente, ed eticamente praticabile. E queste sono le stesse persone che ci dicono che mantenere l’economia sulla terra in uno stato stazionario è un compito troppo difficile da realizzare.

* Si tratta del cosiddetto “Paradosso della felicità” di Easterlin. Il Paradosso della felicità, analizza il rapporto tra felicità (o meglio “soddisfazione”) di ogni individuo e la sua ricchezza. Il risultato individua (e per questo diventa un paradosso) un rapporto tra i due valori inversamente proporzionale, cioè a maggior ricchezza corrisponderebbe una riduzione della felicità .

giovedì, novembre 10, 2011

Un Racconto Personale. La Guerra del Libano e l’Analogia al Post-Picco



Scritto da Toufic El Asmar - Vice Presidente Aspoitalia


Tutti descrivono il Libano come la “Svizzera del Medio Oriente” pensando ad un paese con una natura ed un paesaggio simili a quelli Svizzeri. Paesaggisticamente il Libano è molto bello, caratterizzato da una popolazione per la maggior parte ospitale, generosa, che ama divertirsi. Ma il paragone con la Svizzera riguardava e riguarda ancora il sistema bancario che è segreto, solido e che assicura interessi attraenti per gli investitori. I problemi erano tanti e la guerra non iniziò per caso ma era il risultato di una serie di fatti geopolitici, economici, energetici, politici, sociali. Una situazione sempre più esplosiva che tutti ignoravano o facevano finta di nulla o negavano, malgrado i richiami di qualche Cassandra. Vorrei con questo racconto rendervi partecipi delle mie esperienze di vita, vissute per un lungo periodo, in un contesto di grandi crisi che potrei paragonare per similitudine ad una probabile crisi post-picco e di shortage o carenza di beni e mezzi essenziali per il nostro benessere. Dalla mia nascita nel 1964 fino alla fine dell’estate 1984, vissi con i miei genitori, due fratelli e una sorella, a Beirut in un quartiere che era considerato uno dei migliori di tutta la città. Abitavamo in un appartamento grande, al secondo piano di un palazzo alto 6 piani. In quel quartieri troviamo ancora una chiesa ed una moschea, e la convivenza tra cristiani e musulmani non si era mai incrinata (salvo un paio di cretini di quel tempo).

Beirut, Martedì 15 Aprile 1975, data ufficiale di inizio della guerra in Libano: in quel cadevano i primi morti. Si è trattato di una guerra che durò, ufficialmente, fino al 13 Ottobre 1990 durante la quale una popolazione di 3,5 milioni di abitanti ha dovuto adattarsi a moltissime privazioni come l’assenza, per settimane intere o anche mesi, dell’energia elettrica, la difficoltà di reperire generi alimentari, il gas per cucinare, l’acqua e tante altre necessità . Durante quell’anno, il 1975, avevo 11 anni e non realizzavo ancora quello che stava succedendo; ma pian piano le notizie che ci giungevano via radio oppure per sentito dire, ci rivelavano la dimensione del dramma.

Per tutto il periodo che andava dall’estate del 1975 fino al 1977 circa, la radio diffondeva informazioni particolari sulla viabilità e la sicurezza delle strade Non come quelle di Isoradio ma ci informava su quali strade erano sicure e percorribili, quali erano insicure ma percorribili e quali da non prendere in nessun caso dato che la presenza di cecchini o combattimenti, ma anche la frequenza o meno di rapimenti, le rendevano estremamente pericolose. Dunque, malgrado le prime battaglie, nella maggior parte di Beirut e del Libano, la vita andava avanti come sempre, nel senso che c’era ancora benzina, elettricità, pane, uova, acqua, ecc. Potevamo ancora fare il bagno o la doccia, lavare i piatti e bere acqua dalla cannella. L’ascensore funzionava e la fornitura delle bombole del gas (per la cucina) era regolare; anche l’olio per il riscaldamento centrale ci arrivava regolarmente. I voli della MEA (Middle East Airlines) la compagnia di bandiera libanese e le altre continuavano a volare sopra le nostre teste durante le loro manovre di atterraggio verso l’aeroporto di Beirut. Tutto questo non durò a lungo. A man mano che le battaglie andavano avanti e si intensificavano, i problemi iniziavano ad emergere. L’inasprimento degli scontri militari e politici oltre a morti e danni, causarono i primi blackout, che furono seguiti da altri, finché le centrali elettriche non fu fortemente danneggiate (anche oggi l’erogazione dell’energia elettriche avviene ogni 6 – 12 ore a fasce orarie e per aree geografiche). Le forniture di carburante, gas, olio ed altri beni iniziarono a diminuire fino a cessare del tutto quando la situazione diventava completamente fuori controllo. I trasporti merci via terra (attraverso la Siria), cielo e mare erano stati per lungo tempo bloccati; il porto di Beirut fu completamente razziato dalle milizie mentre la stessa sorte toccò all’aeroporto per mano delle forze siriane o israeliane di occupazione. Il settore turistico è fallito e nel cuore di Beirut, nella famosa via delle Banche, nella via Sursok, e in tutto il centro storico e commerciale della Capitale, distruzioni, sciacallaggii, devastazioni avevano annientato il famoso tessuto economico e commerciale del Paese. Troppe persone si trovarono senza lavoro, i conti correnti furono svuotati dai ladri, la borsa distrutta.

Dunque in sintesi abbiamo vissuto una situazione molto simile a quella che potremmo vivere tra qualche anno qualora si verificassero le previsioni di Cassandra: “crisi energetica determinata da prezzi proibitivi del petrolio, una situazione economica e finanziaria deflagrata, esaurimento della maggior parte dei minerali, diminuzione delle terre produttive, produzione agricola deficitaria, trasporti merci a lunga distanza costosissimi e proibitivi, guerre e insicurezze. A questi dobbiamo aggiungere i problemi ambientali e climatici dovuti ai Cambiamenti Climatici, con l’incremento dell’intensità e la frequenza dei fenomeni anomali come le siccità prolungate, le inondazioni e le temperature molto elevate o molto basse a seconda della stagione.

Adattarsi o andare via, come vivere in condizioni di shortage?
In queste condizioni di caos estremo i Libanesi hanno dovuto scegliere e tale scelta non poteva essere facile ne immediata: andare via vuol dire cercare rifugio in altri parti del Paese con i rischio di ritrovarsi la guerra di nuovo in casa; cambiare Paese vuol dire ripartire da capo e questo lo poteva fare solo chi aveva soldi e forza sufficiente; rimanere voleva dire prima di tutto adattarsi psicologicamente oppure fare parte dei miliziani e di coloro che hanno devastato la Nazione a torto o a ragione. Noi e tanti altri avevamo scelto di rimanere. La capacità di adattarsi alla nuova situazione voleva dire sopravvivere. Dunque bisognava prima di tutto modulare la propria psicologia accettando la situazione e creare tutte le condizioni necessarie per poter continuare a vivere in modo “normale”.
I problemi da risolvere erano:
- Assicurarsi il cibo, l’acqua potabile, e la conservazione del cibo
- Assicurarsi l’energia per Cucinare
- Trovare acqua per l’igiene del corpo e per le faccende della casa
- Illuminarsi le nottate
- Disfarsi dei rifiuti
- Procurarsi medicine e sapone
- Muoversi entro e fuori la città quando era necessario
- Curare la mente e assicurare l’educazione
- Riscaldarsi d’inverno e rinfrescarsi d’estate
Più o meno gli stessi problemi da risolvere in caso di carenza di risorse?
Esistono a mio parere almeno tre fasi di adattamento: la prima è quella più acuta, quando si verifica un evento improvviso, catastrofico, e/o estremo. Durante questa fase di emergenza cerchiamo prima di tutto di assorbire il danno, e trovare i mezzi per sopravvivere. La seconda fase è quella di adattamento, è una fase di passaggio dall’emergenza alla quasi normalità durante la quale ci organizziamo meglio e ci rendiamo conto di tutti i pro e i contro delle nostre scelte. La terza fase è di mitigazione degli effetti dell’evento disastroso e la ricerca delle soluzioni più all’avanguardia capaci di portarci ad una situazione simile a quella normale di pre-crisi. La durata delle fasi è variabile e dipende da molti fattori. Quello che conta è la nostra capacità di adeguarci, organizzarci e soprattutto di prevenzione.

Vivere la crisi e superarla nel miglior modo possibile
La guerra in Libano era durata circa 16 anni (Aprile 1975 – Ottobre 1991) con alti e bassi, cioè momenti di estrema violenza (come ad esempio la guerra dei 100 giorni durante i quali Beirut ed altre aree del Libano furono bombardati in maniera intense e senza sosta) e momenti di calma relativa dovuta all’instaurarsi di una situazione di status quo. I periodi di massima intensità erano caratterizzati da situazioni di grande difficoltà e mancanza quasi totale di qualsiasi elemento di benessere. Andare fuori per comprarsi il cibo, portare l’acqua o cercare le candele per illuminare le stanze durante la notte era estremamente pericoloso. Durante i periodi di calma, le cose andavano meglio. Tuttavia nei momenti più duri la gente diventava più solidale e disponibile.
Quando veniva a mancare la corrente elettrica (avevamo conosciuto blackout lunghi anche un anno) i disagi erano molteplici:
- Il frigorifero spento: il cibo si deteriora, non si può più conservare nulla soprattutto durante l’estate, e non si può bere acqua fredda. Quando si era fortunati arrivava nel nostro quartiere un venditore di cubi di ghiaccio del peso di circa 5 kg che facevamo tagliare e poi mettevamo nel freezer per conservare la carne per almeno 2 giorni. Comunque il cibo non rimaneva a lungo lo consumavamo velocemente.
- L’ascensore fermo: Beh c’era ben poco da fare, tutti a piedi su e giù (il lato buono è che si facevano esercizio e si rimaneva in forma). Il problema era maggiore per vecchi e per trasportare roba pesante. Una cosa positiva delle crisi è che aumenta la solidarietà e la coesione tra i vicini e gli abitanti dello stesso quartiere: io ti aiuto e ti difendo perché mi aspetto che tu faccia lo stesso per me.
- La notte si rimaneva al buio: mi ricordo il buoi pesto delle strade durante la notte, le grida di gioia e gli applausi della gente quando veniva ripristinata. Le candele erano state le nostre compagne per molte notti. La notte era un momento particolare, affascinante e anche quando i combattimenti ed i bombardamenti si intensificavano, la notte era anche paura. Di notte, le città vuote (le macchine circolavano raramente, e la gente si rintanava in casa propria) sono come le stanze vuote, amplificano i suoni (puoi sentire i passi provenienti da lontano, o il rombo delle bombe) e tutto ciò diventa inquietante o affascinante quando sei sul balcone, d’estate o in case d’inverno alla luce fioca delle candele: mi tornano in mente le serate che passavano i miei genitori insieme ai vicini che giocavano a carte fino a notte tardi, oppure quasi tutti i vicini del palazzo, che si rifugiavano a casa nostra durante i bombardamenti, dormivamo in 10 o più nella stessa stanza. Negli anni ottanta passammo dalle candele (fase acuta o di emergenza della crisi) alle lampade ad olio poi a quelle a benzina (fase transitoria), infine dalla metà degli ottanta, ai generatori elettrici (fase di quasi normalità). Comunque questi generatori non servivano granché quando mancavano le forniture di combustibili.
- Le pompe dell’acqua erano ferme, dunque era impossibile fare salire l’acqua verso i piani superiori. Le soluzioni adottate erano diverse, la più comoda era quella di approfittare dei rari momenti di ritorno della fornitura di acqua per riempire la vasca del bagno e creare cosi dei depositi di acqua dentro casa. Ma non sempre questo era sufficiente per cui si andava un po’ tutti verso un area dove si distribuiva l’acqua alla gente o dove c’è un pozzo di acqua (Beirut è ricchissima di pozzi d’acqua di falda: purtroppo oggi la maggior parte di questa acqua si è mescolata con quella del mare). Ciascuno di noi portava dunque due secchi a testa, li riempiva di acqua (potabile o meno a seconda delle esigenze) e si riportavano a casa (lungo le scale). L’acqua potabile veniva messa in contenitori sterilizzati, mentre l’altra messa nelle vasche da bagno. Per lavarci ci si aiutava, con il catino e cercando di usarne il meno possibile, questa è decisamente la soluzione migliore per economizzare.
- Per cucinare ci si affidava ai venditori delle bombole del gas, ma per lungo tempo avevamo usato anche i fornelli a petrolio simili a quelli da campeggio ma più grandi. Quando i rifornimenti di bombole di gas erano possibili ne compravamo 3 o 4 di scorta che lasciavamo sul balcone.
- Mi ricordo mio padre insieme a mio zio che compravano sacchi di farina da 50 kg, la scorta era d’obbligo. Molto del cibo come verdura e frutta, uova e carne di pollo, lo produceva mia nonna che aveva un bell’orto molto ricco. Mia nonna insieme alle sue amiche-vicine, si alzavano alle quattro la mattina e preparavano il pane libanese. La cosa buona del pane libanese è che si conserva a lungo. Dunque il pane non mancava se si riusciva a farlo in casa. Il problema era avere la farina e questa nei momenti di intensi combattimenti non arrivava più. Sicuramente la carne era più difficile da trovare, e mia nonna (che aveva vissuto la fame durante la prima guerra mondiale) sapeva come organizzare e ovviare alle mancanze sicché c’era sempre qualche pietanza a base di grano, riso, legumi, e verdure di vario tipo. Ovviamente la carne di pollo veniva lasciata per la domenica e le occasioni importante. Era mia nonna che sapeva uccidere i polli che poi cucinava per un esercito di persone (minimo 15 persone durante la settimana e più di 20 durante la domenica).
- Per quanto riguarda il trasporto, la mia famiglia non possedeva una macchina quindi ci si spostava raramente su lunghe distanze (magari quando si doveva scappare da Beirut). Tuttavia durante i momenti di scarsità di petrolio (cioè quando la situazione era molto calda) la gente faceva delle file lunghissime (qualche volta ci scappava il morto). A dire la verità nei momenti di calma il traffico si intensificava, le persone andavano al lavoro e i Libanesi hanno sempre dimostrato di essere persone molto attive, caparbie ottimiste. Appena cessavano i bombardamenti o i combattimenti si rimettevano subito a pulire e ricostruire perché la vita deve andare avanti.

Cosa riserverà il futuro?
All’inizio nessun libanese aveva capito a fondo cosa stesse succedendo; il passaggio dall’emergenza alla stabilità aveva seguito il percorso degli eventi e quasi tutti hanno vissuto alla giornata. La capacità di adattamento dipende molto dall’istinto di sopravvivenza e dall’avere comunque e sempre una certa dose di ottimismo. Allo scoccare della mezzanotte di ogni Capo d’Anno tutti ci dicevamo che è finita tanto, peggio di cosi non potrebbe andare, speriamo che il prossimo anno ci porti la pace e la tranquillità. Non sempre è stato cosi, ma è stato sufficiente per andare avanti.
Il Libano oggi continua a trovarsi in una situazione delicata, esso è completamente influenzato dalle crisi regionali. A queste vanno aggiunte la sua quasi totale dipendenza dalle importazioni di materie prime e cibo, la sua produzione agricola interna non è sufficiente ed i terreni produttivi sono drasticamente diminuiti. Il 98% delle sue necessità energetiche dipendono dal Petrolio, il rimanente 2% da un po’ di idroelettrico, geotermico e qualche impianto fotovoltaico e un paio di piccolo eolico. I cambiamenti climatici hanno allungato la stagione siccitosa, il Paese era caratterizzato da un alternarsi di 6 mesi di sole a 6 mesi di piogge con il picco durante il periodo Dicembre – Marzo. Essendo la montagna più alta del Medio Oriente, il Libano (il nome proviene dalla parola Laban, che in fenicio vuol dire bianco, perché nel passato le sue cime più alte (fino a 3018 m erano sempre bianche. Purtroppo il ghiacciaio è scomparso), ha ancora la fortuna di essere un enorme serbatoio di acqua che però non può sfruttare pienamente dal momento che i suoi vicini Israele e Siria non glielo permettono. Staremo a vedere, intanto è l’Italia che si trova sotto le piogge torrenziali.

lunedì, novembre 07, 2011

Emergenze sanitarie di serie B


Sul sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono disponibili i dati più aggiornati relativi all’inquinamento atmosferico da polveri sottili (PM10 e PM2,5) e agli effetti sanitari ad essi correlati nel mondo.

Secondo l’OMS, “Al materiale particolato sottile è associato un ampio spettro di malattie acute e croniche, come il cancro ai polmoni e malattie cardiopolmonari. In tutto il mondo, si stima che esso sia causa di circa il 9% dei decessi per cancro del polmone, 5% dei decessi cardiopolmonari e circa l'1% delle morti per infezione delle vie respiratorie.”

A partire dai dati OMS ho elaborato alcuni interessanti grafici che ci consentono di visualizzare i diversi valori di inquinamento ed effetti sanitari registrati nel 2008 a livello mondiale.
Il primo grafico in alto, riguarda il confronto tra le emissioni di PM10 dei paesi appartenenti all’EU 27.
L’Italia si piazza al 6° posto in questa poco onorevole classifica, con un valore di 36,72 microgrammi/metrocubo, ma al primo posto dei paesi occidentali più avanzati. Ricordo che l’OMS raccomanda di non superare il valore annuale di 20 microgrammi/metrocubo. Ma, come vediamo nel secondo grafico, siamo addirittura al terzo posto per le emissioni di PM2,5 (25,31 microgrammi/metrocubo), molto pericolose per la salute a causa delle piccolissime dimensioni (< 2,5 micron) che facilitano il loro ingresso negli alveoli polmonari. In questo caso il valore raccomandato dall’OMS è di 10 microgrammi/metrocubo.

Purtroppo, come ho scritto qui, siccome quasi nessun paese è in grado di rispettare questo limite annuale e quello giornaliero, l‘Unione Europea ha fatto marcia indietro rispetto a precedenti normative, mantenendo limiti più blandi (40 microgrammi/metrocubo per le PM10 e 25 microgrammi/metrocubo per le PM2,5). Comunque, l’Italia è fuorilegge per le PM2,5 e molte città italiane continuano a non rispettare il limite dei 35 superamenti del valore giornaliero di 50 microgrammi/metrocubo.

Ma, come ho scritto qui, con una sentenza molto discutibile, un magistrato italiano ha di recente ulteriormente depotenziato anche questi limiti insufficienti a garantire la difesa sanitaria delle popolazioni.

Infine allego anche due grafici, ricavati dalla solita fonte OMS, relativi alle morti per inquinamento atmosferico e al DALY (Disability-adjusted life-year, indicatore che combina l'impatto complessivo sulla salute generale di malattie, disabilità e mortalità) nei paesi EU 27. Anche qui l’Italia si distingue molto negativamente, ma a parziale consolazione il valore specifico degli stessi parametri (ogni centomila abitanti) ci vede in una situazione leggermente migliore.

Questi dati nudi e crudi, testimoniano una vera e propria emergenza sanitaria, che l'OMS e altre organizzazioni sanitarie denunciano da molti anni, nell'indifferenza quasi generale. La soluzione è una sola: mettere in discussione l'attuale modello di sviluppo fondato sull'uso del mezzo privato per la mobilità di persone e cose. Ma forse è proprio questo il motivo che spinge l'opinione pubblica e i decisori politici a relegare l'inquinamento atmosferico nella serie B delle emergenze sanitarie.

giovedì, novembre 03, 2011

Un messaggio di saluto del nuovo Presidente di Aspoitalia

Scritto da Luca Pardi


Dopo otto anni dalla fondazione di ASPO-Italia, Ugo Bardi che da allora ne è stato presidente, ha deciso di farsi da parte, e l'assemblea dei soci mi ha fatto l'onore di eleggere il sottoscritto presidente per i prossimi due anni, affiancandomi Toufic el Asmar come vicepresidente, Mauro Icardi segretario, e confermando Marco Bressan tesoriere.

Il mio primo messaggio non può che essere un ringraziamento non rituale ad Ugo nella certezza che continuerà con i suoi atti e con i suoi scritti, che sono sempre stati fonte di ispirazione e riflessione per tutti noi, ad accrescere quella cultura della sostenibilità che, in un mondo ormai entrato nella fase acuta del collasso economico-ecologico, è l'unica bussola su cui possiamo contare. Ugo Bardi resterà fra noi con la nuova carica di past president, e forse avrà più tempo proprio per dedicarsi alla realizzazione dei molti progetti concreti che ha in agenda.

Il nostro programma come nuovi responsabili dell'associazione, in mancanza del carisma del past president, è di dedicarci al miglioramento delle capacità di comunicazione attraverso la creazione di una squadra che si occupi sia della comunicazione virale, che di quella convenzionale. E' chiaro a tutti infatti che la sola comunicazione virale non basta, almeno fin quando non si verifica l'epidemia. E, purtroppo, a vedere dalle code che si formano all'entrata dei centri commerciali per il lancio dell'IPAD4, e dalla persistenza della pubblicità mistificante (leggi qui) si direbbe che l'epidemia sia ancora di là da venire.

Ma non vogliamo darci una struttura rigida, fatta di comunicati stampa e presenzialismo da Hard Think Tahnk come l'Istituto Bruno Leoni, con dipartimenti interni e inutile burocrazia. Meglio non discostarci troppo da quello che siamo stati fino ad oggi, come dice il nostro socio e amico Andrea Fanelli: un lievito per la transizione.

Nel suo intervento al convegno di venerdì scorso Enrico Euli ci esortava, a non vivere in attesa della catastrofe ma di nuotarci dentro dandola per già in corso. Allo stesso convegno Gabriele Porrati ispitatore della compagnia teatrale che ha accompagnato i nostri lavori, concludeva con un messaggio che mi ha commosso e motivato, specialmente perché proveniente da un maschio: “d'ora in poi agirò come se fossi una donna incinta”. Anche se la citazione è fatta a memoria, quindi non esatta, non ha bisogno di spiegazioni in questo contesto. Detto da uno che, come me, ha sempre dichiarato le proprie convinzioni sul natalismo e sulla sovrappopolazione, spero che valga ancora di più.

ASPO ha sempre affrontato i temi dell'energia, delle risorse e dell'ambiente con il raziocinio che indubbiamente viene dalla formazione tecnico scientifica della maggioranza dei suoi membri. Non dovremo rinunciare mai a questa forma mentis. Le Scienze Naturali sono il modo migliore che abbiamo per capire quello che ci sta succedendo intorno. Il ponte con le scienze umane può e deve essere fatto, ma sulla base del principio di non rinuncia al rigore scientifico. Penso in questo momento, ad esempio, alla necessità di intraprendere un certo livello di interlocuzione con l'economia e la sociologia, almeno per colmare le differenze di linguaggio e trovare piattaforme comuni. Per quanto sia difficile trovare economisti “non convenzionali”, è forse possibile intraprendere un dialogo con alcuni economisti che non siano dogmaticamente crescisti e che quantomeno abbiano a cuore il destino dei popoli piuttosto che quello delle oligarchie finanziarie.

Sarà forse più facile fare il ponte con l'espressione artistica come abbiamo cercato di fare, in forma embrionale, nel nostro quinto convegno. Arte e musica possono esprimere concetti con l'immediatezza che gli conferisce il fatto di essere rivolte all'intelligenza emotiva più che a quella razionale. Il non essere nerd su cui abbiamo dibattuto negli scorsi anni potrebbe anche passare attraverso forme di espressione integrata che magari sono ancora da inventare. Un giuoco delle perle di vetro, commistione di arte, scienza, psicologia e perfino spiritualità, che potrebbe farci assumere, o attrarre o recuperare o inventare un'anima femminile che fino ad oggi sembra l'aspetto meno presente di questa per altri versi preziosa associazione.

Buon lavoro a tutti,

Luca Pardi

mercoledì, novembre 02, 2011

Sulla “vexata quaestio” del limite di penetrazione in rete delle rinnovabili intermittenti

Dopo il mio recente articolo che commentava il dibattito in corso in Italia sulle tecnologie di accumulo delle fonti rinnovabili, necessarie per superare il limite di intermittenza, pubblichiamo ora questo contributo di Domenico Coiante sull'entità di questo limite.






Scritto da Domenico Coiante

Mentre cercavo sul web informazioni circa il diagramma di durata oraria del carico elettrico sulla rete nazionale, mi sono fortunosamente imbattuto nel rapporto del Politecnico di Milano del 2009 dal titolo:

POLITECNICO DI MILANO
Dipartimento di Energia
in collaborazione con
CESI RICERCA

Relazione del progetto commissionato da Autorità per l’energia elettrica e il gas
Impatto della generazione diffusa sulle reti di distribuzione, disponibile qui

Il titolo del rapporto e la presenza del CESI mi hanno subito incuriosito. Mi sono chiesto se per caso non fosse questo il risultato dello studio di cui avevo sentito parlare già da tempo e di cui non ero mai riuscito a conoscere i dettagli. Mi sono detto: - Andiamo a vedere di che si tratta.
Nella sintesi iniziale, il documento recita: “…..questo studio ha lo scopo di valutare, in modo quantitativo, il massimo livello di penetrazione della Generazione Diffusa (inteso come massima potenza installabile) compatibile con le attuali reti di distribuzione MT.

L’analisi sulla quantità massima GD installabile sulla rete viene svolta su una porzione significativa dell’attuale della rete di distribuzione MT italiana. Il campione, disponibile all’Autorità ai fini di un’indagine sulla potenza di cortocircuito, consiste in 318 reti e 59.864 nodi e rappresenta circa l’8% della complessiva consistenza delle reti MT su scala nazionale. L’ampiezza e la distribuzione del campione portano a ritenere di poter estendere gli esiti dello studio all’intera rete di distribuzione MT.”

Benissimo! Sembra, pertanto, che io sia andato a incrociare per caso proprio lo studio di cui avevo sentito parlare da alcuni ricercatori del CESI. Il lavoro è datato 2009 ed è redatto su richiesta dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas e, di conseguenza, ha tutto il tono dell’ufficialità.
Vista la dichiarazione iniziale, ho scorso febbrilmente la sintesi, pensando di trovare finalmente la risposta quantitativa alla domanda che noi, poveri mortali dal linguaggio volgare, continuiamo a farci e a discuterci sopra: “Quant’è la potenza massima delle fonti rinnovabili intermittenti che la rete elettrica nazionale può accettare in connessione diretta senza subire effetti di destabilizzazione?”

Mi aspettavo di trovare un numero, in MW, o magari una percentuale riferita al livello di potenza attiva in rete, che concludesse la questione e invece……
Come sopra riportato, lo studio ha preso in esame soltanto un campione della rete a Media Tensione di consistenza pari all’8% del totale. A prima vista sembra un po’ troppo piccolo, ma il testo ci assicura che esso è statisticamente sufficiente per l’estensione a tutta la griglia. Il documento di sintesi si conclude con la seguente risposta della quale mi limito a riportare soltanto i primi due punti, quelli che mostrano un certo aspetto di quantificazione:

• Per quanto riguarda i vincoli sulle correnti di cortocircuito, essi non costituiscono, in primis, il limite più stringente per l’installazione di GD in rete, quanto meno nei casi in cui la taglia del trasformatore non supera i 40 MVA. Nel caso più sfavorevole, costituito dalle reti con tensione nominale di 15 kV, la potenza massima di GD installabile sulla rete è di circa 7.5 MVA per generatori connessi alla rete tramite inverter e circa 5 MVA per generatori rotanti collegati alla rete senza l’interposizione di convertitori statici.
• Per quanto riguarda il vincolo sulle variazioni rapide di tensione, la potenza massima installabile dipende fortemente dal valore della variazione ammissibile. Assumendo un valore pari al 6% della tensione nominale, il vincolo che ne deriva risulta comunque il più stringente tra quelli considerati nello studio, ed ha influenza in particolare sui nodi più distanti dalla sbarra MT.

Provo ad immaginare l’espressione d’illuminazione e di soddisfazione intellettuale dei membri dell’AEEG quando hanno letto queste frasi ed ancora più soddisfatti saranno stati dopo la lettura delle conclusioni:
In conclusione si può affermare che le reti di distribuzione analizzate hanno dimostrato una più che discreta capacità di accoglimento della GD. Livelli ancora maggiori di penetrazione della GD nelle reti di distribuzione potranno necessitare di interventi sui dispositivi di protezione e automazione di rete, nonché di una più efficiente gestione delle protezioni di interfaccia.

“Finalmente abbiamo capito tutto!” Si saranno detti.
Beati loro, perché, invece, io ho capito ben poco. E voi?

PS
Ho già dato una prima lettura al testo completo, che mi è apparso molto ostico, con la speranza di riuscire da solo a ricavare dai dati la risposta chiara cercata. Non ci sono ancora riuscito (si sa l’età rallenta i riflessi), ma non ho perso la speranza. Ho cominciato una seconda lettura, che forse porterà a qualche risultato interpretativo.
Ho indicato il link sotto al titolo, con la segreta speranza che qualcuno di voi un po’ più sveglio di me possa trarre dallo studio gli elementi per dare la risposta che cerchiamo.