Visualizzazione post con etichetta energie rinnovabili. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta energie rinnovabili. Mostra tutti i post

venerdì, marzo 30, 2012

I brufoli e la gobba

Ovvero "nucleare e molto altro" - Settembre 2011


Di Mirco Rossi

già pubblicato su
O LA BORSA O LA PACE? TRA CRISI RIVOLUZIONI E ATTESE 
Annuario geopolitico della pace 2011 
della Fondazione Venezia per la Ricerca sulla Pace 
Altreconomia Edizioni www. Altreconomia.it/libri 19,90 euro


Sino a qualche mese fa si parlava in continuazione di brufoli: uno era in pericolosa suppurazione e alcuni nuovi stavano per nascere in luoghi molto più fastidiosi di altri. La particolare attenzione con cui si è reagito ha bloccato i nascituri (almeno per ora) ma non ha potuto guarire l’infezione che sta proseguendo, solo un po’ circoscritta da bende precarie ma in un posto lontano, che a noi non dà molto fastidio. Molti altri foruncoli rischiano di maturare e iniziare a spargere i loro germi patogeni tutt’intorno; ce dovremmo preoccupare, ma come al solito sinché non succede non ce ne curiamo.

Abbiamo salvaguardato il nostro giardino, il resto ci appassiona poco; ci rimane indifferente quasi come quella gigantesca gobba, da cui i brufoli si alimentano e sono cresciuti. Nemmeno la notiamo, quasi sia un’entità trasparente, invisibile, inconsistente. Eppure sotto di essa gemono, sempre più compressi e sofferenti, l’economia, lo sviluppo, l’occupazione, le crisi che attanagliano questa civiltà globale, dei consumi e della crescita.

Nel delirio dell’illusione di onnipotenza, maturata sui progressi della scienza e della tecnologia, si procede senza sosta a sfruttare la natura e le sue risorse, dimentichi dei limiti che caratterizzano la realtà. Una realtà che investe anche la dimensione numerica della presenza umana su questo pianeta.

La terra non è una cornucopia che, come racconta la mitologia, rigurgita frumento o frutta all’infinito. Le risorse non rinnovabili (minerali, metalli, combustibili) sono state già in larga parte estratte e distrutte; alcune hanno iniziato un lento inarrestabile declino, per altre gli scenari non escludono a breve l’esaurimento o una presenza residuale.

Quelle rinnovabili spesso non risultano più disponibili a sufficienza in quanto sfruttate ad una velocità superiore a quella del naturale ciclo di rinnovamento e conservazione (pesci, foreste, acqua potabile, territorio fertile).

Particolarissima importanza assume la sfera dell’energia fossile (petrolio, gas, carbone) e nucleare in quanto garantisce oggi circa il 90% del fabbisogno energetico del pianeta.

E dovrebbe far riflettere il fatto che nulla, che non sia totalmente naturale, possa essere prodotto, fatto, trasformato, trasportato, lavorato senza l’apporto di un certo quantitativo di energia che, mentre viene impiegata, si degrada e non risulterà mai più disponibile.

Ogni manufatto, di qualunque tipo, “assorbe” una quota di energia, sostanzialmente irrecuperabile, per sempre.

Stiamo tirando fuori dalla crosta terrestre, per distruggerle definitivamente in circa due secoli, enormi quantità di risorse formatesi poco dopo il big-bang (uranio) o nelle ultime centinaia di milioni di anni (carboni e idrocarburi). E mentre da qualche anno si sta evidenziando una certa sensibilità per i tragici omaggi che i processi di trasformazione di queste energie primarie rilasciano nell’ambiente (inquinamento, riscaldamento globale, mutazioni climatiche), quasi nessuna attenzione viene posta al fatto che una tale ricchezza “di base” non può durare in eterno. I quantitativi presenti in natura sono quasi sempre imponenti, ma per forza di cose limitati (in misura diversa caso per caso) e quando costruiamo qualcosa rimane sempre meno energia per il futuro.




Segnali critici di declino per qualche risorsa sono ormai evidenti e dovrebbero allarmare tutti coloro (e sono tantissimi, a destra, a sinistra, in alto e in basso della scala sociale) che rincorrono la crescita continua di beni, di oggetti, di prodotti.

L’idea di crescita si è installata nell’immaginario collettivo, sia nella frazione ricca che in quella povera del mondo (qui almeno in parte giustificata!), ed è vissuta come un diritto naturale, con l’aggravante che sempre più spesso essa genera una “ricchezza” effimera, superficiale, frivola, incapace di rispondere al bisogno di reale benessere insito in ogni persona.

Lo sviluppo fondato sulla crescita quantitativa (in progressione geometrica) viene ostinatamente perseguito come unica risposta all’aumento della popolazione mondiale, al problema del lavoro, dell’occupazione; viene letto come sinonimo di prosperità e miglioramento sociale, proposto come medicina taumaturgica capace di “risolvere” (con artificio matematico) da sola la questione del debito pubblico. Dimentichi che l’abitudine di chiudere i bilanci statali “in rosso”, ormai consolidata in quasi tutti i paesi del mondo, si configura in realtà come un vivere “a credito” (non autorizzato) delle generazioni future, lasciando loro un mondo sempre più caldo, inquinato, indebitato e con i magazzini di risorse naturali pressoché esauriti.

Eppure l’irrazionalità dell’idea che risorse limitate per definizione possano garantire una crescita senza fine, emerge in tutta evidenza. Con una semplicità che appare persino offensiva.

In parecchie decine di conferenze, dibattiti, tavole rotonde, prima del referendum di giugno ho parlato a lungo di brufoli-nucleari chiarendo già alle prime parole che, pur rappresentando essi un problema con i fiocchi, la questione gigantesca che abbiamo davanti è altra. All’inizio mi si guardava sempre con un certo sospetto ma al termine una nuova consapevolezza serpeggiava tra il pubblico. Fuor di metafora, l’energia nucleare per uso pacifico rappresenta solo l’aspetto più epidermico, minoritario e non certo risolutivo del desiderio insensato che l’umanità ha di garantire a sé stessa la disponibilità di energia necessaria a continuare sulla strada della costante crescita, dell’incremento anno su anno del PIL.

Dopo Fukushima, ampi strati di cittadini hanno dato vita a una forte opposizione contro l’energia elettronucleare, in gran parte originata dall’emozione degli eventi e dalla paura che un disastro di tali dimensioni ha risvegliato. Pochi tuttavia conoscono i motivi che, oltre ai ben noti e gravi pericoli per la salute (soprattutto in caso d’incidente) e ai problemi relativi alle scorie, giustificano una tale contrarietà. Alcuni emergono chiaramente se si allarga lo sguardo al panorama completo delle fonti energetiche primarie (idrocarburi, carboni, idroelettrico, nuove rinnovabili, geotermico):

1) L’energia nucleare (oltre 430 reattori, teoricamente attivi) produce un quantitativo di elettricità che a livello mondiale rappresenta solo poco più del 5% dell’energia primaria e del 12 % dell’energia elettrica.

2) L’elettricità rappresenta meno del 40% dei consumi energetici mondiali. Se anche, come ormai risulta opportuno, possibile e necessario, si riuscisse ad aumentare questa quota (convertendo per esempio i sistemi di trasporto da combustione interna a elettrico) una larghissima parte dei nostri fabbisogni energetici resterebbe “scoperta”, non potrebbe mai essere soddisfatta con la fonte elettrica (servirà carbone per ridurre i minerali di ferro a ghisa, petrolio e gas per tutte le plastiche, i fertilizzanti, i lubrificanti, i carburanti, i tessuti sintetici, la gomma, gli asfalti, i medicinali, i colori, le colle ecc).



3) L’uranio, unico elemento in grado oggi (ma probabilmente anche in futuro) di mantenere attiva autonomamente nel tempo una reazione di fissione nucleare, è un metallo ricavabile da particolari minerali, che solo in quantità limitata lo contengono in percentuali sfruttabili. Le stime sulle riserve ancora esistenti variano parecchio, tanto che quelle ottimistiche parlano di poco meno di un secolo di durata mentre quelle pessimistiche di meno di un trentennio. Si sta iniziando a lavorare minerale con tenori di uranio sempre più bassi, scontando un progressivo aumento dei costi. Già da tempo è più conveniente recuperare nuovo combustibile dalle cariche delle bombe dismesse con gli accordi SALT e rilavorando il cosiddetto “uranio impoverito”.

4) Nessuno è in grado di definire oggi, in particolare dopo quanto accaduto a Fukushima, il costo della costruzione di una centrale nucleare. Per la centrale di Olkiluoto (quasi terminata sulla base di un progetto approvato nel 2002), la sola di cui siano disponibili in termini accettabili i costi, si parla ormai di oltre 6,5 miliardi di euro. Alla messa in servizio dell’impianto mancano parecchi mesi, se non anni, e non è escluso che il disastro giapponese obblighi a nuove misure di sicurezza che complicherebbero il quadro. Non casualmente dalla fine degli anni '70 i privati si sono tenuti ben lontani dall’industria nucleare, rimasta appannaggio delle strutture statali, spesso interessate a questa tecnologia particolarmente onerosa per scopi non propriamente pacifici.

5) Nessuno ha mai realmente implementato nei costi della centrale il prezzo del suo smantellamento a fine vita. Si tratta di una cifra molto elevata ma in realtà sconosciuta, relativa a un’operazione affatto risolutiva dei problemi legati alla radioattività residua e che dura da alcuni decenni, a secoli o millenni. Le esperienze sinora fatte sono poche e parziali e non permettono di esprimere standard di costi affidabili. Nella fase iniziale dell’epoca nucleare la questione non veniva presa in considerazione; da qualche tempo alcuni paesi (Francia e USA) hanno deciso di implementare nel prezzo del kWh una quota da accantonare per finanziare lo smantellamento dell’impianto. Alcuni stimano che l’ordine di grandezza complessivo di questo onere non sia molto lontano da quello di costruzione dell’impianto.

6) Gradualmente negli ultimi 30 anni quasi un centinaio di reattori sono stati spenti per “vecchiaia” e sono in attesa che si creino le condizioni per iniziare le attività di smantellamento. Le risorse a questo scopo non sono facilmente reperibili, come non lo sono quelle necessarie a mantenere in efficienza molti altri impianti nucleari ormai “anziani”. Inghilterra e Francia ne hanno diversi “in grave difficoltà”, per carenza di risorse manutentive. Negli USA aumentano le denunce di scarsa manutenzione degli impianti più vecchi. Gli stress-test a cui dopo Fukushima si è deciso di sottoporre tutti gli impianti, se fatti seriamente aumenteranno di sicuro il numero di casi bisognosi di significativi interventi se non di anticipata chiusura.

7) Nessuno ha mai potuto o può definire i costi reali della messa in sicurezza e conservazione nel tempo delle scorie e dei materiali radioattivi provenienti dallo smantellamento. Lo stoccaggio oggi non può far riferimento a nessun deposito definitivo funzionante. Asse II° nella Bassa Sassonia sembrava sigillato per sempre dagli anni ’80 ma a causa di impreviste e pericolose infiltrazioni d’acqua molto probabilmente dovrà essere aperto e svuotato dei suoi 126.000 fusti. Yucca Mountain nel Nevada era prossimo a iniziare l’attività quando, a seguito di nuove valutazioni geologiche, il sito è stato bocciato: dopo quasi 30 anni di lavori (e decine e decine di milioni di dollari spesi) il progetto ora è completamente abbandonato. Inoltre il mantenimento in sicurezza di un sito non ha tempi prevedibili e quindi risulta pressoché impossibile definirne l’onere.

8) Come indefinibile a priori (e anche a posteriori) è il costo economico di un incidente grave. Seppure le vittime della fase critica iniziale degli incidenti nucleari, almeno sinora, siano state inferiori a quelle di altri incidenti ritenuti pressoché “normali” in questa epoca, l’impossibilità di eliminare la radioattività e le sue tragiche conseguenze sul biosistema, per tempi molto lunghi, rende “non valutabile” (quindi non accettabile) il danno inferto a intere regioni; dal punto di vista materiale ma ancor più etico e sociale. Per “default” di questi problemi è costretta a farsi carico la società nel suo insieme, per generazioni.

Se, in uno scenario di persistente crisi economica mondiale, si considera il modesto ruolo quantitativo e temporale che la fonte nucleare può svolgere nel panorama energetico globale e si sommano le criticità relative al mantenimento in funzione degli impianti che invecchiano, la crescita dei costi di costruzione di nuovi impianti rispondenti a più elevati livelli di sicurezza, i limiti relativi alle risorse di uranio, l’incognita degli oneri di smantellamento, gli insoluti problemi di stoccaggio delle scorie e il crescente rifiuto sociale, diventa completamente irrazionale immaginare una fase espansiva per l’energia nucleare.

Eppure qui da noi c’era anche chi aveva il coraggio di sostenere che la costruzione di impianti nucleari avrebbe sostituito buona parte delle importazioni di greggio e sarebbe stata la risposta più opportuna al prezzo, troppo elevato, del petrolio; dimenticando – tra l’altro! - che in Italia solo il 4% dell’energia termoelettrica viene generata bruciando prodotti di raffineria, che l’energia termoelettrica nel suo insieme rappresenta il 66% dell’offerta nazionale di elettricità e che tutta l’elettricità italiana equivale a un terzo (34%) dell’energia totale consumata nel paese.




Si dimostrava così la palese incompetenza nel cogliere il segnale che l’inversione di tendenza della “gobba” era iniziata, l’incapacità di fronteggiare il progressivo declino della risorsa “principe”, il petrolio: la fonte che quasi da sola ha garantito lo straordinario sviluppo del pianeta per tutta la seconda metà del secolo scorso.

Nessuna altra fonte conosciuta è così prolifica di energia e di sostanze come il petrolio che, ormai dal lontano 1980, ogni anno scopriamo sempre in quantità inferiore a quella che consumiamo. Leggendo i dati statistici sembra che le riserve esistenti non diminuiscano ma il fenomeno è in buona parte dovuto a rivalutazioni, a volte collegate a più moderne tecnologie di estrazione ma spesso originate da “nuove stime” (non meglio giustificate) dei giacimenti già conosciuti. Tanto che diversi studiosi ritengono scarsamente affidabili i dati ufficiali forniti dai paesi produttori, come, per esempio, quelli dell’Arabia Saudita.

In ogni caso le quantità di petrolio sono ancora molto consistenti; probabilmente è stata estratta circa la metà di quello esistente. Quindi il problema non va enunciato con “il petrolio è terminato” (ce ne sarà almeno per parecchi decenni ancora, si spera anche più) bensì con “cresce progressivamente la difficoltà a soddisfare la domanda globale”, in relazione ai problemi nel trovarlo, alla possibilità di estrarlo e ai risultati dell’estrazione.

Infatti, pur accettando per veri i dati sulle riserve, la questione va oltre le stime dei quantitativi ancora esistenti, o ipotizzati: aspetto determinante è il ritorno utile dell’attività di ricerca ed estrazione. Cioè il rapporto tra l’energia ottenuta e quella investita per trovare ed estrarre, per esempio, nuovo petrolio.

Nelle varie analisi riferite agli scenari energetici inspiegabilmente non si tiene conto dell’energia che si consuma con le attività organizzative, gestionali, di ricerca, di esplorazione marina e terrestre, di sondaggio, di perforazione, di prove, di messa a punto e coltivazione del giacimento, di lavorazione e trasporto della risorsa. E questo rapporto, mediamente, non può che diminuire nel tempo: le ferree leggi dell’economia costringono inevitabilmente a sfruttare per prime le riserve “più buone e più facili”, quelle che garantiscono profitti immediati e consistenti, lasciando per ultime le più complicate, di peggiore qualità, quelle meno vantaggiose.




In termini tecnici si parla di ERoEI (Energy Returned On Energy Invested), un indice che per buona parte della prima metà del secolo scorso per il petrolio si attestava attorno a 100. Cioè, con l’energia di un barile di petrolio, si portavano a casa 100 barili di petrolio. Un risultato che oggi, quando va bene, arriva a 15 e sempre più spesso non supera 10, 12, destinato a ridursi ulteriormente.

La logica di questo approccio appare estranea al mondo dei combustibili, anche se normalmente accettata in altri campi. Non suscita meraviglia se lo sfruttamento di una miniera d’oro, o di carbone o di mercurio, viene interrotto quando la risorsa risulta troppo poco concentrata nel terreno. L’estrazione non è più conveniente ma ciò non significa che il metallo o il minerale in quel luogo sia completamente esaurito (anzi se ne può stimare facilmente il quantitativo): semplicemente l’estrazione risulta eccessivamente “costosa” dal punto di vista dello scavo, del trasporto, della lavorazione e quindi non più vantaggiosa.

Questa prassi vale per tutte le sostanze che preleviamo dall’ambiente naturale; nel caso dei combustibili (tutti) la riduzione dell’ERoEI individua con grande precisione la validità della coltivazione di un giacimento mentre il valore monetario riconosciuto alla risorsa ha scarsa influenza sui benefici reali (diversi da quello economico) derivanti dall’estrazione.

L’aumento del prezzo di un barile di greggio sul mercato permette di sfruttare giacimenti più “difficili” e quindi estrarre altro olio, ma sino a un certo limite. Per assurdo, se il prezzo arrivasse a 1.000 $/barile qualcuno potrebbe per un po’ ricavarne enormi profitti economici ma appena l’estrazione offrisse un ERoEI attorno a 3 o 4, risulterebbe appena in grado di garantire alla collettività un livello di pura sussistenza e potrebbe risultare più conveniente indirizzare risorse e lavoro alla coltivazione di terreni e produzione di cibo.






Infatti, l’ERoEI individua anche il livello al quale la comunità può continuare a mantenersi o svilupparsi accumulando e usando “vera ricchezza”, cioè energia, materiali, elementi, in aggiunta a quelli di cui disponeva.

Più basso è l’ERoEI minore sarà il vero “guadagno” socialmente fruibile. Inoltre il basso ERoEI e le difficoltà nel soddisfare la domanda, influenzano direttamente il prezzo del greggio trascinandolo su livelli che l’economia (questa economia!) non è in grado di sopportare a lungo.

Sono elementi che condizionano profondamente le possibilità di sviluppo (quello vero, non fittizio) e che una parte degli economisti considera tra i principali fattori da porre alla base delle crisi economico-finanziarie globali cui assistiamo dal 2008.

La possibilità di produrre nuovi beni e nuovi servizi in un determinato paese può essere attivata e sostenuta (in parte e momentaneamente) da un flusso monetario creato ad hoc, ma ciò comporta indebitamento con l’estero o con le future generazioni di cittadini o inflazione. Un paese che non dispone di reali risorse interne (o di lavoro e impianti adeguati, per poter rivendere poi all’estero le risorse importate trasformate in beni) non può realizzare nessuna crescita o sviluppo.

Se, invece di uno stato, si prende in considerazione l’insieme del pianeta, la possibilità complessiva di produrre nuova ricchezza per l’umanità dipende anzitutto dalla disponibilità di nuove risorse. Contano anche altri elementi importanti e indubbiamente incisivi (scienza, tecnologia, cultura, organizzazione) che tuttavia non possono che applicarsi alla disponibilità di nuovi flussi di risorse lavorabili, sfruttabili, impiegabili. Per un certo periodo può risultare utile e percorribile il riequilibrio tra sacche di agiatezza e di povertà, ma alla fine l’umanità deve attestare la propria consistenza, i propri consumi complessivi e adeguare il proprio stile di vita medio al livello del flusso di risorse disponibile.

In sostanza, ci si può illudere per un po’ stampando denaro, magari spostandolo da un punto all’altro, ma non si possono stampare barili di petrolio. E nemmeno cibo, per produrre il quale oggi serve molto petrolio e molta energia.

In alternativa, ricorrendo alla fantascienza, si può pensare di importare risorse dai marziani e pagarle con parte dei prodotti lavorati da noi umani.

In concreto però si sta evidenziando in questo periodo l’accentuarsi dei conflitti (politici e armati) attraverso i quali chi riesce a mettere in campo una maggiore forza impone la sua autorità e si accaparra quante più risorse riesce a raggiungere. Poco importa se così si uccide, si distruggono territori, ambienti, equilibri sociali: l’imperativo è recuperare risorse primarie per continuare la crescita e aumentare la produzione. Chi può, chi è in grado, continua a perseguirlo, a qualunque prezzo, indifferente ai costi sociali ed ambientali che ne conseguono.

E’ storia vecchia quella di accumulare più ricchezza possibile, caratteristica preminente dell’uomo almeno dalla fase in cui ritenne non più indispensabile organizzare i propri gruppi sociali a livello solidaristico.

Considerate le peculiarità del petrolio, si capisce facilmente perché da qualche decina d’anni l’interesse si concentri in particolare su questa risorsa. Non si trascurano affatto molte altre sostanze, acqua e terreno agricolo compresi, ma il petrolio è al centro degli interessi di tutti i paesi del mondo; in particolare quello ancora relativamente facile da estrarre e di buona qualità. Anche se da qualche anno non si disdegna di grattare il fondo degli oceani con pozzi che superano i 9 km di profondità; si perfora tra i ghiacci perenni, si accendono fuochi a migliaia di metri sotto terra per riscaldare e spingere fuori greggio ostinato, si lavorano ad elevate temperature sabbie oleose scarsamente produttive e altamente inquinanti.







Ma più gravemente si registrano comportamenti sempre più chiari ed espliciti legati in alcuni casi al progressivo esaurirsi di giacimenti, in altri dalla necessità di garantirsi in ogni modo nuove e maggiori disponibilità.

I pozzi del Mare del Nord dal 2000 producono sempre meno e stanno per esaurirsi; ecco allora che l’Inghilterra ritrova l’interesse per le miniere di carbone nazionale, chiuse nei primi anni ’80 e, assieme alla Francia, improvvisamente scopre di condividere gli aneliti di democrazia del popolo libico. La Cina sta accaparrando giacimenti in ogni dove, Africa soprattutto, anticipando enormi quantità di denaro in cambio di promesse di fornitura. Gli USA, da tempo presenti in tutti gli scacchieri petroliferi mondiali, puntano a convincere i nuovi fornitori portandoli a sedere sotto l’ombra del dollaro e dei propri cannoni. La Russia ha esplicitamente rivendicato i fondali sotto i ghiacci del polo nord, a costo di scontrarsi – per ora a livello di diplomazie – con il Canada e gli USA.

Ho fatto cenno solo al petrolio cercando di chiarire che il tempo del greggio facile a basso costo è definitivamente tramontato; ma scenari simili (con alcune importanti varianti temporali e quantitative) sono riferibili al metano e ai carboni. Inoltre quasi nulla ho scritto sulle molteplici e gravissime conseguenze che l’impiego sempre più massiccio di queste fonti determina sul clima e sulla biosfera.







Volutamente ho scelto di circoscrivere queste considerazioni agli aspetti delle fonti d’energia meno avvertiti e meno dibattuti, anche tra coloro che possono essere considerati sensibili a problematiche di questo tipo.

Nel momento in cui – e molti lo considerano prossimo – la domanda di energia globale non potrà essere più garantita dalle possibilità e dalle capacità estrattive, il conflitto non potrà che esplodere. Lo scontro globale per il petrolio resta oggi ancora occultato sotto la foglia di fico della democrazia da esportare, dello sviluppo locale da favorire, ma la situazione sta peggiorando velocemente e con ogni probabilità tra non molto dovremo assistere a guerre guerreggiate esplicitamente per il dominio sui pozzi.

Quasi certamente saranno anticipate da disordini interni alle nazioni socialmente più esposte e fragili, da ricorrenti, profonde e complesse crisi economico-finanziarie (l’attualità ci sta offrendo esempi evidenti) ma dobbiamo anche aspettarci che si verifichino fenomeni di collasso della rappresentatività democratica: quanti cittadini, all’evidenziarsi di una prima sostanziale carenza, privi della benchè minima consapevolezza della situazione, sapranno comprendere l’ineluttabilità di un improvviso razionamento dei carburanti, o dell’elettricità o delle forniture di gas? Quale livello di rappresentatività della volontà popolare potrà vantare un qualsiasi governo costretto dalla mancanza di alternative a simili non rinviabili decisioni?

Assisteremo anche al liquefarsi delle alleanze tra stati, già ora così incerte e fragili.

Per esempio, se dovesse mancare una significativa percentuale di greggio o di metano in Europa, è ipotizzabile un tavolo in cui ciascuno degli stati rinunci di buon grado in proporzione ai propri consumi? Sembra perlomeno arduo, se non inverosimile.

Su questi aspetti oltre un anno fa lo JOE (Joint Operating Environment – United States Joint Forces Command) e il DOE (Department Of Energy) negli USA e, in Europa, un think-tank dell’esercito tedesco (ZtransfBw-Zentrum für Transformation der Bundeswerh), hanno pubblicato dei lavori e presentato attente considerazioni, ma anche se proposte da organismi di questo livello quasi nessuno le ha raccolte e sviluppate.

Gli avvertimenti sugli effetti collegati all’esistenza della “gobba” non mancano certo, ma la crescita resta comunque il feticcio a cui tutto sembra sacrificabile. Trovare soluzioni non è certo facile ma per iniziare è indispensabile almeno essere consapevoli della situazione.

Ci si è mobilitati per il nucleare ma si resta pressoché immobili di fronte alla questione energetica globale: il declino del petrolio e la limitatezza delle fonti di energia fossile. Come paralizzati, dimentichi che nessun pericolo di guerra concreto (fatte salve questioni particolari, tipo Israele-Iran) era ed è ipotizzabile in ordine allo sviluppo della fonte elettronucleare, mentre invece le guerre per il petrolio vengono agite surrettiziamente da decenni e rischiano di diventare esplicite entro breve coinvolgendo ambiti privi di confini.

E’ urgente quindi attivare velocemente i rimedi possibili: riduzione dei consumi e sviluppo di tutte le energie rinnovabili, avvertiti però che difficilmente si riuscirà a coprire il gap che si determinerà a causa del declino dei fossili. Si pone quindi come indispensabile la costruzione di un vero e proprio nuovo sistema di pensiero, orientato a perseguire un diverso benessere sganciato dallo sviluppo materiale e in grado di rigettare il paradigma di un’impossibile costante crescita della produzione e dei consumi. Ben consci che in questo caso nessun referendum potrà salvarci.

giovedì, dicembre 22, 2011

L'irresponsabilità di essere (tecno)ottimisti

Di Antonio Turiel 


Apparso il 19 Aprile 2010 su The Oil Crash. Traduzione di Massimiliano Rupalti.
Pubblicato anche su Effetto Cassandra



Cari lettori,

sulla base dell'ultimo commento di Agustìn (un lettore del blog, ndT) fatto al precedente post, ho creduto che il tema toccato fosse talmente ampio che meritasse un post a sé.

Circa la descrizione che facevo dei problemi di fornitura di frutta e verdura nel Regno Unito provocata dal blocco del traffico aereo (è il periodo dell'eruzione del vulcano islandese Eyiafjallajokull, ndT), Agustìn diceva quanto segue:

Sono chiare due cose: Primo: che in questo pianeta siamo di passaggio e quasi per caso, quindi qualsiasi crisi ci può spazzar via dalla faccia della Terra. Secondo:che la tecnologia (in questo caso l'aeronautica) può ben poco di fronte a questo. Ma non importa, ci sarà sempre gente che protesta perché non sono state previste le conseguenze dell'eruzione e perché non si è cercata una soluzione al “loro" problema.

Agustìn ha ragione, perché sono questi due i problemi ricorrenti e che spiegano in gran parte la nostra incapacità di approcciarci in modo razionale al problema del Picco del petrolioGrosso modo (scritto così nel testo originale, ndT), questi due problemi sono la nostra incapacità di accettare i nostri limiti e il tecno-ottimismo.

L'essere umano è, intrinsecamente e necessariamente, limitato. Questo lo capiamo presto da bambini: non possiamo correre tanto quanto vorremmo, non possiamo sollevare cose molto pesanti, non possiamo volare... E nemmeno possiamo fare ciò che crediamo, nel contesto dei nostri limiti fisici, per via di altri limiti intangibili ma ugualmente inflessibili: la famiglia, la società, la scuola... Tuttavia, questa evidenza si va disperdendo con l'età, nella misura in cui si insedia un'altra idea, non tanto naturale ed evidentemente fallace, che dice che è possibile ottenere qualsiasi cosa, con i giusti mezzi. La nostra società dei consumi ci sta permeando con l'idea che con sufficiente denaro si può ottenere tutto e dove la nostra capacità fisica non può arrivare,sarà capace di arrivare l'onnipotente tecnologia. Questa nuova realtà prefabbricata risulta essere molto comoda e conveniente; elimina l'incertezza del mondo reale, rende più rarefatta la più terribile di tutte le certezze, quella della propria morte, e spinge le persone a consumare senza riflettere.

Tuttavia, occasionalmente, la disgrazia arriva comunque, la gente muore in incidenti, terremoti, malattie.... L'economia ha problemi, la disoccupazione aumenta, l'insicurezza cresce... Per lottare contro questa realtà spigolosa, che intacca la nostra cortina di illusioni, abbiamo il tecno-ottimismo, vale a dire la rigida credenza nel fatto che la tecnologia possa risolvere qualsiasi problema, se solo siamo disposti ad investire a sufficienza nel suo sviluppo. Questo sta alla base di molte politiche che sono in corso di attuazione oggigiorno, man mano che si comincia a percepire il fatto che abbiamo un problema intrinseco col modello attuale: che, eventualmente, dobbiamo cercare energie alternative; che, eventualmente, l'auto elettrica ci potrà aiutare a superare la nostra dipendenza dal petrolio, ecc. L'infantilismo nel quale ci ha gettati il consumismo ci porta a credere che tutti i problemi si possono risolvere e che Papà-Stato-Autorità-Tecnologia-Scienza-Chiperloro, in ogni caso l'autorità superiore e responsabile, non solo può, ma addirittura ha l'obbligo di risolvere i problemi. Trovo frustrante che, in tutti gli incontri che vado proponendo sull'Oil Crash, quando arriva il momento delle domande ci sia sempre qualcuno che ci chiede, quasi esige da noi – noi che siamo scienziati e che pertanto siamo parte di questo establishment onnipotente – che risolviamo un problema tanto complesso come quello di adattare una società autistica ed egoista ad uno scenario di diminuzione dell'energia; fuori le soluzioni, forza!

Il problema veramente grave è che le diverse amministrazioni accettano questo ruolo di fornitori di soluzioni che, in realtà, non possono ricoprire. Non si vendono più automobili? “Non vi preoccupate, metteremo sovvenzioni per fare in modo che si continuino a vendere”, anche se entro tre anni non si sa da dove estrarremo il petrolio, non tanto a buon mercato, ma a qualsiasi prezzo. La gente si preoccupa perché il prezzo del petrolio sale? “Non vi preoccupate che con l'auto elettrica il problema del petrolio scompare”, ignorando il fatto che il petrolio non si usa solo per le auto, ma per quasi tutto e che in ogni caso non abbiamo idea da dove verrà l'energia per ricaricare queste auto e per la costruzione delle quali non abbiamo, in ogni caso, sufficienti materiali (per esempio le terre rare, ndT). La domanda di petrolio per gli altri usi energetici, oltre alle auto, continua? “Non vi preoccupate, che possiamo moltiplicare per due o per tre la produzione di energia rinnovabile attuale”, ma ignorando che questo è molto lontano dal moltiplicare il suo potenziale per 20, che è quello di cui avremmo bisogno per eguagliare il consumo attuale. Fra l'altro perché è impossibile, perché l'energia rinnovabile non ha un tale potenziale e questo senza parlare della mancanza di materiali per le installazioni e della loro scarsità associata all'aumento del prezzo del petrolio (perché serve petrolio, ed in quantità ingenti, per estrarre, raffinare e processare tutti i materiali). La gente ha paura della disoccupazione? “Non vi preoccupate e consumate, consumate, maledetti, che dobbiamo far crescere il PIL fino al magico 2,6% che farà in modo che la disoccupazione torni a scendere”, anche se questo non è possibile, visto che il nostro consumo di petrolio scende ad un ritmo medio del 3% ogni anno.

Essere tecno-ottimisti, credere che la tecnologia risolverà tutto, è un modo socialmente accettabile di essere suicidi. Io, se permettete, scelgo la vita. Sono uno scienziato, ma non un idiota e non voglio credere ai benefici della tecnologia come se fosse un atto di fede; proprio perché sono uno scienziato so che ci sono dei limiti nella natura (le leggi della termodinamica, per esempio) e che non possiamo fare miracoli, anche se possiamo e dobbiamo migliorare le condizioni di vita degli umani. Ma cerchiamo di essere razionali. 

Saluti,

AMT

mercoledì, novembre 02, 2011

Sulla “vexata quaestio” del limite di penetrazione in rete delle rinnovabili intermittenti

Dopo il mio recente articolo che commentava il dibattito in corso in Italia sulle tecnologie di accumulo delle fonti rinnovabili, necessarie per superare il limite di intermittenza, pubblichiamo ora questo contributo di Domenico Coiante sull'entità di questo limite.






Scritto da Domenico Coiante

Mentre cercavo sul web informazioni circa il diagramma di durata oraria del carico elettrico sulla rete nazionale, mi sono fortunosamente imbattuto nel rapporto del Politecnico di Milano del 2009 dal titolo:

POLITECNICO DI MILANO
Dipartimento di Energia
in collaborazione con
CESI RICERCA

Relazione del progetto commissionato da Autorità per l’energia elettrica e il gas
Impatto della generazione diffusa sulle reti di distribuzione, disponibile qui

Il titolo del rapporto e la presenza del CESI mi hanno subito incuriosito. Mi sono chiesto se per caso non fosse questo il risultato dello studio di cui avevo sentito parlare già da tempo e di cui non ero mai riuscito a conoscere i dettagli. Mi sono detto: - Andiamo a vedere di che si tratta.
Nella sintesi iniziale, il documento recita: “…..questo studio ha lo scopo di valutare, in modo quantitativo, il massimo livello di penetrazione della Generazione Diffusa (inteso come massima potenza installabile) compatibile con le attuali reti di distribuzione MT.

L’analisi sulla quantità massima GD installabile sulla rete viene svolta su una porzione significativa dell’attuale della rete di distribuzione MT italiana. Il campione, disponibile all’Autorità ai fini di un’indagine sulla potenza di cortocircuito, consiste in 318 reti e 59.864 nodi e rappresenta circa l’8% della complessiva consistenza delle reti MT su scala nazionale. L’ampiezza e la distribuzione del campione portano a ritenere di poter estendere gli esiti dello studio all’intera rete di distribuzione MT.”

Benissimo! Sembra, pertanto, che io sia andato a incrociare per caso proprio lo studio di cui avevo sentito parlare da alcuni ricercatori del CESI. Il lavoro è datato 2009 ed è redatto su richiesta dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas e, di conseguenza, ha tutto il tono dell’ufficialità.
Vista la dichiarazione iniziale, ho scorso febbrilmente la sintesi, pensando di trovare finalmente la risposta quantitativa alla domanda che noi, poveri mortali dal linguaggio volgare, continuiamo a farci e a discuterci sopra: “Quant’è la potenza massima delle fonti rinnovabili intermittenti che la rete elettrica nazionale può accettare in connessione diretta senza subire effetti di destabilizzazione?”

Mi aspettavo di trovare un numero, in MW, o magari una percentuale riferita al livello di potenza attiva in rete, che concludesse la questione e invece……
Come sopra riportato, lo studio ha preso in esame soltanto un campione della rete a Media Tensione di consistenza pari all’8% del totale. A prima vista sembra un po’ troppo piccolo, ma il testo ci assicura che esso è statisticamente sufficiente per l’estensione a tutta la griglia. Il documento di sintesi si conclude con la seguente risposta della quale mi limito a riportare soltanto i primi due punti, quelli che mostrano un certo aspetto di quantificazione:

• Per quanto riguarda i vincoli sulle correnti di cortocircuito, essi non costituiscono, in primis, il limite più stringente per l’installazione di GD in rete, quanto meno nei casi in cui la taglia del trasformatore non supera i 40 MVA. Nel caso più sfavorevole, costituito dalle reti con tensione nominale di 15 kV, la potenza massima di GD installabile sulla rete è di circa 7.5 MVA per generatori connessi alla rete tramite inverter e circa 5 MVA per generatori rotanti collegati alla rete senza l’interposizione di convertitori statici.
• Per quanto riguarda il vincolo sulle variazioni rapide di tensione, la potenza massima installabile dipende fortemente dal valore della variazione ammissibile. Assumendo un valore pari al 6% della tensione nominale, il vincolo che ne deriva risulta comunque il più stringente tra quelli considerati nello studio, ed ha influenza in particolare sui nodi più distanti dalla sbarra MT.

Provo ad immaginare l’espressione d’illuminazione e di soddisfazione intellettuale dei membri dell’AEEG quando hanno letto queste frasi ed ancora più soddisfatti saranno stati dopo la lettura delle conclusioni:
In conclusione si può affermare che le reti di distribuzione analizzate hanno dimostrato una più che discreta capacità di accoglimento della GD. Livelli ancora maggiori di penetrazione della GD nelle reti di distribuzione potranno necessitare di interventi sui dispositivi di protezione e automazione di rete, nonché di una più efficiente gestione delle protezioni di interfaccia.

“Finalmente abbiamo capito tutto!” Si saranno detti.
Beati loro, perché, invece, io ho capito ben poco. E voi?

PS
Ho già dato una prima lettura al testo completo, che mi è apparso molto ostico, con la speranza di riuscire da solo a ricavare dai dati la risposta chiara cercata. Non ci sono ancora riuscito (si sa l’età rallenta i riflessi), ma non ho perso la speranza. Ho cominciato una seconda lettura, che forse porterà a qualche risultato interpretativo.
Ho indicato il link sotto al titolo, con la segreta speranza che qualcuno di voi un po’ più sveglio di me possa trarre dallo studio gli elementi per dare la risposta che cerchiamo.

mercoledì, giugno 29, 2011

Effetto del fotovoltaico sulla bolletta elettrica

Il fotovoltaico ha fatto negli ultimi tempi notevoli passi in avanti nella competitività economica rispetto ad altre fonti energetiche, ma occorre anche valutare il costo a carico del sistema elettrico nazionale legato alla necessità di impegnare alcune centrali elettriche convenzionali al minimo della potenza per rispondere velocemente a brusche variazioni di potenza rinnovabile. In questo puntuale articolo, disponibile anche sul sito di Aspoitalia, Domenico Coiante mette nel conto del kWh fotovoltaico anche questo fattore.

Scritto da Domenico Coiante


Introduzione


Tempo addietro è comparsa sulla stampa la notizia che nei prossimi 20 anni il fotovoltaico e le altre fonti rinnovabili e assimilate con le loro incentivazioni costeranno complessivamente agli utenti sulla bolletta elettrica circa 120 miliardi di euro, cioè circa 6 miliardi all’anno. Naturalmente, la notizia ha suscitato allarme e indignazione nell’opinione pubblica con pesanti pressioni presso il governo perché provvedesse a ridurre i sussidi in particolare al fotovoltaico, indicato erroneamente come il principale responsabile delle enormi spese. Questo clima d’allarme ha prodotto come risultato il decreto ministeriale del 4° Conto Energia con tariffe incentivanti più basse del 20-25% rispetto alle precedenti e smorzate progressivamente nel tempo per i nuovi impianti.


Proviamo a verificare le cifre di questo allarme. Nel 2010 la potenza fotovoltaica, complessivamente istallata, era di 3470 MWp (leggere qui). Fissiamo l’attenzione su questi impianti e seguiamone la produzione energetica nel tempo. La produttività media degli impianti in Italia è di circa 1200 kWh/kW, per cui saranno prodotti annualmente circa 4,2 TWh fotovoltaici, a cui sarà attribuito un incentivo totale (tariffa media tra le varie tipologie d’impianto = 300 €/MWh, CE vigente nel 2010) di circa 1,26 miliardi di €/anno per i prossimi venti anni. Anche se la potenza prevista dal piano governativo aumenterà di ulteriori 3000 MWp nei prossimi anni, siamo ben lontani dalla cifra che è stata sbandierata. In ogni caso, nei vari commenti che hanno accompagnato la campagna di stampa è passata per vera l’affermazione che le incentivazioni fanno salire la bolletta elettrica degli utenti in misura pari alla loro entità. Ed è soprattutto questo concetto che ha provocato la reazione indignata dell’opinione pubblica. Si è trattato di un tipico equivoco dovuto alla cattiva informazione, poiché, come già un altro lavoro ha cercato di chiarire (leggere qui), il peso delle incentivazioni si traduce in bolletta mediante un meccanismo indiretto, che ne attenua l’effetto, potendo arrivare in qualche caso addirittura ad abbassarne il costo.
In questo lavoro proveremo a verificare i risultati precedenti, utilizzando un modello di riferimento più completo, in modo da approssimare meglio l’impatto sulla bolletta delle incentivazioni erogate ai produttori fotovoltaici.

Prezzo del kWh in rete
Il grafico di Fig.1 rappresenta l’andamento tipico del prezzo di acquisto del kWh da parte della rete elettrica nazionale in un giorno feriale, nella fattispecie martedì 3 maggio 2011.

Quel giorno, il prezzo è variato da un minimo di 47 €/MWh nelle ore notturne fino ad un massimo di circa 99 €/MWh nelle ore di punta della mattina. Il prezzo medio è stato di 72 €/MWh (linea nera orizzontale). Per questioni esemplificative, che appariranno chiare in seguito, supponiamo che, in quel particolare giorno, il contributo da parte dei sistemi fotovoltaici sia stato praticamente trascurabile.
La successiva Fig.2 mostra il grafico corrispondente dei volumi di MWh scambiati sul mercato elettrico nello stesso giorno.

Si vede chiaramente come il prezzo possa variare seguendo il volume delle vendite, che, a sua volta, è determinato dal tracciato orario della richiesta di elettricità degli utenti. Questa è stata massima, intorno ai 43000 MWh, nelle ore di punta e minima, intorno ai 26000 MWh, nelle ore notturne. In ogni caso, la richiesta oraria d’elettricità non è scesa mai sotto i 26000 MWh.
Si possono identificare tre fasce di richiesta, che si sovrappongono nel corso della giornata. La prima è quella sempre presente di circa 26000 MWh, che costituisce il cosiddetto carico di base. A questa si va a sommare gradualmente, a partire dalle prime ore della mattina, una fascia intermedia, detta del carico medio, a cui si sovrappongono i picchi di richiesta della mattina e del pomeriggio, detti carichi di punta.
Responsabile di far combaciare nel tempo la fornitura d’elettricità con le esigenze degli utenti è il Gestore dei Sistemi Elettrici (GSE), a cui è affidato il sistema d’immissione nella rete elettrica nazionale e di regolazione dei flussi d’energia provenienti dai vari generatori in connessione. Nell’odierna situazione di liberalizzazione, gli impianti di produzione elettrica sono di proprietà privata, mentre la rete di distribuzione ed i sistemi di smistamento (dispacciamento), misurazione e controllo del flusso energetico sono rimasti pubblici. Dal GSE, sotto la supervisione dell’Autorità per l’Energia Elettrica e per il Gas, dipende anche la fatturazione dei costi sostenuti dall’intero sistema elettrico nei confronti dell’utente finale, cioè la determinazione delle varie voci di spesa presenti nella bolletta degli utenti.


Per capire, grossolanamente, come avviene l’intero processo, conviene far riferimento allo schema sommario, riprodotto in Fig.3. Esso è basato, per semplicità, su un’analogia idraulica dei flussi energetici. La rete di distribuzione è schematizzata in un solo blocco, a cui affluiscono i contributi dei diversi tipi di generatori e da cui si diparte l’elettricità diretta alle varie utenze, anch’esse rappresentate da un solo blocco.




Partiamo dagli utenti. I dati della richiesta di energia pervengono istante per istante al sistema di controllo e dispacciamento, che provvede a regolare i “rubinetti” d’immissione nella rete elettrica dei flussi d’energia provenienti dai generatori convenzionali, attingendo da quelli dedicati rispettivamente alle diverse fasce di richiesta del carico. Per lo scopo di questo lavoro, come si capirà meglio nel seguito, l’idroelettrico, il geotermoelettrico e le biomasse sono considerati all’interno dei blocchi rappresentativi dei generatori convenzionali delle due fasce più alte, in quanto si tratta di sorgenti di energia programmabili, non casualmente intermittenti.
I flussi provenienti dai generatori fotovoltaici e dalle altre nuove fonti rinnovabili intermittenti sono immessi direttamente in rete senza subire alcuna modulazione perché godono per legge della priorità di dispacciamento.
Il sistema di controllo fa in modo che l’energia totale immessa in rete corrisponda istante per istante a quella richiesta dagli utenti nell’arco della giornata ed è per questo che, oltre a regolare i “rubinetti”, esso programma fin dal giorno prima l’istante d’accensione dei vari generatori e la durata del loro intervento. Risulta, perciò, definita fin dal giorno prima la quantità di kWh che ciascun generatore dovrà fornire ed è stabilito, mediante gara al ribasso1 il prezzo della fornitura. Questo tipo di trattative si svolge il giorno prima della fornitura ed è detto perciò “mercato del giorno prima”. Vengono abilitati a fornire energia quei generatori che offrono il prezzo più basso1.
Un altro aspetto importante, di cui si deve tenere conto, è che gli utenti non solo richiedono la quantità di energia di cui abbisognano, ma chiedono anche che tale energia sia fornita a tensione e frequenza costanti. Detto in altri termini, essi richiedono anche la garanzia del mantenimento, da parte della rete, del livello di potenza.
_______________________________________________________________________________________
1Nota
In realtà, nel Mercato Elettrico italiano viene usato il sistema di aggiudicazione detto del “prezzo marginale”, le cui modalità sono abbastanza complicate da spiegare e che non premiano il prezzo più basso in assoluto. Tuttavia, i termini imprecisi qui usati rendono concettualmente più immediata la comprensione del meccanismo d’azione dell’offerta di energia rinnovabile sulla formazione del prezzo. Per chi ne volesse sapere di più sul funzionamento del mercato elettrico consigliamo la lettura edificante del cap.2 del testo di S. Zabot e C. Monguzzi intitolato “Illusione Nucleare”, Ed. Melampo 2011

La bolletta elettrica


Entriamo ora nei particolari fissando la nostra attenzione sulle ora di punta mattutina. Dal grafico di Fig.2 si può vedere, ad esempio, che alle 11 di mattina la richiesta d’energia è: E11 = 43000 MWh. Il GSE dovrà pertanto provvedere ad acquistare questa quantità di energia dai produttori con i quali ha stabilito contratti di fornitura già dal giorno prima. Dovrà anche assicurare agli utenti un livello di potenza adeguato, che durante l’ora di fornitura sarà pari ad almeno P11 = 43000 MW, misurati in totale sulle apparecchiature di utenza. Naturalmente la potenza complessiva dei generatori a “bocca di centrale” sarà un po’ più grande di questo valore dovendo tenere conto degli autoconsumi degli impianti e delle perdite di trasmissione fino agli utenti.
Per comodità esplicativa, supponiamo che si verifichi il caso limite peggiore: in quel momento il cielo è nuvoloso su tutta l’Italia e non tira vento. Segue che tutta l’energia richiesta dovrà essere fatta affluire attingendola dai generatori delle tre fasce, perché dalle fonti rinnovabili intermittenti non giunge alcun kWh (o molto pochi).
La spesa per l’acquisto dell’energia sostenuta dalla rete durante quell’ora sarà pertanto:

S11 = V11*E11

Dove V11 è il prezzo unitario, mediato rispetto ai contributi delle tre fasce, pagato dalla rete ai produttori così come è stato fissato dall’asta del giorno prima e come risulta dal grafico di Fig.1.
A questa spesa occorre aggiungere la quota oraria dei costi di gestione dell’intero sistema della rete, che indicheremo come G11, cosicché avremo per la spesa totale oraria ST11:

ST11 = S11 + G11 = V11*E11 + G11

Il recupero di questa spesa avviene mediante l’emissione della bolletta elettrica a carico di tutti gli utenti, a cui pertanto il kWh consumato nell’ora considerata viene a costare (tasse ed altri balzelli esclusi):

CkWh(h 11) = ST11/E11 = V11 + G11/ E11

Quindi, ora per ora, il costo del kWh in bolletta agli utenti è determinato dal prezzo pagato dalla rete ai produttori più la quota aggiuntiva di rimborso delle spese di gestione del sistema elettrico. Poiché il prezzo orario, V, varia a seconda dell’andamento della domanda e dell’offerta sul mercato elettrico, il costo del kWh per l’utente varia di conseguenza. Il costo giornaliero medio si ottiene dalla somma dei costi orari mediata sulle 24 ore.

Effetto dell’energia intermittente sul prezzo


Siamo ora in grado di osservare che cosa avviene per l’immissione dell’elettricità intermittente nella rete elettrica.
Cominciamo dal mercato del giorno prima. Pur essendo aleatoria la quantità esatta di energia che potrà arrivare dalle fonti rinnovabili, potremo tuttavia predire con una certa probabilità di successo l’immissione in rete di un quantitativo d’elettricità oraria sulla base delle previsioni meteorologiche.
Quindi, essendo prioritaria l’accettazione in rete di questo quantitativo, la domanda d’energia rivolta ai generatori convenzionali sarà più bassa che nel caso precedente. Di conseguenza, il prezzo d’acquisto che emergerà dalla contrattazione sarà generalmente minore.
Per comodità d’esposizione, fissiamo l’attenzione sulle ore 11 del picco mattutino e supponiamo il caso migliore: giornata limpida e assolata, ma non ventosa. In tali condizioni, la maggior parte della potenza fotovoltaica sarà a pieno regime e quindi ci sarà un rilevante afflusso d’elettricità da parte di questa fonte con energia e potenza, che indicheremo rispettivamente con Everde e Pverde.
La richiesta del carico è rimasta quella del caso precedente: energia totale = E11, potenza complessiva = P11. Ora però tale richiesta viene soddisfatta da due contributi:

E11 = Everde + Erossa
P11 = Pverde + Prossa

Dove Erossa e Prossa sono rispettivamente le quantità di energia e di potenza provenienti dai generatori convenzionali.
Ricordiamo che ci troviamo in pieno periodo di punta. Quindi, come sopra accennato, la presenza della quantità Everde ha causato una significativa riduzione della richiesta di elettricità “rossa”. Il volume dell’offerta da parte dei generatori convenzionali è restato pressappoco invariato, per cui il calo della domanda si traduce in un abbassamento del prezzo precedentemente pagato dal GSE, che in queste ore raggiungeva il massimo di 99 €/MWh.
Supponiamo che il nuovo prezzo pagato per l’energia sia divenuto ora V11’, con (V11’ < V11).


La spesa per l’acquisto dell’energia da parte della rete diviene:


S11’ = V11’*Erossa + (V11’+ Vinc)*Everde


Dove Vinc è il costo unitario dell’incentivo governativo erogato ai produttori.


La spesa totale sostenuta dal GSE, ( ST’), sarà:


ST11’ = V11’*(Erossa+ Everde) + (Vinc)*Everde + G11’


Dove, come vedremo, anche il costo di gestione della rete assume un valore, G11’, diverso dal caso precedente a causa della presenza delle fonti rinnovabili intermittenti.


Il nuovo costo del kWh in bolletta varrà:


CkWh’ = (ST11’/E11) = V11’ + (Vinc)*(Everde/E11) + (G11’/ E11)


A questo punto sorge la domanda: “Questo nuovo costo sulla bolletta degli utenti è maggiore o minore del caso precedente?” In altri termini: “Quanto costa realmente agli utenti la presenza delle fonti rinnovabili intermittenti in rete?”


Confrontiamo la spesa sostenuta dalla rete in assenza di contributo verde con quella in presenza del contributo verde valutando le condizioni perché le due grandezze siano uguali.


V11’*E11 + (Vinc)*Everde + G11’ = V11*E11 + G11


Cominciamo con introdurre un’ipotesi grossolana esemplificativa. Supponiamo in prima approssimazione che i costi di gestione della rete siano uguali nei due casi. Cioè:


G11 = G11’


Allora potremo scrivere:


(V11- V11’)*E11 = (Vinc)*Everde


Il primo termine dell’uguaglianza rappresenta il risparmio di spesa dovuto all’effetto di abbassamento del prezzo per la presenza del fotovoltaico, il secondo termine è invece la spesa totale sostenuta per le incentivazioni. Pertanto, i due termini si equivalgono solo se il differenziale di prezzo raggiunge il valore:


§V = (V11- V11’) = (Vinc)*(Everde/E11)


In questo caso, il recupero di valore sull’acquisto dei kWh permette di compensare la spesa sostenuta per le incentivazioni e questa voce di costo non grava per nulla sulla bolletta degli utenti. Naturalmente, se il valore recuperato fosse minore, rimarrebbe una parte di spesa per le incentivazioni da recuperare in bolletta, ma si tratterebbe comunque solo di una parte perché è innegabile che la presenza dei kWh fotovoltaici produce l’effetto di abbassamento del prezzo di mercato. Con tutta la cautela dovuta alla schematizzazione del caso, proviamo a mettere alcuni dati nelle formule. Secondo i dati del GSE, la potenza fotovoltaica, istallata nel 2010 era rispettivamente di 3470 MWp. Alle 11 di mattina del nostro giorno assolato del 2011, possiamo supporre che tutta questa potenza stia lavorando al massimo e che, quindi, nell’ora indicata sia immessa in rete una quantità di energia fotovoltaica Everde = 3470 MWh.


Dato che la richiesta oraria totale è di 43000 MWh, il rapporto (Everde/E11) = 0,087. Inoltre, dal grafico di Fig.1 sappiamo che V11 = 99 €/MWh, mentre per l’incentivo assumiamo un valore medio del CE di circa 300 €/MWh. Avremo:


§V = (Vinc)*(Everde/E11) = 300*0,087 = 26,1 €/MWh Cioè:


V11’ = (V11 - 26,1) = 72,9 €/MWh


Come si può vedere, questo valore è più alto del prezzo della fascia del carico di base (47 €/MWh) ed è all’incirca vicino al prezzo della fascia del carico medio. Se il nuovo prezzo spuntato dal GSE nell’asta del giorno prima fosse pari a questo valore, ne seguirebbe che la bolletta degli utenti non si accorgerebbe della presenza delle incentivazioni. In pratica, il ribasso causato dalla presenza del fotovoltaico pareggerebbe il costo delle incentivazioni. Se poi il GSE riuscisse a spuntare un prezzo di acquisto più basso, allora il nuovo costo in bolletta per gli utenti sarebbe più vantaggioso. Solo nel caso in cui il prezzo d’acquisto fosse più alto di 72,1 €/MWh, allora la bolletta degli utenti aumenterebbe a causa della presenza delle incentivazioni, ma in misura minore del valore dei sussidi, a meno di non voler negare completamente l’effetto calmierante dell’immissione in rete dell’energia fotovoltaica.


Incremento del costo di gestione della rete


Il conto che abbiamo svolto attiene ad una sezione oraria dell’andamento giornaliero del diagramma di carico. Esso ha riguardato soltanto ciò che può accadere in una particolare ora della mattina e l’estensione all’intera giornata non è affatto semplice ed ancora più complicato è ripetere il calcolo nel corso dell’intero anno. Tuttavia, l’aspetto parziale esaminato ci ha consentito di acquisire il concetto fondamentale che il ruolo economico delle incentivazioni è più complesso del puro aspetto aritmetico finora dato per scontato. Una trattazione più completa di questo argomento può essere letta nel lavoro già citato di F. Meneguzzo. Sempre nei limiti della nostra schematizzazione, esaminiamo ora un aspetto che può contribuire a chiarire meglio la situazione, completando l’analisi precedente. Vediamo come il risultato può cambiare in relazione al ruolo che possono giocare i costi di gestione della rete nel caso della presenza delle fonti intermittenti. In altri termini, nel caso reale, l’ipotesi assunta sopra (G11 = G11’) non è vera. Purtroppo, in pratica, si verifica che:


G11’ > G11


Cioè, la presenza delle fonti intermittenti aumenta le spese di gestione della rete.
La spiegazione rigorosa di questo effetto, da sola, richiederebbe una trattazione lunghissima. Per il nostro scopo, ci basta sviluppare alcune considerazioni qualitative. Nel funzionamento normale della rete, quando non sono presenti fonti intermittenti, il gestore è particolarmente attento al caso delle fluttuazioni impreviste dei carichi, a cui egli deve comunque far fronte modulando opportunamente la potenza dei generatori veloci al fine di assicurare agli utenti il livello costante di potenza. Per tale motivo, alcuni generatori sono fatti lavorare al di sotto della loro massima potenza, tenendoli ad una quota percentuale più bassa rispetto al massimo. Ciò implica che la richiesta normale del carico è soddisfatta lasciando un margine di potenza pronta, ma non sfruttata, detta margine di riserva, in modo che, all’occorrenza, sia possibile fronteggiare eventuali richieste improvvise del carico facendo ricorso a tale margine. In condizioni normali, la riserva di potenza non produce kWh, ma contribuisce ugualmente ai costi fissi di produzione che il GSE deve riconoscere ai produttori elettrici. Per tale motivo, il margine di potenza è tenuto sempre al minimo possibile, in pratica esso può arrivare intorno al 3-5%.
Questo costo è considerato all’interno del costo generale di gestione della rete e quindi, nel nostro caso orario, esso si trova all’interno del parametro G11.


La presenza delle fonti intermittenti è vista dal sistema di controllo della rete alla stessa stregua delle fluttuazioni impreviste del carico, con la sola differenza della maggiore ampiezza. Pertanto, per fronteggiare l’eventuale mancanza improvvisa della potenza intermittente, occorre aumentare adeguatamente il margine della potenza di riserva. In conclusione, la connessione in rete dei generatori intermittenti fa aumentare le spese di gestione del sistema elettrico a causa della necessità di tenere un certa quantità di potenza convenzionale attiva, ma non produttiva. La quantificazione di questo concetto è materia di accese discussioni tra i sostenitori ed i detrattori delle fonti intermittenti. La versione più svantaggiosa arriva a considerare la necessità di tenere di riserva una quantità di potenza convenzionale pari a quella delle fonti intermittenti. Senza arrivare a questo caso estremo che farebbe lievitare enormemente i costi, in ogni caso, dobbiamo ammettere che la sicurezza della rete richiede la presenza di un certo numero di generatori convenzionali veloci, tenuti in funzione e pronti a compensare eventuali mancanze improvvise della potenza immessa dalle fonti rinnovabili. La spesa dovuta ai costi fissi di tali generatori fa aumentare il costo di gestione della rete e l’incremento deve essere considerato a carico delle fonti intermittenti. Ciò ha come conseguenza che possiamo ritenere valida la disuguaglianza G11’ > G11, cosa che porta alla nuova condizione generale:

(V11 - V11’)*E11 = (Vinc)*Everde + (G11’- G11)

Il risparmio ottenuto attraverso l’abbassamento del prezzo di acquisto (primo termine) deve ora compensare, oltre alla spesa per le incentivazioni (secondo termine), anche il differenziale di spesa di gestione della rete dovuto alla presenza delle fonti intermittenti (terzo termine).
Pertanto, solo nel caso che sia valida l’uguaglianza precedente, la bolletta degli utenti non subisce una maggiorazione di spesa per la presenza delle rinnovabili e delle relative incentivazioni. Di sicuro, se questo evento aveva una certa probabilità di verificarsi nel caso particolare della parità tra i due costi di gestione della rete, ciò diviene molto improbabile nel caso più generale di maggiorazione di questo costo per la presenza delle fonti intermittenti.
La quantificazione di questa aggiunta di costo impone la conoscenza esatta oraria e giornaliera della configurazione completa della rete con il tipo ed il numero dei generatori tenuti di riserva e la programmazione del loro impiego. Purtroppo, queste informazioni non sono facilmente accessibili ai non addetti ai lavori, come noi siamo, e il loro reperimento ci porterebbe lontano dal concludere.
La conclusione di questo lavoro, sicuramente non esaustivo, suggerisce l’opportunità di analizzare più accuratamente tutti gli elementi che concorrono al bilancio costi-benefici prima di emettere un giudizio definitivo sull’interazione tra le fonti rinnovabili intermittenti e la bolletta degli utenti.

domenica, marzo 27, 2011

Proposta di mozione per rilanciare le fonti energetiche rinnovabili





Pubblichiamo la proposta di mozione inviata da Aspoitalia ai Comuni italiani per sostenere la mobilitazione a favore della modifica del recente decreto governativo sulle fonti rinnovabili, che ha sostanzialmente bloccato gli investimenti e provocato una grave cirisi economica ed occupazionale in un settore in piena espansione.

MOZIONE

“RIPRENDIAMOCI IL SOLE”

IL CONSIGLIO ___________________ DI _____________________

PREMESSO CHE:

• Il Decreto Legislativo approvato il 3 marzo 2011 (schema di decreto legislativo recante attuazione della Direttiva 2009/28/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE), a firma del Ministro Romani e di fatto redatto dai settori più arretrati dell’industria energetica monopolistica nazionale del petrolio, del gas, del carbone e, più recentemente, del nucleare, persegue di fatto l’unico obiettivo di azzerare ex lege il settore nazionale delle energie rinnovabili e in particolare della fonte fotovoltaica;

• Il settore industriale, economico e finanziario connesso alle energie rinnovabili, prima tra tutte il fotovoltaico è ormai cresciuto, anche nella consapevolezza, come hanno dimostrato all’incontro pubblico del 10 marzo u.s. le migliaia di persone, tra imprenditori, lavoratori, rappresentanti di istituti di credito e fondi d'investimento, associazioni di categoria e ambientaliste e semplici cittadini che hanno affollato il Teatro Quirino di Roma e le strade circostanti, nonché le decine di migliaia di persone che hanno seguito in diretta per via telematica l'intero evento, trasmettendo video, messaggi, segnalazioni di ogni tipo;

• Le conseguenze immediate del decreto sono spaventose: esso mette infatti letteralmente subito sulla strada decine di migliaia di lavoratori di età media straordinariamente bassa e in gran parte localizzati al sud e al centro Italia, fa chiudere migliaia di aziende, espone le banche e gli investitori italiani ed esteri per decine di miliardi di euro, provoca un danno economico immediato e diretto quantificabile al minimo nel 1% del PIL e un danno diretto all'erario, quindi alle casse dello Stato, per quasi 20 miliardi di euro, oltre ai costi della cassa integrazione e dei sussidi di disoccupazione, impedisce ai Comuni di ricevere centinaia di milioni di euro all'anno in "compensazioni ambientali", tanto attese nella corrente penuria di trasferimenti statali, preclude al nostro Paese anche solo di avvicinare i pur modesti obiettivi europei previsti al 2020;

• Lo stesso decreto legislativo espone il sistema Italia a essere considerato dall'estero come un sistema inaffidabile e privo anche della minima certezza del diritto necessaria per intraprendere iniziative imprenditoriali e industriali di qualche rilievo, come è stato sottolineato per esempio dall’Associazione delle Banche Estere. CONSIDERATO CHE:

• Se sono grandi lo sconforto e la delusione, non meno salda è la volontà del settore fotovoltaico di controbattere e rilanciare immediatamente, forte di un consenso straordinario e crescente nel Paese;

• L’energia fotovoltaica non pesa sulle bollette elettriche degli utenti italiani le cifre iperboliche addotte dal Ministro Romani e dai settori più retrogradi di Confindustria, ma soltanto un modestissimo 1,5%, molto meno di quanto ancora oggi pesano le illegittime incentivazioni all’energia derivata dagli scarti di raffineria e dai rifiuti non biodegradabili (Delibera CIP n. 6/1992);

• Entro il mese di giugno del corrente anno, le installazioni fotovoltaiche italiane erogheranno tanta energia quanto una centrale nucleare; anche soltanto alla metà del trend delle installazioni tenuto finora, l’energia erogata per mezzo del sole, in Italia nell’anno 2020, sarebbe stata pari o probabilmente superiore a quella che le quattro ipotetiche centrali nucleari previste dal Governo potranno fornire non prima di quell’anno, se non oltre;

• E’ quindi un fatto che l’energia solare in meno di quattro anni ha dimostrato di poter rimpiazzare e spiazzare l’energia nucleare, che a questo punto non trova più alcuna giustificazione se non quella di distribuire in pochissime tasche i soldi prelevati dalle incentivazioni al fotovoltaico, oltre ad aver dimostrato di iniziare a rendere meno dipendente l’approvvigionamento elettrico nazionale dalle stesse centrali termoelettriche convenzionali;

• Anche in seguito ai drammatici eventi in Giappone, è evidente che, quale misura minima di salvaguardia delle popolazioni rispetto alle installazioni elettronucleari, nessuno potrà risiedere entro 20 km da alcuna centrale, ed entro la medesima distanza dovrà essere abbandonata qualsiasi attività agricola e zootecnica, questo comportando un aumento vertiginoso dei costi, a questo punto stimabili – inclusa la costosissima dismissione delle centrali – in quasi 100 miliardi di Euro per quattro centrali, somma stratosferica, molto superiore a quella necessaria a sostenere il fotovoltaico e, come si verifica in tutto il mondo, a carico della collettività nazionale in forma di sovvenzioni, incentivazioni e garanzie assicurative e fideiussiorie;

• L’instabilità politica, le rivolte e infine le guerre in numerosi Paesi produttori di petrolio e di gas naturale si sommano al declino strutturale delle medesime risorse, in un combinato di eventi che rende gravemente incerto e sicuramente sempre più costoso l’approvvigionamento delle materie prime energetiche convenzionali ai Paesi, come il nostro, che ne sono sostanzialmente sprovvisti;

• Un programma di incentivazioni al fotovoltaico, decrescenti nel tempo, come quello approvato nell’agosto 2010 ed entrato in vigore appena all’inizio del 2011, dallo stesso Governo che ora tenta di cancellare le energie rinnovabili, avrebbe consentito, grazie allo straordinario miglioramento dell’efficienza e alla rapidissima diminuzione dei prezzi, di disporre tra pochi anni di energia solare, così come di energia eolica, allo stesso costo di quella convenzionale, garantendo all’Italia un futuro di energia tutta rinnovabile e a costi contenuti e stabili nel tempo.

PRESO ATTO CHE:

• Sono state avviate presso i Ministeri dello Sviluppo Economico, dell’Ambiente e delle Politiche Agricole sessioni di incontri con le organizzazioni di categoria, le banche e le associazioni, auspicabilmente finalizzate alla definizione di misure atte ad attenuare le conseguenze disastrose del decreto legislativo, nonché a delineare un quadro certo e affidabile di incentivazioni e semplificazioni normative a vantaggio dello sviluppo sostenibile delle fonti rinnovabili.

CHIEDE ALLA GIUNTA ___________

DI IMPEGNARSI TEMPESTIVAMENTE E IN TUTTE LE SEDI PER:

• Chiedere ai Ministri dello Sviluppo Economico, dell’Ambiente e delle Politiche Agricole, nonché a tutti gli altri soggetti istituzionali interessati e al Parlamento stesso, di predisporre urgentemente un nuovo Decreto Legislativo che recepisca le istanze delle organizzazioni di categoria e delle associazioni con specifico riferimento al settore delle energie rinnovabili, delle banche, delle associazioni e delle parti sociali, così da assicurare la fattibilità e la stabilità finanziaria dei progetti autorizzati e in corso e di salvaguardare l’occupazione;

• Chiedere ai Ministri dello Sviluppo Economico, dell’Ambiente e delle Politiche Agricole, nonché a tutti gli altri soggetti istituzionali interessati e al Parlamento stesso di finalizzare i tavoli di confronto attivati con i rappresentanti del settore delle energie rinnovabili, delle banche, delle associazioni e delle parti sociali alla definizione di un quadro di incentivazioni stabile e di lungo termine, evitando qualsiasi misura retroattiva e inutilmente punitiva, nonché in grado di assicurare lo sviluppo armonioso e coerente di fonti, come il fotovoltaico e l’eolico, che hanno dimostrato la maggiore efficienza e capacità di diffusione ed espansione;

• Chiedere al Governo e al Parlamento di esprimersi chiaramente e definitivamente, anche per mezzo di una opportuna attività legislativa d’urgenza, in merito alla strategia energetica del nostro Paese nel senso dello sviluppo sostenuto di medio e lungo periodo delle fonti rinnovabili fino alla copertura, per mezzo di queste, della maggior parte del fabbisogno energetico nazionale, nonché nel senso dell’abbandono definitivo dell’opzione nucleare.

mercoledì, dicembre 15, 2010

Sole, gas o nucleare?




Riproduco qui di seguito alcuni punti di un articolo di Maurizio Ricci apparso su "Repubblica" del 12 Dicembre del 2010.

E' interessante perché mostra quanto sia difficile la pianificazione in campo energetico - meglio detto, l'assenza totale di pianificazione a lungo termine in questo campo.

Così come ce le descrive Ricci, stiamo facendo delle cose totalmente assurde, ovvero investire su un'infrastuttura sia nucleare sia di importazione di gas dalla Russia che - se sommate insieme - ci porterebbero, in teoria, a un aumento di disponibilità di energia elettrica semplicemente improponibile. Date le condizioni della nostra economia, molto probabilmente non abbiamo nessun bisogno dei 100 TWh in più che Ricci ipotizza per il 2030 - meno che mai dei 200 TWh in più che sembrerebbero disponibili come conseguenza degli investimenti pianificati.

Notate come chiosa Ricci che il tutto vale "ammesso che non ci sia anche un boom delle rinnovabili" (non sia mai che tale orrore avvenga!!!!)

Ma è pensabile che, come dice Ricci, da qui al 2030 ci siano in Italia otto centrali nucleari (ma non si era sempre detto quattro? Vabbè che tanto sono virtuali, potrebbero altrettanto bene essere 16). Se l'industria investe così pesantemente sui gasdotti, sembrerebbe proprio che non ci credano minimamente. E alle rinnovabili, evidentemente, non ci crede proprio nessuno al livello di quelli che pianificano queste cose.

Ma il bello è che tutti (incluso Ricci), evidentemente, credono che gas e uranio siano infiniti.

_________________________________________________________________
L'Italia tra gas russo e nucleare Rischiamo di avere troppa energia


da "Repubblica" del 12 Dicembre 2010


MAURIZIO RICCI


ROMA - Gas o nucleare? Le rivelazioni di WikiLeaks sulle inquietudini americane di fronte agli accordi Roma-Mosca per South Stream, il gasdotto che dovrebbe trasportare in Italia il gas russo, hanno rilanciato il dibattito sulle dipendenza energetica del nostro paese dall'estero e sui modi per contenerla. South Stream, si sostiene, è una leva cruciale per allentare, grazie al metano che mette a disposizione, la nostra dipendenza energetica. Se si fanno i conti, però, il risultato è paradossale: nell'ansia di assicurarsi risorse affidabili, l'Italia rischia di nuotare, presto, in un mare di energia superflua. A meno di non compiere, fin d'ora, quando gli investimenti vengono programmati, scelte delicate e difficili.

Attualmente l'Italia consuma, ogni anno, 320-330 terawattore di elettricità (ogni terawatt corrisponde ad un milione di megawattore). Il grosso di questa elettricità viene dalle centrali a gas: ogni anno importiamo 30-35 miliardi di metri cubi di metano da destinare a queste centrali. Entra in scena il piano nucleare del governo. Se tutte le centrali atomiche previste (almeno otto) venissero realizzate, poiché ognuna produce circa 12 terawattore l'anno, disporremmo di un centinaio di terawattore in più. Servono questi cento terawattore?

<..>

Supponiamo, per fare una media, che i 400 terawattore di consumi vengano raggiunti dopo il 2030, quando il piano nucleare dovrebbe essere, in larga misura, già realizzato. Avremmo 300 terawattore prodotti come oggi (ammesso che non ci sia anche un boom delle rinnovabili) e 100 con il nucleare. Tutto bene, apparentemente. Però, bisognerebbe spiegarlo a chi, in questo momento, sta investendo o pensa di investire in South Stream e nelle altre infrastrutture, progettate per portare più gas in Italia. E lo sta facendo in grande, moltiplicando gasdotti e rigassificatori. Se tutti i progetti in corso andassero in porto, l'Italia si troverebbe a disporre di una marea di metano.

<..>

L'Italia avrà bisogno di 100 terawattore di elettricità e se ne vedrebbe offerti 200: 100 dal nucleare e almeno altrettanti dal metano. Scegliere non sarà facile e le rinunce saranno dolorose. Ma, probabilmente, inevitabili, che si tratti di rigassificatori, di South Stream o di altri gasdotti, di centrali atomiche. Altrimenti, uno dei due contendenti, metano o atomo, al momento di offrire la propria produzione, si troverà fuori mercato e il flop potrebbe rivelarsi insostenibile per le aziende coinvolte.

Gli interessi in ballo, infatti, sono enormi. L'Enel, e chi altro si imbarcherà nell'avventura nucleare, deve decidere, ora, se investire circa 50 miliardi di euro per la realizzazione di centrali che entreranno in funzione fra 10-20 anni. Ma anche le infrastrutture del gas non costano poco: solo per South Stream, la spesa ufficialmente prevista da Eni e Gazprom supera i 15 miliardi di euro e, secondo gli esperti, oscilla, in realtà, trattandosi di un gasdotto, in larga parte, sottomarino, fra i 19 e i 24 miliardi di euro, quasi il triplo del concorrente Nabucco, che corre tutto via terra. Anche gli affari del gas sono grossi: per avere un'idea, il fatturato che, oggi, realizza l'Eni nel settore metano è di oltre 30 miliardi di euro l'anno.

giovedì, luglio 29, 2010

L'eolico e i certificati verdi


Uno degli argomenti usati da alcuni ambientalisti ad oltranza contro l’eolico è la presunta marginalità di questa fonte rispetto al fabbisogno energetico italiano. Si tratta di un argomento molto capzioso, perché la marginalità è un concetto alquanto relativo. Come ho scritto in questo mio articolo, una potenzialità eolica del 7%-8% del consumo interno lordo di energia elettrica è sicuramente marginale in valore assoluto, ma lo è molto meno nel quadro degli scenari energetici futuri del nostro paese, considerando che la piena utilizzazione di tale potenzialità permetterebbe di sostituire interamente il petrolio usato per la produzione di energia elettrica, senza costruire nuove centrali a carbone o nucleari. Se poi, come ho scritto in quest’altro articolo, si assumesse il dato di Terna pari a 15.000 MW di potenzialità eolica in Italia compatibile con i limiti di immissione in rete dovuti all’intermittenza della fonte e un dato medio di ore equivalente di produzione di 2000 ore, addirittura la produzione di energia eolica sviluppabile sarebbe di poco inferiore a quella prevista nel programma nucleare del governo per i 4 impianti nucleari da 1600 MW, ma con il vantaggio di tempi di esecuzione notevolmente più rapidi e certi.
Quindi la domanda a cui dovrebbero decidere di rispondere gli ambientalisti ad oltranza e tutti gli oppositori dell’eolico è: “Siete favorevoli al nucleare o al carbone, inconsapevolmente o in cattiva fede?
Un altro argomento capzioso usato dagli ambientalisti ad oltranza è quello di un presunto eccesso di incentivazione a favore dell’eolico. Questo argomento è diventato di recente anche un deciso cavallo di battaglia di alcune autorevoli personalità nazionali come il giornalista di Repubblica Mario Pirani e la radicale Emma Bonino, che hanno osannato il Ministro Tremonti per aver eliminato, con l’art. 45 della manovra economica, l’obbligo da parte del GSE di ritirare a un prezzo fisso i certificati verdi in eccesso rispetto alla domanda di mercato.
In particolare, in un recente articolo, il giornalista ha scritto che i certificati verdi “li acquistavano le industrie inquinanti, a cominciare da alcuni petrolieri, che in tal modo «ripagavano» le multe che altrimenti avrebbero dovuto sborsare per non aver ancora ottemperato all' obbligo di risanare le produzioni, figurando virtualmente come produttori di energia verde senza in realtà procedere alla svolta ecologica reale. Gli accordi internazionali obbligano infatti l'Italia a raggiungere la quota del 25% di produzione energetica da fonti rinnovabili, salvo pagamento di salate sanzioni. In definitiva i «palazzinari del vento» avevano convenienza a costruire torri eoliche anche dove non spira un alito di brezza e gli inquinatori trovavano una facile scappatoia per continuare ad avvelenare l' ambiente. Il tutto scaricato sulle bollette.”
Si tratta di una ricostruzione del meccanismo di incentivazione inesatta e demagogica.
In effetti, l’art. 11 del D.Lgs. 79/1999 ha introdotto l’obbligo, a carico dei produttori e degli importatori di energia elettrica prodotta da fonti non rinnovabili, di immettere nel sistema elettrico nazionale, a decorrere dal 2002, una quota minima di energia elettrica, gradualmente sempre più elevata, prodotta da impianti alimentati a fonti rinnovabili, e non si capisce perché Pirani si opponga a un giusto meccanismo orientato a far pagare ai produttori da fonti convenzionali lo sviluppo delle rinnovabili. Che poi questo obbligo venga assolto direttamente o acquistando certificati verdi dai produttori di energia eolica o altra rinnovabile, non mi pare che cambi sostanzialmente il perseguimento di un giusto obiettivo. Quanto alla affermazione sulla convenienza a costruire impianti eolici in assenza di vento, mi pare denoti una scarsa conoscenza del meccanismo incentivante. Il kWh eolico è attualmente remunerato da due componenti: il valore dei certificati verdi venduti e la valorizzazione dell’energia immessa in rete, entrambi dipendenti dall’energia effettivamente prodotta, per cui non si capisce come un imprenditore possa trovare conveniente investire in impianti che non producano energia.
Il fatto che le obiezioni siano in larga parte infondate, non deve però evitarci di individuare i punti deboli del sistema dei certificati verdi per cercare di correggerli, invece di smantellare l’intero meccanismo incentivante, come vorrebbero gli oppositori dell’eolico.
Attualmente il prezzo di base per la contrattazione nel mercato dei certificati verdi è dato da 180 €/ MWh meno il valore medio annuo del prezzo di cessione dell’energia elettrica nell’anno precedente, il risultato della differenza è circa 100 – 110 €/MWh. Ma siccome in poco tempo l’offerta ha superato abbondantemente la domanda di certificati verdi, questi prezzi sono diminuiti, costringendo il legislatore a introdurre il meccanismo di ritiro dei certificati invenduti da parte del GSE. Il problema si può in parte superare, senza l’eliminazione di questa ciambella di salvataggio che deprimerebbe sensibilmente gli investimenti del settore, aumentando la quota d’obbligo di rinnovabili dei produttori di energia.
Se al valore dei certificati verdi, si aggiunge poi il corrispettivo per la vendita dell’energia eolica prodotta, il kWh eolico ha oggi una remunerazione comunque oscillante tra i 15 – 20 cent.€, più del doppio del costo di produzione. Questo spiega la vivacità del settore, ma anche il fatto che si rendono in questo modo convenienti siti con ventosità relativamente basse e ciò impedisce in prospettiva di massimizzare il contributo dell’energia eolica alla produzione nazionale. Come ho già detto in altre occasioni, la soluzione a questo problema potrebbe essere la graduazione del valore dei certificati in funzione delle ore equivalenti di produzione, privilegiando i siti più ventosi.