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sabato, dicembre 11, 2010

Il problema dell'acqua

Scritto da Armando Boccone
Fig. 1



Fig. 2


Fig. 3


Fig. 4



Fig. 5


Fig. 6


Fig. 7


Fig. 8

Fig. 9

Fig. 10

Secondo molti studiosi il problema dell’approvvigionamento dell’acqua sarà uno dei problemi più importanti dell’umanità nel prossimo futuro, insieme alla riduzione di disponibilità dei combustibili fossili e al rischio del venire meno di molti equilibri ambientali. Il petrolio viene anche chiamato 'oro nero' ma l’acqua viene anche chiamata 'oro blu'. L’approvvigionamento dell’acqua inoltre è dipendente non solamente dalle condizioni ambientali-climatiche ma anche dalla disponibilità di combustibili fossili. Per rendere disponibile l’acqua è necessario che piova e nevichi ma poi è necessario captarla, trasportarla e distribuirla; ciò richiede la costruzione di dighe, acquedotti, serbatoi, impianti di sollevamento idrico e altre strutture ancora oltre che un continuo lavoro di manutenzione: ciò significa, infine, enorme consumo di energia.

Data l’indispensabilità dell’acqua per la vita umana si pensa che in futuro molti conflitti avverranno per questioni relative al suo approvvigionamento.
Disse Ali Samsam Bakhtiari al congresso di Aspoitalia tenutosi a Firenze nel marzo del 2007, che questo secolo sarà il secolo del ritorno radici, cioè della riscoperta delle conoscenze umane che ci hanno guidato nei secoli precedenti l’era petrolifera. Aggiunse anche che l'acqua sarà una risorsa critica, che farà sentire il suo peso nel già difficile momento di transizione che ci attende.

Questo lavoro espone il modo in cui si cercava di fare fronte al problema dell’approvvigionamento di acqua in un paese della Lucania fino agli anni trenta del secolo scorso, quando arriva l’acquedotto. Si farà inoltre qualche accenno alla situazione nel periodo successivo.
Penso sia importante questo lavoro perché alle tecniche di approvvigionamento che verranno esposte dovranno ricorrere quelle comunità residenti in zone marginali (come quelle collinari e di montagna) quando l’aumento del costo dei combustibili fossili farà diventare costosissimo e insostenibile il loro approvvigionamento di acqua così come è avvenuto finora.

Sommario
1) Le cisterne, le sorgenti e i pozzi del mio paese
a) Caratteristiche del territorio;
b) Caratteristiche del paese;
c) Le cisterne
d) Le fonti e i pozzi;
e) La fonte di “Cannile”
2) Arriva l’acquedotto!
3) Una breve conclusione

1) Le cisterne, le fonti e i pozzi del mio paese

L’approvvigionamento di acqua nel mio paese si basava sulle cisterne, sulle fonti e sui pozzi e il lavoro che ho svolto è consistito nell’andare sia alla loro ricerca fisica che alla ricerca di informazioni sulle stesse cisterne, fonti e pozzi.
Più in dettaglio il metodo che ho seguito nella realizzazione di questo lavoro è consistito in ricerche sul campo (sono andato effettivamente alla ricerca, per esempio, delle fonti), in interviste ai cittadini (soprattutto vecchi) e a persone che hanno fatto dei saggi sulla storia del paese, in ricerche bibliografiche e nell’uso della fotografia come strumento di indagine (provvedevo, per esempio, a fotografare ciò che trovavo di interessante in merito alla ricerca).

a) Caratteristiche del territorio

Il territorio in cui è situato il mio paese di nascita è la zona nord-orientale della Lucania che è la parte più arida del territorio regionale. La quantità di acqua che cade con le piogge ha valori medi inferiori a 750 millimetri annui, che è un valore basso. In certi punti del territorio (come quello in cui insiste il mio paese) i valori sono intorno a 500 millimetri annui. Alcune aree del territorio possono considerarsi aride, almeno per quanto riguarda le precipitazioni (l’agricoltura però è fiorente perché buona parte del territorio è irrigato con l’acqua proveniente dalle dighe disposte nella parte sud-occidentale della regione, dove le precipitazioni superano i 1000 mm all’anno). Inoltre le piogge non sono costanti negli anni ma anzi subiscono forti oscillazioni anno per anno, alle volte anche di un fattore 4 e, negli ultimi due decenni, si è notata una certa riduzione delle piogge stesse.

b) Caratteristiche del paese

Il paese sorge sulla parte più alta di tre colline, ad una altezza intorno ai 350-400 metri sul livello del mare e distante una ventina di km dal mare stesso. Il paese è urbanisticamente molto compatto, con le case addossate l’una con l’altra, senza spazi verdi. Fino agli inizi del secolo scorso l’abitato, salvo le poche case signorili ed edifici particolari, era formato da tante case col solo piano terra e dipinte con calce bianca, del tipo di quella della fig. 1.

Il periodo a cui si farà riferimento in questa ricerca sul modo in cui si cercava di risolvere l’approvvigionamento di acqua inizia da appena dopo l’unità di Italia e termina verso la fine degli anni trenta del secolo scorso, quando arriva l’acqua portata dall’acquedotto dell’Agri (uno dei fiumi della Lucania che sorgono sugli appennini a ridosso della Campania e della Calabria e che sfociano nel mar Jonio), mentre si farà solamente qualche accenno alla situazione nel periodo successivo. Il riferimento al periodo serve anche per indicare la popolazione che probabilmente risiedeva nel paese. La popolazione complessiva è stata di circa ottomila abitanti appena dopo l’unità Italia, di circa diecimila agli inizi del XX secolo, di 12.310 nel 1938 e di 16.700 nel censimento del 1971 (10.000 nel centro urbano, 5.000 in una grossa frazione e il resto in altre frazioncine e nelle campagne). Nel periodo a cui si riferisce questa ricerca, considerando che una certa parte della popolazione probabilmente risiedeva stabilmente nelle campagne, con brevi soggiorni nel paese, e che una parte risiedeva in piccole frazioni, potrebbe considerarsi che insistesse nel centro urbano del paese una popolazione che poteva andare dai 5-6mila agli 8-9mila abitanti.

c) Le cisterne
Fig.1 Una classica cisterna in una tipica casa col solo piano terra. L’entrata è lo sportello di ferro di colore marrone. L’acqua piovana raccolta dal tetto della casa affluiva nella canaletta laterale e in seguito, attraverso una condotta che correva nel muro, veniva immessa nella cisterna. Adesso l’acqua piovana non viene più immessa nelle cisterne ma deviata all’esterno (nel caso raffigurato in questa foto fuoriesce dal buco che si vede in basso).

“Quando piove non secca niente” dice un proverbio del paese. Questo proverbio lo ripeto ribattendo a quei colleghi (soprattutto donne) che sono molto preoccupati quando minaccia di piovere, anzi quando appena si vede qualche nuvola all’orizzonte. Questa situazione la dice lunga sulla scarsa sensibilità che c’è intorno al problema dell’acqua.
Il problema dell’acqua era un problema centrale nella vita delle famiglie. Nel periodo a cui si riferisce questa ricerca la scarsità di acqua aveva un’incidenza notevole sull’igiene e sulla salute delle persone. Specialmente durante l’estate la mortalità infantile per enterite raggiungeva cifre spaventose. Ma a mietere vittime, soprattutto sulla gente più povera, erano anche il tifo, la malaria, la polmonite, il vaiolo, la difterite, la poliomielite e altre malattie ancora.

Un contributo all’approvvigionamento dell’acqua veniva dato dalle cisterne. Queste sono vani interrati costruiti insieme alla casa e che fanno parte della struttura stessa della casa. Hanno una profondità di circa 4-5 metri e una capacità di circa 20-30 metri cubi. Hanno la forma di una classica borraccia (sarà un caso?) e ha due aperture per accedervi: una, più grande, dall’esterno della casa, e un’altra, più piccola, dall’interno della casa stessa.
Le cisterne servivano per immagazzinare l’acqua piovana che cadeva sui tetti delle case. Dai coppi l’acqua scendeva in una canaletta laterale. Questa canaletta portava l’acqua in una condotta che correva all’interno del muro e che infine la immetteva nella cisterna appena sotto il suo “collo”. La condotta, fatta di tubi di terracotta a incastro era all’interno del muro ma appena sotto lo strato di intonaco, in modo che fosse possibile accedervi con una certa facilità nel caso di interventi di manutenzione. Era possibile deviare il flusso dell’acqua verso l’esterno della casa. Ciò avveniva alle prime piogge, in modo che queste pulissero i tetti delle case. Ovviamente la deviazione era sempre possibile anche per altri motivi. Un mio amico falegname (che ho intervistato in merito) mi ha detto che suo zio evitava che l’acqua fosse deviata nella cisterna anche nel periodo in cui i passeri covavano: i nidi infatti venivano fatti sotto i coppi e quindi i passeri si trattenevano sui tetti, dove poteva succedere che deponessero i loro escrementi.

Dalla cisterna l’acqua veniva prelevata con un secchio legato ad una corda che passava attraverso una carrucola.
Periodicamente la cisterna veniva pulita dopo averla svuotata. La periodicità dalla pulizia forse era di 2-3 anni (non ho avuto però informazioni precise in merito). Ad una domanda sul problema dell’igiene dell’acqua della cisterna un mio amico, vecchio muratore, ha risposto dicendo che alle volte veniva buttata della calce per disinfettare. In ogni caso eventuali detriti si depositavano sul fondo.

Fig. 2 Dalla cisterna l’acqua veniva prelevata con un secchio servendosi di una fune che passava attraverso una carrucola. In questa immagine lo sportello piccolo è stato tolto e l’apertura, a cui si accede dall’interno della casa, è stata murata

Le cisterne erano diffusissime. Non è stato possibile stabilire un numero. La loro diffusione variava molto da quartiere a quartiere. In certe strade quasi ogni casa aveva la cisterna mentre in altre strade erano poco diffuse. Erano diffuse soprattutto nei quartieri nuovi, cioè quelli creati fra la fine dell’ottocento e i primi del novecento. Probabilmente ciò è dipeso dai miglioramenti delle condizioni economiche, perché la costruzione di una cisterna incideva notevolmente sul costo complessivo della casa.
Non penso che a quei tempi esistessero delle norme estetiche da rispettare nel colore della vernice da dare agli sportelli delle cisterne ma tutti erano di colore marrone o, più raramente, di colore verde, gli stessi colori comunque della porta della casa.

Fig. 3 Serie di cisterne. Nei quartieri nuovi, cioè quelli creati fra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, quasi tutte le case avevano la cisterna. Adesso l’acqua piovana non viene più inviata nelle cisterne ma all’esterno, come mettono in evidenza quei tubi lungo il muro

Ma come facevano le famiglie che non disponevano di una cisterna? Probabilmente quando pioveva prendevano l’acqua disponendo dei secchi sotto le canalette che la mandavano giù dal tetto. Questa acqua poi veniva immagazzinata in fondo alla casa in una vasca di ferro zincato o di terracotta. Ricordo da bambino che qualcuno faceva ancora così. Ma succedeva anche che venisse acquistata con denaro o con scambi in natura da coloro che possedevano la cisterna (in qualche intervista ho sentito qualche accenno a questa modalità di approvvigionamento).

Da parecchi decenni le cisterne non vengono più utilizzate. Viene impedito che l’acqua vi acceda (nel modo sopra detto). Alcune cisterne sono state chiuse al momento della ristrutturazione delle case, altre sono state trasformate in finestre o buche per le lettere. Per meglio dire, è stata trasformata la parte in alto delle cisterne, perché la parte sottostante è rimasta intatta. Uno dei miei fratelli, che sta al paese e fa il muratore, ha detto che alcune volte, in lavori di ristrutturazione di case, si è imbattuto in cisterne che contenevano ancora l’acqua, sicuramente risalente ad alcune decenni prima. Le cisterne, secondo le indicazioni dei proprietari delle case (dice sempre mio fratello muratore) vengono tombate, cioè viene chiusa l’imboccatura e vengono coperte, lasciando l’acqua ancora all’interno.

Fig. 4 Il fondo di una cisterna con l’acqua (probabilmente risalente a qualche decennio precedente). La condotta “sfogava” nella cisterna appena sotto il suo “collo”.

Dato che alle volte nel paese viene interrotta l’erogazione dell’acqua, qualcuno continua a utilizzare la cisterna come deposito di acqua, ma questa non è più l’acqua piovana che cade sui tetti ma quella dell’acquedotto.

Fig. 5 Una cisterna utilizzata come deposito di acqua che affluisce non più dal tetto ma dall’acquedotto. Per prelevarla si utilizza non più il secchio con una corda che passa da una carrucola ma una moto-pompa.

Per ovviare all’inconveniente dell’interruzione dell’acqua da molti decenni si ricorre all’installazione di serbatoi sulle terrazze o sui sottotetti delle case. Questi serbatoi, della capacità di circa un metro cubo, sono riempiti con l’acqua dell’acquedotto e, quando viene interrotta la sua erogazione, automaticamente l’acqua viene prelevata da essi. La capacità di questi serbatoi non è elevata perché l’interruzione dell’erogazione avviene normalmente dalle ore 14.00 circa alle ore 06.00-07.00 del giorno dopo (viene data quindi per 6-8 ore al giorno). Questa estate in paese ho sentito parlare del pericolo che l’acqua raccolta negli invasi delle dighe non potesse fare fronte ai bisogni domestici di acqua (queste voci si sentono ogni estate). Comunque, durante il periodo in cui ho soggiornato al paese (circa una ventina di giorni ad agosto) l’erogazione dell’acqua è stata interrotta, nelle modalità indicate, solamente due volte. Negli ultimi anni non ricordo di interruzioni dell’acqua nei periodi in cui ho soggiornato in paese. Bisogna dire inoltre che parte dell’acqua della Regione viene venduta (penso con particolari modalità previste dalle leggi) alla Regione Puglia.

Al centro dei cortili dei palazzi signorili, dei conventi, delle scuole, ecc., venivano costruiti delle cisterne molto grandi, impropriamente chiamati pozzi. I tetti molto grandi di tali edifici consentivano di accumulare notevoli quantità di acqua e da qui discendeva la possibilità di costruire cisterne molto grandi.

Fig. 6 Il pozzo nel cortile di un palazzo signorile. Il pozzo è in realtà una grossa cisterna posta al centro del cortile. La capacità di queste cisterne è notevolmente superiore a quella delle cisterne delle case popolari perché è notevolmente superiore la superficie dei tetti da cui affluiva l’acqua.

d) Le fonti e i pozzi

L’acqua piovana che veniva immagazzinata nelle cisterne era priva di sali minerali ed inoltre ristagnava per cui veniva destinata soprattutto per l’igiene anche se, in mancanza di meglio, veniva bevuta.
Per avere della buona acqua da bere bisognava quindi andare alle fonti di acqua sorgiva e ai pozzi. L’acqua veniva trasportata con barili di legno, della capacità di circa 25-30 litri che le donne si sistemavano sulla testa (protetta da una tovaglietta arrotolata) e gli uomini sulle spalle.
Mediante ricerche bibliografiche, interviste fatte e ricordi di quando ero ragazzo, ho potuto contare cinque fonti e due pozzi nelle immediate vicinanze del centro abitato. Due fonti e un pozzo erano invece alla distanza di 1-1,5 km dal centro abitato mentre altre tre fonti e due pozzi erano alla distanza fra i tre e i cinque km dal centro abitato. Di alcune di queste fonti e pozzi non avevo conoscenza diretta, nel senso che da ragazzo non le avevo viste. Nelle interviste fatte (anche a persone di una certa età) ho notato una notevole difficoltà nel ricordarsi di queste fonti e pozzi, oltre che nel fare confusione fra di esse. La spiegazione di tutto questo risiede almeno in due motivi: il primo è che c’è poca sensibilità intorno al problema dell’acqua perché, nonostante alle volte ci siano interruzioni nella sua erogazione (però nelle modalità sopra indicate) praticamente questo problema nel paese non esiste; un altro motivo è che l’acqua tramite acquedotto è arrivata nel paese nel 1936, cioè più di 70 anni fa. Considerando che una persona avrebbe dovuto avere nel periodo precedente il 1936 almeno una decina di anni per prendere coscienza del problema dell’approvvigionamento dell’acqua, si deduce che le persone che avrebbero potuto darmi informazioni dirette hanno superato gli 80 anni di età.

Il flusso di acqua delle fonti e dei pozzi a ridosso del paese era però molto scarso. I motivi erano sicuramente due: la scarsità delle precipitazioni annue e la scarsa estensione del territorio a monte che avrebbe captato l’acqua che poi le avrebbe alimentate. Da fonti bibliografiche ho appreso che dalla fonte detta la “Rupe”, distante circa 1 km dal paese, sgorgava un litro di acqua al minuto. In questo modo era in grado, teoricamente, di riempire un barile da 30 litri in mezz’ora e, quindi, 48 barili nell’arco delle 24 ore (ho sentito che si andava anche di notte a prendere l’acqua). Con la mia compagna sono andato alla ricerca di questa fonte, che già conoscevo da ragazzo. Non riuscivo ad individuarla e stavamo andando via quando, dopo informazioni da parte di un pastore che pascolava il gregge in quei paraggi, siamo riusciti a individuarla. Effettivamente, ad occhio e croce, la portata è ancora quella descritta. Anche se le cose fossero state migliori in riferimento alle altre fonti e pozzi è evidente la scarsissima quantità di acqua potabile di cui poteva disporre una popolazione di 6-8 mila abitanti.

Fig. 7 La fonte della “Rupe”, distante circa 1 km dal paese

Il problema dell’acqua era uno dei problemi principali della gente. Nella relazione presentata nel 1876 dal sindaco Franchi vengono esposte le iniziative fatte dall’amministrazione comunale per ovviare, per quanto possibile, al problema dell’approvvigionamento idrico. Si parla tra l’altro di un sedicente ingegnere idraulico che avrebbe dovuto costruire un pozzo ma che si dimostrò essere un impostore, recando notevole danno finanziario al Comune e facendo poi perdere le sue tracce. Si parla di altre iniziative volte ad aumentare la disponibilità di acqua da parte dei cittadini, con la ricerca di nuove fonti e la manutenzione e il potenziamento di quelle già esistenti, ma che i risultati sono sempre stati notevolmente inferiori alle attese. Si parla ancora dell’attività dell’amministrazione comunale che riportò a proprietà del Comune due importanti fonti, come quella di Cannile, di cui si erano ingiustamente appropriati alcuni privati cittadini.

e) La fonte di “Cannile”

Quella denominata di “Cannile” era la più importante fonte di acqua potabile, sia per l’abbondanza che per la qualità delle sue acque.
Dato che non ho mai conosciuto l’ubicazione della fonte di “Cannile”, una mattina con la mia compagna, sulla scorta di alcune informazioni che ho avuto, vado alla sua ricerca. Non si riesce ad individuarla. Dopo qualche giorno e dopo alcune informazioni supplementari andiamo di nuovo alla sua ricerca. Riusciamo così ad individuarla. La sua distanza dal paese è di circa 5 km.

Fig. 8 Al secondo tentativo riusciamo ad individuare la fonte di Cannile. L’imboccatura è coperta di edera e altre piante ma con un bastone le sposto mettendola in evidenza.

Fig. 9 La vasca retrostante l’imboccatura è piena di acqua. Sposto le code di cavallo (equiseti) che ricoprono l’area antistante la fonte e si vedono scorrere rivoli di acqua

Il Comune aveva stabilito un servizio pubblico di approvvigionamento di acqua dalla fonte di Cannile. Dei carri con botti prelevavano l’acqua dalla suddetta fonte e la depositavano in tre cisterne pubbliche nel paese. L’acqua veniva poi venduta a quattro soldi al litro (venti centesimi) con un limite all’acquisto di dieci litri al giorno (probabilmente questi dati si riferiscono agli anni ’20 del secolo scorso). Queste informazioni le ho apprese da ricerche bibliografiche e da una intervista all’autore di un saggio sulla storia del paese. In questo saggio ho trovato ulteriori informazioni a conferma di quanto detto. Fra gli atti dell’Amministrazione comunale risulta in data 24 giugno 1924 un “Provvedimento in merito al servizio di trasporto e di distribuzione dell’acqua potabile alla cittadinanza” e fra le Deliberazioni podestarili e del Commissario prefettizio risulta in data 30 giugno 1928 la deliberazione di “Approvazione di spesa per la riparazione della strada che porta alla pubblica fontana Cannile” Ho cercato conferma a queste notizie bibliografiche e, dopo che molte persone hanno detto di non ricordare tale servizio oppure negavano che ci fosse stato, finalmente una persona ha ricordato che le donne andavano a prendere l’acqua ad una cisterna pubblica mentre un’altra persona ricordava la ditta che con carri trainati da muli andava a prendere l’acqua alla fontana suddetta. Quest’ultima persona ricordava che anche i privati (in questo caso le famiglie benestanti) ordinavano alla suddetta ditta dei trasporti di acqua. Non sono riuscito acapire le condizioni contrattuali ed economiche a cui avveniva questo servizio di approvvigionamento.
Ovviamente esistevano anche privati cittadini, soprattutto persone anziane (i cosiddetti acquaiuoli) che col proprio asino e servendosi di barili andavano a prendere l’acqua su ordinazione di famiglie private. Facevano due-tre viaggi al giorno caricando il proprio asino di due barili.
Un’altra fonte, distante dal paese circa 3 km, serviva all’approvvigionamento del paese. La sua portata era sicuramente inferiore a quella di Cannile ed inoltre il percorso per accedervi era più disagevole. Io e la mia compagna l’abbiamo individuata al secondo tentativo. Diversamente che dalla fonte di “Cannile” quando ero ragazzo avevo visitato alcune volte questa fonte. Dopo ulteriori e ben dettagliate informazioni da una signora vicina di casa, come ho già detto poco sopra, l’abbiamo individuata. E’ a pochi metri dalla vecchia stradina ma è occultata da rovi ed altre piante. Questa fonte, chiamata la “Manca”, è stata l’unica fonte che abbiamo trovato secca.

Per quanto riguarda i pozzi ho ricevuto poche informazioni in merito. Erano in numero fortemente inferiore a quello delle fonti. Probabilmente non svolgevano un importante ruolo nell’approvvigionamento di acqua. Da molti viene ricordato solamente un pozzo alla periferia est del paese, detto “Pozzo a due boccole”, famoso perché ogni tanto qualcuno si è buttato dentro per suicidarsi.

2) Arriva l’acquedotto!

Nel 1934 (anno XII dell’era fascista, come indicato su un bassorilievo sul serbatoio) sono ultimati i lavori di costruzione del serbatoio comunale, eseguiti dalla Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna. L’acqua però arriva ai cittadini nel novembre del 1936. L’acquedotto alimenta 12-14 fontane distribuite nel paese. L’acqua erogata non è molta e non si può fare a meno di utilizzare ancora l’acqua delle cisterne, almeno per gli usi non potabili.

Fig. 10 Il serbatoio del paese dell’acquedotto dell’Agri. La sua costruzione, con l’abbattimento di parte dei ruderi del vecchio castello, inizia nel 1932 e termina nel 1934.

Solamente negli anni cinquanta, in seguito ad ulteriori afflussi di acqua, iniziano gli allacciamenti all’acquedotto da parte di utenze private.
Agli inizi degli anni sessanta, con l’ulteriore afflusso di acqua con il nuovo acquedotto del Frida, si assiste ad un consistente miglioramento nell’approvvigionamento di acqua da parte della popolazione, con un notevole aumento degli allacciamenti di utenze private.

Ricordo da bambino che le donne andavano a prendere l’acqua alla fontana servendosi di secchi. Nonostante si seguisse l’ordine di arrivo alla fontana per poter prelevare l’acqua, scoppiavano sempre dei litigi. Alla fontana le donne andavano anche per lavare le verdure.

3) Una breve conclusione

Le cose dette in questo lavoro, con cui ho affrontato la soluzione del problema dell’acqua nel mio paese di nascita nel periodo fra l’unità di Italia e gli anni trenta del secolo scorso, hanno messo in evidenza l’enorme energia e l’enorme tempo spesi per approvvigionarsi di questo prezioso liquido.
In futuro si prevede una minore disponibilità di combustibili fossili (essenziali per l’attuale modalità di approvvigionamento di acqua) e il venire meno di molti equilibri ecologici in seguito al previsti cambiamenti climatici, con la conseguenza che alcuni territori del Mezzogiorno di Italia possano andare incontro a fenomeni di desertificazione.
Si ipotizza che la regionalizzazione dell’economia, a cui si assisterà dopo l’ubriacatura della globalizzazione resa possibile dai combustibili fossili abbondanti e a buon mercato, comporterà una maggiore produzione locale di molte cose che adesso in parte sono importate (come cereali, frutta, ortaggi e carne) e ciò, per concludere, comporterà il riutilizzo dei vecchi modi di approvvigionamento dell’acqua, sia per fini potabili che irrigui.

sabato, novembre 13, 2010

Una tempesta di petrolio su un territorio

Ospitiamo questo intervento di Armando Boccone che ci illustra un'indagine sul territorio alla ricerca dei segni di un mondo scomparso a causa dei cambiamenti indotti dalla disponibilità di energia fossile a basso costo.
Scritto da Armando Boccone

Questo lavoro analizza, sebbene in modo abbastanza approssimativo, le conseguenze che l’abbondanza di petrolio a buon mercato ha avuto su un territorio e le difficoltà nella creazione di nuove prospettive a partire dalla considerazione che ciò non sarà più possibile.
Il lavoro prende le mosse dai dati della piovosità relativa al territorio nord-orientale della mia regione di origine (la Lucania). Consultando il sito dell’ARPAB ho notato che le stazioni meteorologiche di questo territorio hanno rilevato una piovosità, nel periodo 1921-2001, di 500-600 millimetri o poco più all’anno. E’ un indice molto basso. Le piogge, in questa zona della Lucania che confina con la Puglia e il mar Jonio, sono concentrate nel periodo invernale (dicembre-marzo) mentre i mesi estivi sono interessati da siccità molto duratura.

Fig 1: Il pluviometro della stazione meteorologica della località Torre Accio, nel comune di Bernalda, ha rilevato una piovosità media di 514 mm all’anno nel periodo 1921-2001


L’agricoltura “logicamente” connessa a queste condizioni climatiche è stata un’agricoltura secca (cioè basata solamente sulle piogge) caratterizzata dalla cerealicoltura e dall’olivicoltura, con un po’ di orticoltura e coltivazioni varie intorno alle masserie e l’allevamento ovino nelle zone interne e collinari del territorio. Nella cerealicoltura periodicamente si ricorreva al maggese, cioè il terreno veniva lasciato incolto per dargli modo di riprendersi.
Se si guarda però l’agricoltura attualmente praticata nel territorio ci si accorge che è un’agricoltura fiorente, basata su colture orticole e frutticole specializzate.
Cosa ha reso possibile questo enorme cambiamento?
Le cause sono state tante come la riforma agraria attuata negli anni ’50 del secolo scorso, come la creazione di dighe nella parte occidentale della regione (quella che confina con la Campania e la Calabria) dove la piovosità supera i 1000 mm annui, come la creazione delle enormi infrastrutture necessarie per portare l’acqua verso gli utilizzatori finali, come la disponibilità di concimi chimici, … come, per concludere e riassumere, la enorme disponibilità di petrolio a buon mercato!

Fig. 2 Struttura necessaria al trasporto dell’acqua


Se non ci fosse stata una enorme disponibilità di petrolio a buon mercato non sarebbe stata possibile per l’agricoltura andare incontro a quel mutamento a cui si è assistito dal secondo dopoguerra in poi.
Adesso sembra che quella tempesta di petrolio a cui si è assistito finora inizi a dare segni di calma. E’ necessario quindi iniziare a pensare come impostare non solamente la produzione ma tutta la vita umana su altri criteri e non più sull’uso massiccio di petrolio e su tutto ciò che questo uso ha reso possibile.
Per la precisione bisogna andare alla ricerca, come disse Alì Samsam Bachtiari al congresso Aspo di Firenze nel 2007, delle nostre radici, cioè delle conoscenze che ci hanno guidato nei secoli precedenti l’era petrolifera. Disse questo studioso che stiamo attraversando un momento di grande difficoltà per la civiltà umana che si trova per la prima volta davanti al declino globale di una risorsa fondamentale come il petrolio.
La ricerca di queste conoscenze non sarà facile perché quella tempesta di petrolio, rendendole temporaneamente non attuali, ha impedito che fossero trasmesse alle nuove generazioni. Molte di queste conoscenze erano solamente nella mente e nel comportamento dei nostri padri e nonni ed erano trasmesse oralmente per cui bisogna andare da loro e chiedere come facevano a risolvere certi problemi.

La masseria, il pozzo, il forno, la stalla, il pollaio, la colombaia e altro


Fino agli anni cinquanta del secolo scorso una parte consistente della popolazione della mia Regione di origine (come per buona parte dell’Italia) era dispersa sul territorio ed era dedita all’agricoltura
Per questo motivo ho fatto una ricerca sulla realtà rurale precedente l’età dell’abbondanza di petrolio. La ricerca è consistita nel chiedere informazioni alle persone anziane del mio paese e nell’andare sul territorio e fotografare e interpretare i resti delle strutture di quel modo di vita, cioè le masserie abbandonate. L’esposizione che farò di questa realtà sarà sicuramente molto approssimativa, parziale e, in parte, imprecisa, ma l’importante è iniziare. Sarebbe stato interessante anche indagare la nuova realtà dell’agricoltura e i nuovi rapporti fra i proprietari dei terreni e la coltivazione dei terreni stessi (sicuramente attualmente molta parte del lavoro necessario alla coltivazione viene affidato a terzi).


Foto 3: una masseria abbandonata…

Non pensavo che il territorio su cui ho fatto l’indagine fosse pieno di masserie abbandonate. Le costruzioni, sia all’interno che all’esterno, mettono in evidenza delle tecniche costruttive che nessun muratore o azienda edile attualmente riuscirebbe più a padroneggiare, sostituite dalle caratteristiche tecniche del ferro e del cemento. Ma il ferro e il cemento hanno il tallone di Achille che quelle tecniche costruttive non avevano: richiedono moltissima energia per la loro produzione. L’energia che richiedeva quell’agricoltura era rappresentata soprattutto dalla legna che serviva alle innumerevoli fornaci distribuite sul territorio per cuocere mattoni e coppi e dal lavoro animale e umano per coltivare la terra.
Ogni masseria possedeva il pozzo, il forno, la stalla, il pollaio, la colombaia e altro. Buona parte della vita delle famiglie coltivatrici avveniva nelle masserie. I rapporti con l’esterno, sia dal punto di vista economico che sociale, si riducevano soprattutto alla vendita del grano, dell’olio e di poco altro. Dato che buona parte della vita si svolgeva nella masseria era necessario disporre dell’acqua e di fare periodicamente il pane. Mi aspettavo dei sistemi di raccolta dell’acqua piovana che cade sui tetti, così come esistono nel mio paese di nascita. Quest’acqua veniva convogliata, attraverso delle tegole a imbuto che correvano lungo i muri, in apposite cisterne, cioè in vani interrati disposti sotto le case. L’acqua piovana, benché priva di sali minerali e ristagnante, in mancanza di acqua prelevata dalle sorgenti, veniva usata anche per bere. Nelle masserie non ho trovato invece tali sistemi di raccolta di acqua. La spiegazione che ho dato è molto semplice: nelle masserie si disponeva dell’acqua dei pozzi, in certo modo corrente e contenente sali minerali. La stalla molte volte serviva solamente come ricovero per gli animali da lavoro come asini e muli mentre rare volte per l’allevamento di qualche capo bovino. La novità è stata la presenza delle colombaie: non pensavo ci fossero e invece la possedevano quasi tutte le masserie. Le persone che ho intervistato in merito dicevano che le colombaie davano un consistente apporto di carne per l’alimentazione dei bambini e delle donne in gravidanza e in allattamento. Mi hanno detto pure che era difficile avere una coppia di colombi con cui mettere su una colombaia.

Foto 4: con il forno…


Foto 5: il pozzo

Foto 6: il silos, il pollaio e la sovrastante colombaia



Foto 7: e una bellissima pergola carica di uva davanti alla porta



La colombaia


Dato che sono stato colpito dalla presenza delle colombaie (pensavo addirittura che non ne esistessero nel territorio) ho focalizzato la mia attenzione nella ricerca delle conoscenze necessarie alla sua creazione, all’allevamento dei colombi, al loro utilizzo nell’alimentazione e a quant’altro a esse collegate.
Ho stabilito una correlazione fra la diffusione delle colombaie e la presenza delle ricette per cucinare i colombi. Ho visto che Pellegrino Artusi, nella sua opera ”La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene” espone cinque ricette per cucinare i colombi. Adesso invece nei nuovi libri di cucina in vendita nelle libreria o in edicola non c’è nessuna ricetta che riguarda i colombi. Infatti è difficile acquistare piccioni per l’alimentazione visto che nessun supermercato o macelleria li vende.


Una domanda imbarazzante!


A molte persone ho fatto una domanda che, salvo una volta, non ha ricevuto risposta. Questa domanda aveva l’intento di mettere in evidenza la maggiore sostenibilità dell’allevamento dei colombi rispetto agli attuali allevamenti che si basano sulla coltivazione di tutto ciò che viene utilizzato per l’alimentazione animale. La domanda è stata: i colombi si alimentavano oltre che con le granaglie appositamente loro date anche con ciò che trovavano sul territorio quando uscivano liberamente dalla colombaia?
Ho inviato una e-mail a un indirizzo di un allevatore di piccioni che ho trovato sul WEB: la risposta è stata che se i colombi uscissero liberamente in pochi sarebbero rientrati, che chi alleva deve per forza tenerli in gabbia, che gli vengono somministrati degli integratori che a quelli in libertà non servono, ecc. Non c’è stato verso di ricevere una risposta precisa alla domanda che ho fatto!
Solamente una persona mi ha risposto dicendo che se l’allevamento dei colombi fosse avvenuto solamente dando da mangiare granaglie sarebbe stato molto costoso e quindi non conveniente.
Fig. 8 Un’altra masseria abbandonata (si notino in fondo, in alto, i buchi di una colombaia)


Una signora mi ha dato altre indicazioni più dettagliate sull’allevamento dei piccioni. Mi ha detto che:
- per impiantare una colombaia veniva acquistata una coppia di piccioni quando era già atta al volo e autonoma nell’alimentazione;
- venivano loro tagliate le estremità delle penne delle ali in modo che si abituassero a vivere in quell’ambiente;
- le uova non venivano mangiate ma servivano solamente per la cova;
- i colombini erano pronti per la macellazione alla fine del primo mese di vita;
- la loro carne serviva soprattutto per l’alimentazione dei bambini e delle donne in cinta e in allattamento;
- i colombi arrivati all’età della macellazione servivano sia per l’alimentazione all’interno della masseria che venduti all’esterno;
- i colombi venivano nutriti col grano perché se non alimentati probabilmente si sarebbero allontanati dalla colombaia;
- la carne dei colombi era molto importante per l’alimentazione dei contadini;
- quasi in ogni masseria c’era una colombaia.

Dalla signora non sono riuscito ad avere risposte precise alla mia domanda se i colombi si nutrissero anche di ciò che trovavano nel territorio circostante quando uscivano dalla colombaia. Può darsi che lei abbia conosciuto le colombaie quando ormai il territorio era completamente e intensamente coltivato e l’allevamento dei colombi era diventato quasi un hobby e avveniva al chiuso. Del resto così avveniva con i pollai. Le galline erano nutrite con granaglie ma poi erano libere di trovare altri alimenti (insetti, vermi, granaglie selvatiche) sul territorio intorno alla masseria. Adesso, con la campagna “urbanizzata, con strade che arrivano dappertutto, anche l’allevamento delle galline avviene al chiuso, altrimenti molte sarebbero ammazzate dalle autovetture.


Le prospettive future


La nuova realtà che si è creata è stata determinata , come è stato già detto, dall’abbondanza di petrolio a buon mercato. Questo fenomeno è stato come una tempesta. Come avviene in molti Paesi interessati da uragani la gente, appena sa del suo arrivo, alle volte è costretta a scappare lasciando le loro case così come si trovano. Sembra che sia avvenuto la stessa cosa nel territorio che è stato indagato, visto come sono state lasciate alcune masserie. Appena io e la mia compagna siamo entrati in una masseria (la porta era aperta) lei è rimasta scandalizzata perché pensava a un atto di vandalismo. La ho rassicurata dicendo che quella masseria era stata abbandonata da moltissimi anni.
Fig. 9 Una masseria abbandonata in fretta e furia


I mobili della cucina erano pieni di piatti, posate, pentole, e altro. In un armadietto c’erano due bottiglie di liquore, senza tappo, con all’interno ancora il liquore, ormai ridotto a uno sciroppo molto denso, visto che l’alcool e l’acqua erano evaporati. Un cassetto era pieno di ricevute di bollette pagate.

Il riutilizzo delle masserie per fini turistici


Non è bello vedere tante masserie andare incontro al degrado. Alcune masserie però ricevono un altro destino. Quelle con buone caratteristiche architettoniche e costruttive e ancora conservate bene vengono ristrutturate e destinate a fini turistici. E’ quanto avvenuto con la masseria esposta dalla successiva foto, trasformata in un Resort a quattro stelle, con piscina, maneggio, cucina locale ma di alto livello e quant’altro.
Fig. 10 Una masseria trasformata in un Resort a quattro stelle


Quando la tempesta di petrolio finirà allora probabilmente le masserie abbandonate riceveranno la destinazione che hanno avuto inizialmente anche se adesso con Internet e il WEB, col progresso scientifico, con l’istruzione di massa e altro, le cose saranno un po’ diverse. Per quanto riguarda le colombaie le difficoltà saranno solamente agli inizi perché, una volta ottenuti i colombini, disponiamo già delle ricette gastronomiche di Pellegrino Artusi.

mercoledì, novembre 12, 2008

Un Pianeta Urbanizzato


Negli ultimi 30 anni, la Popolazione Urbana Mondiale è cresciuta da 1,6 Miliardi di persone a 3,3 Miliardi, (pari a circa 50% del totale) mentre nei prossimi 30 anni la crescita tendenziale delle popolazioni delle città dei Paesi in Via di Sviluppo aumenterà di altri 2 Miliardi di Unità. In Arabia Saudita, il governo sta spendendo miliardi di dollari per costruzione di nuove super-città tale da facilitare la crescita di Gedda e Riyadh. Il governo Egiziano invece, ha in progetto (e sta attuando) la costruzione di 20 nuove città in modo da deviare l’esodo dalle campagne lontano dal Cairo, inoltre ne sta pianificando altre 45. Due esempi tra decine di altri che dimostrano quanto la tendenza all’espansione urbanistica sia in crescendo. Secondo molti governi queste politiche di occupazione del territorio servono per attenuare la pressione dell’esodo delle persone dalle campagne verso le Città principali. Situazioni simili si erano verificate nel passato, tra gli anni 50 e 60, in Europa (Gran Bretagna, Francia, Italia, ecc…). Il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-Moon, durante la biennale del Forum Mondiale sulla Urbanizzazione che si era tenuto verso gli inizio di Novembre 2008, aveva avvertito i governi partecipanti che da oggi al 2030, servirebbero almeno due miliardi di Euro per sfamare le milioni di persone che vivono nelle città - baraccopoli e che “le aree urbane consumano la maggior parte delle risorse energetiche mondiali oltre alla generazione della maggior parte dei rifiuti” (1) .
Secondo la FAO, dal 2007 e per la prima volta nella storia, la popolazione urbana mondiale ha superato quella rurale, della quale un terzo, vale a dire un miliardo di persone, vive nelle baraccopoli. Questa percentuale cresce ulteriormente nell’Africa sub-sahariana, dove oltre tre quarti degli abitanti delle città è residente in quartieri degradati (2). Secondo proiezioni fatte dall’ONU, entro il 2030 due terzi della popolazione mondiale vivrà nelle città, mentre si stima che la popolazione mondiale totale raggiungerà entro il 2050, i nove miliardi di abitanti. "Vi sarà un grosso aumento della popolazione urbana", dice Alexander Müller, responsabile ad interim del Dipartimento Agricoltura e difesa del consumatore della FAO. "Assicurare che abbiano cibo a sufficienza rappresenterà una sfida senza precedenti".
Per rispondere a questa crescente espansione delle città in particolare nei paesi in via di sviluppo ed in quelli ad espansione economica (Cina, India), e al rapido espandersi delle bidonville, favelas e baraccopoli (come vengono ormai chiamati i fatiscenti quartieri poveri delle grandi metropoli), la FAO sta sostenendo e portando avanti il concetto di “Agricoltura Urbana” con l’obiettivo di migliorare i sistemi di approvvigionamento alimentare di enormi aree urbane come Calcutta, Nairobi, ecc …. . Attraverso il progetto “Cibo per le città”, la FAO ha l’obiettivo di aiutare le popolazioni in diverse città dei paesi del sud del mondo sviluppare sistemi di agricoltura urbana e peri-urbana (goi orti famigliari), affinché possano in futuro raggiungere l’autosufficienza alimentare. Il cibo è prodotto conformemente ai principi di un’agricoltura sostenibile (biologica o integrata) e secondo strette norme di qualità, per far sì che i prodotti siano freschi e genuini.
In America Latina, e causa del limitato accesso alla terra gli esperti locali, con l’appoggio della FAO, hanno insegnato a centinaia di famiglie che vivono nei “Barrios” a produrre verdure per l’autoconsumo in mini-orti, coltivati all’interno delle loro abitazioni, usando una serie inconsueta di contenitori: bottiglie riciclate, vecchi copertoni e vaschette di varia natura. Viene applicata la tecnica di coltivazione per substrato o idroponica (dove l’acqua sostituisce la terra), in contenitori che vengono sistemati dovunque vi è spazio e luce a sufficienza. Ogni mese ciascun orto familiare riesce a produrre sino a 25 chili di verdure come lattuga, fagioli, pomodori e cipolle. Qualsiasi eccedenza viene venduta ai vicini o tramite la cooperativa che è stata formata nell’ambito del progetto .
A prima vista Accra (Ghana), Beijing (Cina) e Vancouver (Canada) sembrano avere poco in comune. Nell’area metropolitana di Vancouver vivono quasi 2 milioni di persone, a Beijing oltre 14,5 milioni. Ancora più evidenti sono le differenze di reddito: in quasi tutto il Ghana, il reddito pro capite è di 700 dollari l’anno, contro i 2.200 di Beijing e gli oltre 32.000 di Vancouver. Però se si osservano i cortili e i tetti, si nota come ovunque gli abitanti siano impegnati a risolvere un problema antico come le città in cui vivono: produrre cibo.
Tuttavia esiste un altro problema non meno importante da affrontare, quello dell’acqua. Laddove i sistemi di depurazione dell’acqua non sono adottati come nelle bidonville di Mumbai o Nairobi, l’acqua fresca e pulita non è affatto facile da trovare e nemmeno tanto economica da acquistare. Questi “contadini urbani” in genere usano le acque grigie degli scarichi che possono portare malattie, o comunque pregiudicare la salute. Eppure in Città come Accra (Ghana) e molte altre del mondo queste acque (contenenti soprattutto le deiezioni umane) presentano delle proprietà fertilizzanti di non poco conto.
Le città puntano all’autosufficienza alimentare ma le difficoltà non sono certo poche. A livello immediatamente pratico, l’altezza degli edifici oscura la luce del sole (e qui coltivare sui tetti è una soluzione efficace), mentre il terreno può essere inquinato da preesistenti residui industriali (anche se spesso i terreni agricoli, intrisi di pesticidi, non sono affatto più puliti). L’allevamento di bestiame o pesci nei pressi di aree densamente abitate e l’impatto dell’agricoltura urbana su risorse idriche spesso appena sufficienti per la città rappresentano una sfida senza precedenti in termini di salute e ambiente. Eppure, oculatamente gestita, l’agricoltura urbana può essere lo strumento migliore non solo per affrontare tempestivamente i problemi sanitari della popolazione ma anche per migliorare la qualità delle acque .
L’acqua potabile nei centri urbani è un bene sempre più prezioso; in molti centri abitati dei paesi più poveri o meno moderni, gli agricoltori urbani usano acque piovane o attinte da fiumi e torrenti per irrigare, ma sempre più spesso ricorrono a una risorsa idrica ampiamente disponibile in qualsiasi città: le acque di scolo. L’IWMI (International Water Management Institute) ritiene che molte città asiatiche e africane vi ricorrano per irrigare oltre il 50% delle coltivazioni.
Nonostante tutti questi problemi, l’agricoltura urbana può portare un soffio di natura nella giungla di cemento, con benefici superiori a quelli del singolo che ricava un po’ di guadagno lavorando la terra o del residente che può contare su generi alimentari.
Ampliando il discorso, l’agricoltura urbana può costituire un esempio d’uso molto
I contadini urbani, tra l’altro, sanno trasformare i problemi in soluzioni. “Usare le acque di scarico comporta sicuramente rischi sanitari e ambientali”, dice Gayathri Devi dell’Iwmi, “ma il loro utilizzo nell’agricoltura urbana e periurbana è un dato di fatto. Qualsiasi limitazione all’agricoltura urbana sarebbe non solo inutile ma provocherebbe danni socioeconomici ai coltivatori e alle loro famiglie.” Prendiamo Hyderabad, settima città dell’India, e luogo d’incontro tra nord e sud del paese, dove internet e biotecnologie sono in continua espansione esistono 300.000 famiglie contadine, che in città coltivano ben 15.000 ettari, e che continuano a basarsi, per mangiare e lavorare, su un sistema irriguo certamente antico: le acque del vicino fiume Musi, per gran parte dell’anno poco più di una fogna a cielo aperto (3).

Referenze:
1- The Economist; Nov. 6th 2008
2- Alison Hodder, esperta di orticoltura - Servizio colture e pascoli; FAO, Febbraio 2007
3- State of the world 2007; “Il nostro futuro urbanizzato” di Worldwatch Institute a cura di Gianfranco Bologna