giovedì, aprile 30, 2009

Abbiamo sbagliato tutto



Questo post mi è stato ispirato da un commento di Weissbach che ha notato come sia sbagliato usare la parola "ambiente" al posto di quella molto più corretta di "risorse". L'ambiente è qualcosa che si presta a una serie di equivoci. Molto si è parlato, infatti, di "tutelare l'ambiente" senza rendersi conto che l'ambiente sono le risorse di cui abbiamo bisogno per sopravvivere e non un abbellimento opzionale per far contento qualche fessacchione ambientalista. Da qui, mi è tornata in mente una cosa che mi è successa qualche anno fa e che vi racconto. E' tutto vero, solo i dettagli sono riferiti a memoria. Per inquadrare i tempi della storia, era quando c'era ancora l'Ulivo e il sindaco non si eleggeva direttamente.


Siamo ormai vicini alle elezioni comunali e la sala riunioni ospita una quindicina di persone intorno a un grande tavolo per una discussione sul programma della lista dell'Ulivo. Sono persone di età varia, dai giovani agli anziani. Molti sono attivisti, volontari, persone impegnate in politica. Alcuni sembrano essere abitanti della zona, venuti per curiosità. C'è il capolista, quello che dovrebbe diventare sindaco se prendiamo la maggioranza, e tre o quattro delle persone che sono in lista. C'è anche un assessore regionale venuto per appoggiare i candidati.

Si parla di varie cose, ma la discussione verte principalmente sull'ambiente. Si parla molto di spazi verdi, di giardini pubblici, di aree attrezzate e di "ANPIL" (area naturale protetta di interesse locale). Il capolista dice che la protezione dell'ambiente è il verde pubblico saranno una sua priorità. L'assessore regionale dice che lui è daccordo e che anche la regione ha il verde come una priorità e che bisogna proteggere l'ambiente. Parlano altre persone; si fanno proposte dettagliate. Un parco giochi si potrebbefare in questo e quest'altro posto. Qui si potrebbe realizzare un'area verde attrezzata. Perché non pensare a dei sentieri pedonali nel verde? Anche certe aree degradate potrebbero diventare aree verdi. L'ambiente è una cosa importante, bisogna pensare a proteggerlo.


Al tavolo, è stato seduto fino ad ora un signore con i capelli bianchi; silenzioso. A un certo punto c'è una pausa nella discussione. Lui prende la parola e dice, "certo, se bisogna fare le case, vedrete che di verde ne rimarrà poco".


C'è un attimo di perplessità intorno al tavolo. La discussione riprende, ma non è la stessa cosa. Dopo un po', il capolista si alza e ringrazia tutti per la discussione. Lo stesso fa l'assessore regionale. Ce ne andiamo in silenzio.

mercoledì, aprile 29, 2009

Accidenti a questo temporalaccio di crisi


Nei discorsi da bar, un po' tutti parlano della "crisi". Hai visto, l'economia non gira, chissà dove andiamo a finire, ma no è solo un momento, lo stato non fa abbastanza, dovremmo fare grandi opere per creare occupazione, potremmo aumentare ulteriormente gli incentivi auto, bla bla ...

Tra i luoghi comuni citati sopra, che sono credo l'1% di quelli che tutti noi sentiamo, prendiamo ad esempio quello secondo cui " l'economia non gira ".

Ma cosa vorrà mai dire? L'economia è un ente astratto che fa il bello e il cattivo tempo, è mutevole e dispettosa come un pomeriggio d'aprile?
Signori, questa non è una crisi. E' LA crisi.
Con questo non voglio dire che gli esiti saranno necessariamente catastrofici; se sapremo gestire la transizione, tirando la cinghia senza costruire colpevoli e fantasmi ad hoc, potremo arrivare a nuovi equilibri. Ma come insegna Colin Campbell, andare nella direzione opposta a quella della crescita "economica" del '900 non sarà banale.
PS 1
In realtà la crescita economica è la manifestazione aritmetica della capitalizzazione legata a flussi crescenti nell' estrasformazione di risorse minerarie e biologiche, in seno alla quale si manifestano palesi contraddizioni, in primis la sopraffazione e la povertà cronica della maggioranza della popolazione mondiale
["Estrasformazione": neologismo creato 1 minuto fa per compendiare l'estrazione e la trasformazione delle risorse: il secondo principio della termodinamica all'opera]

PS 2
Non è un caso che Debora Billi, autrice del blog Petrolio, abbia aperto in un secondo tempo il blog Crisis, che cura con Pietro Cambi. La crisi è consequenziale al peakoil&gas

martedì, aprile 28, 2009

Dal Marocco

Marrakesh è una città con un suo stile molto particolare. Mezza francese e mezza araba, il traffico è caotico con i motorini che si infilano a tutta velocità per le strade strette della Medina. Evidentemente, il buon Dio protegge i guidatori - Inshallah!


Sono di ritorno da alcuni giorni in Marocco, dove ho partecipato a una riunione dedicata al progetto RAMSES, il veicolo elettrico agricolo. I colleghi del CDER (centro per lo sviluppo delle energie rinnovabili) mi hanno anche portato a spasso a vedere diverse realizzazioni che hanno fatto per la sostenibilità. Vi passo qualche foto con brevi commenti.

Il souk della Medina di Marrakesh. Da una visita di qualche anno fa, mi ricordavo i commercianti del luogo come persone cortesi e raffinate con le quali era un piacere trattare. Quest'anno, li ho trovati molto più aggressivi - decisamente troppo. La crisi colpisce tutti, ma in primo luogo quelli che dipendono dal turismo.


Nonostante la forte turisticizzazione della Medina, gli abitanti mantengono notevoli capacità artigianali. Questo signore lavora il legno con un tornio a piede che probabilmente è una tecnologia che esiste da secoli.



Nonostante la confusione e il rumore, sui tetti della Medina nidificano le cicogne. L'ambiente non deve essere troppo inquinato, evidentemente.



Su un giornale di Marrakesh, l'autore se la prende con il governo Italiano accusato di razzismo e di sfruttare il lavoro degli immigrati Magrebini. Dice che gli Italiani non si ricordano più di quando erano loro gli emigranti poveri negli Stati Uniti. Non gli si possono dare proprio tutti i torti.



Nonostante gli articoli sui giornali, non proprio favorevoli agli italiani, l'ospitalità Marocchina rimane una cosa straordinaria. Per esempio, ho domandato a un collega, uno dei tecnici del CDER, dove potevo andare a mangiare un buon couscous. Lui mi ha risposto "ti ci porto io" e mi ha portato a casa sua dove mi ha offerto un couscous fatto in casa che era una cosa favolosa. Lo vedete nella foto qui sopra.



L'hammam "ecologico" di Attauia, circa 100 km a nord di Marrakesh. E' una realizzazione del CDER che ha apportato delle migliorie a un hammam esistente per diminuire il consumo di legna. Questo è l'ingresso; molto tipico di questi bagni pubblici. Ci sono circa 5000 hammam pubblici in tutto il Marocco e consumano una quantità di legna non trascurabile per un paese che ha gravi problemi di erosione.



Mi dispiace di non potervi far vedere l'interno dell'hammam di Attaouia ma, ovviamente, non sarebbe stato il caso di fare delle foto mentre c'era gente che si lavava. Però ho trovato su internet un'immagine che ci somiglia molto (link). Come vedete è un ambiente molto rilassato e tranquillo.



In compenso, vi posso far vedere il proprietario dell'Hammam di Attaouia (col caffetano blu), il suo segretario (col caffetano marrone) e il sottoscritto (senza caffetano). Molto gentilmente, mi hanno invitato a pranzo e quello che vedete dietro, è l'ingresso del ristorante.


Questa che vedete è la caldaia a legna che alimenta il boiler dell'acqua dell'hammam. Un semplice intervento di isolamento termico delle pareti della caldaia ha permesso di risparmiare molta legna


Qui vedete l'impianto a pannelli solari sul tetto dell'Hammam, realizzato dal CDER. In estate, i pannelli sono sufficienti da soli per scaldare l'acqua e la caldaia può essere spenta. In primo piano, Jerzy Karlowski, ricercatore dell'IBMER (istituto per la meccanizzazione e l'elettrificazione dell'agricoltura) di Poznan, in Polonia. IBMER è uno dei partners del progetto RAMSES.



Il parco eolico di Amoghduil, vicino a Essaouria, sulla costa. Il Signore ha benedetto il Marocco con tanto vento e tanto sole. Qui, c'è un bellissimo parco eolico di 71 turbine Gamesa per un totale di 60 MW di potenza massima. Mi hanno detto che il parco viaggia alla massima potenza per il 48% del tempo. Allahu akbar!



Il Signore ha anche benedetto il Marocco con molta acqua che cade come pioggia sulle montagne dell'Atlante. Però, gli uomini non ne hanno saputo fare buon uso. Qui vedete montagne completamente erose, senza più un solo albero - probabilmente sono finiti nella caldaia di qualche hammam molti anni fa. Senza alberi come protezione, la pioggia ha dilavato il suolo fertile, lasciando questo paesaggio lunare. La lotta contro la deforestazione è un punto cruciale del futuro del Marocco e il lavoro che fa il CDER è essenziale.



Il deserto alle porte del Sahara, vicino a Ouarzazate. A differenza dell'erosione delle montagne dell'Atlante, questo deserto è sostanzialmente "naturale" e risale al cambiamento climatico dell'inizio dell'Olocene, circa 10,000 anni fa.



L'antica kasbah di Ouarzazate. Architettura adattata al clima locale, con i muri spessi e le finestre piccole, dentro (si può visitare) ci si sta che è una meraviglia anche senza aria condizionata.



Per finire, un bel tramonto sull'Atlantico, davanti a Essaouira.

lunedì, aprile 27, 2009

Dove seminare il “picco”

"Seminatore al tramonto" (Vincent Van Gogh, 1888)



created by Mirco Rossi



Sarà certamente capitato a molti ascoltare dibattiti su crisi, crescita, decrescita alla radio o alla televisione; talvolta essi sono affidati a personaggi improbabili il cui coinvolgimento risulta imperscrutabile in relazione agli argomenti da affrontare.
Altri confronti invece sono alimentati da paludati economisti, famosi opinion leaders, politici o sindacalisti di vaglia che discettano con cognizione di causa ma senza mai nemmeno sfiorare i concetti di prospettiva energetica e di “picco”.
Pil, mercato, lavoro, sicurezze, incremento della produzione e del reddito da un versante; dall’altro poveri e ricchi, lavorare meno, capitalismo alla fine, cambiare obiettivi e pensare alla felicità.
Ore e ore di confronti spesso tra buoni parlatori, credibili, che a molti ascoltatori possono chiarire qualche dubbio. Di certo però tutte queste discussioni inevitabilmente consolidano l’idea generale che la natura di una crisi può avere, a seconda dei casi, origine finanziaria, economica, sociale, politica o perfino etica, ma che non potrà mai essere legata dalla carenza di risorse.

Mi chiedo come mai personalità di tale peso, certo non degli sprovveduti, siano in grado di ignorare nelle loro considerazioni un punto fondamentale: le scelte possibili all’interno di una crisi non dipendono solo dalla volontà, dall’ideologia, dalle convinzioni, dalle regole economiche. Come prima e dopo, anche durante una crisi le scelte sono possibili unicamente nei limiti definiti dalla disponibilità di risorse primarie. Solo all’interno di questi limiti le altre variabili possono agire e con questa semplice verità devono misurarsi le possibili soluzioni, intese come reali e durature.
L’unica condizione assolutamente pregiudiziale non viene mai evocata.

In queste occasioni non mi è mai capitato di registrare la presenza di qualche illustre aspista, o simpatizzante; tuttavia non posso credere che né gli organizzatori né nessuno dei partecipanti “preparati” ed “esperti” abbia mai sentito parlare di limiti delle risorse, dell’esistenza di una scuola di pensiero che ritiene impossibile il continuo incremento della produzione e dei consumi.
Eppure avranno certo sentito parlare di “picco” da qualche parte! Hanno convinzioni diverse? Non ritengono credibile l’analisi? Hanno dimenticato che il legame essenziale tra risorse e sviluppo o crisi è ineludibile? Mah!
Episodi come questo mi confermano nella convinzione che la larga divulgazione di alcuni concetti fondamentali sui limiti dello sviluppo e sulle concrete prospettive energetiche sia vitale per il successo, pur parziale, della “mission” di Aspo.

Libri, conferenze, convegni, interviste, articoli, siti, link, ben vengano, ma la loro utilità si concretizza in un ambito limitato.
Alcuni di questi approcci intercettano, per un tempo discretamente lungo, un pubblico già sensibile e motivato; altri, per brevi momenti, un pubblico “distratto” e occasionale, in grado di recepire messaggi-slogan o poco più. Entrambe tipologie d’interlocutori che poco del messaggio di Aspo fanno poi pesare nel sistema di pensiero riferibile alla collettività larga, quella che produce il senso comune, la cultura di massa. Cioè quel “pensiero dominante” che in democrazia governa i processi politici e decisionali.
Esso si forma principalmente sulla base della cultura appresa nel ciclo scolastico; resta poi influenzato dall’azione autodidattica, dalle esperienze, dalle letture, ma soprattutto da gretti interessi personali, dalle notizie “alla Tozzi” o alla “Piero Angela”, dai dibattiti o dalle informazioni televisive brevi, concise, semplici, sensazionali.
Le pillole di cultura distribuite dai mass media se reiterate, ascoltate più volte in contesti convincenti, lasciano il segno. Non è detto che facciano male, anzi, ma in sostanza non incidono sulle nozioni di fondo, verniciandole di “sentito dire”, di un qualcosa che qualcuno ha detto e che potrebbe essere o accadere.
La pseudo-conoscenza che determinano è in balia di chi, affrontando lo stesso tema da posizione di oggettiva autorevolezza in altri campi, può facilmente smantellarla: per convinzione diversa o per “dimenticanza”, occasionale o voluta, è in grado di convincere o lasciar intendere che una certa cosa non esiste, non succederà mai, o se succederà sarà in un tempo indefinibile, fuori dalle prospettive concrete.
Trascurando la ristretta quota di esperti, studiosi, idealisti, persone politicamente e idealmente convinte o incentivate, la quasi totalità dei cittadini resta irraggiungibile o, nel migliore dei casi, superficialmente sfiorata dal messaggio che Aspo riesce a veicolare sui media o con le tradizionali iniziative.

La fase più adatta ad acquisire nozioni e concetti basilari si conferma quindi essere quella del periodo scolastico, ambito non esclusivo ma certamente privilegiato di formazione culturale. Ma luogo dove per esperienza diretta da molti anni verifico la completa ignoranza ed estraneità degli elementi e dei concetti indispensabili affinché una persona possa acquisire un minimo di consapevolezza e di motivazione sulla sostanza del messaggio di Aspo.
Questa “tabula rasa” (pressoché totale) la riscontro tra i ragazzi che frequentano gli ultimi due anni dei licei, degli istituti tecnici e più in generale di ogni tipo di scuola superiore. Solo per una piccola frazione di coloro che proseguiranno all’università si presenterà l’occasione di accedere a nozioni e che, pur elementari a volte, vengono trattate come segreti per iniziati.
Non casualmente pari condizioni le riscontro nella stragrande maggioranza degli insegnanti, compresi quelli di scienze naturali, di applicazioni tecniche, di biologia, ecc.
Negli ultimi dieci anni (durante i quali ho interloquito direttamente - di solito per qualche ora - con almeno trentamila studenti e qualche migliaio di insegnanti di scuole di secondo grado) non ho mai trovato nessuno capace di dare una definizione decente di “bilancio energetico” e che abbia la vaga idea della sua importanza, di cosa significhi LCA, del fatto che un’automobile nuova, quando fa bella mostra di sé nella vetrina del concessionario, abbia già consumato un quantitativo di petrolio (equivalente) pari a quello che consumerà nel percorrere i successivi 25-35.000 chilometri. Tanto meno di cosa significhi Aspo, “picco” e a quali conclusioni porti la teoria di Hubbert. Tutto questo condito da un elevato livello di confusione tra solare a concentrazione, termico, fotovoltaico, MW, GW, fonti primarie e secondarie o mettendo più o meno sullo stesso piano la capacità produttiva di una turbina eolica e quella di una termoelettrica standard.
Gli studenti sanno parecchio di più sul riscaldamento globale, sull’inquinamento, sui benefici del riciclaggio (questo, magari un po’ confusamente), sul cibo biologico, sui prodotti a chilometri zero, sulla biodiversità, sui ghiacciai che stanno scomparendo e sui mari che stanno per sommergere le Maldive.
Ma nulla di nulla sui quattro-cinque principali concetti-nozione, indispensabili per comprendere la situazione, la dinamica e le prospettive energetiche; per raggiungere un minimo di consapevolezza sull’insostenibilità di questo tipo di sviluppo; per rendersi conto che né il nucleare né le energie rinnovabili potranno in nessun caso garantire a lungo la sopravvivenza di questo tipo di società; per acquisire la consapevolezza che nei prossimi decenni dovranno misurarsi con una ristrutturazione-rivoluzione di cui nessuno è in grado di prevedere i contorni e la portata; per motivare sufficientemente un qualche cambiamento da subito dello stile di vita.

Queste sono le terre da dissodare; in questi luoghi dovrebbe poter entrare ASPO, in ogni istituto, in ogni aula, in ogni testo scolastico.
Non mi risulta esistano libri di testo che facciano cenno ai ragionamenti di ASPO, che presentino la sua chiave di lettura della realtà, sollecitino approfondimenti sulla prossima carenza degli approvvigionamenti energetici.
Le conseguenze sono evidenti e se di tanto in tanto una classe borbotta qualche parola su questo terreno è merito di un insegnante che, per scelte del tutto personali, ha voluto approfondire l’argomento, trasferendo qualche frammento ai propri alunni.
Qualche aspista si dedica già meritoriamente a questo il tipo di divulgazione, ma si è ben lontani dal realizzare collettivamente un battente perlomeno significativo.
Se questo tipo di iniziativa potesse essere adeguatamente sviluppata – e, ne sono consapevole, i problemi non mancano - potrebbe diventare decisiva per la costruzione, in tempi non storici, di una nuova cultura dell’energia e delle risorse: l’unica che può sostenere un approccio accettabile ai difficili tempi che ci aspettano.
Decisivo sarebbe poter inserire qualche pagina con i concetti a cui Aspo fa riferimento all’interno dei libri scolastici. Alcuni sono verità scientifiche indiscutibili (bilancio di energia, LCA, energia grigia, limiti fisici delle risorse) che la folle idea di uno sviluppo illimitato sta volutamente mantenendo fuori dai processi d’istruzione e formazione culturale. Altri, più discutibili, dimostrerebbero a studenti ed insegnanti l’esistenza di letture diverse della realtà e li spingerebbero a una visione critica dell’informazione e della cultura “ufficiale”.

So bene che il problema di diffondere consapevolezza è immane e va ben al di là delle già ardue difficoltà esistenti in ambito scolastico. Ma in questa direzione va fatto il massimo sforzo, mettendo in campo tutti gli strumenti possibili, perché se la scuola non viene adeguatamente coinvolta qualunque altra iniziativa di Aspo, pur restando opportuna e positiva, otterrà comunque un risultato complessivamente insufficiente.

venerdì, aprile 24, 2009

Rileggere Malthus

La tracimazione secondo Malthus

created by Luca Pardi



Anni fa, subito dopo essermi confrontato per la prima volta con l’angoscioso, ma intellettualmente stimolante, problema del picco del petrolio, tornai a leggere “i Limiti dello Sviluppo”.

Il famoso rapporto che il gruppo di dinamica dei sistemi del MIT aveva scritto per il Club di Roma, all’inizio degli anni settanta. Fu molto sorprendente scoprire che la massa delle critiche mosse a tale opera non fossero affatto supportate da considerazioni razionali, ma piuttosto dal desiderio di distruggere l’idea stessa dell’esistenza di limiti fisici alla crescita economica. Sulla leggenda degli errori del Club di Roma Ugo Bardi ha scritto due articoli scaricabili dal sito di ASPO-Italia [1] che rendono ragione al lavoro del gruppo di Donella Meadows ed al Club di Roma.
Una delle accuse rivolte al Club di Roma è quella di avere un’impostazione maltusiana, anzi di essere il capostipite della nuova ideologia neo-maltusiana. Le mie conoscenze della principale opera di Malthus: il "Saggio sui principi di popolazione" si basava allora, e fino a pochi giorni fa, alla lettura di brani antologici reperibili in rete. Deciso a lanciare l’idea di un “Malthus day”, sulla falsariga del “Darwin day”, con il fine di propugnare una “maggiore” attenzione al problema della sovrappopolazione umana del pianeta, mi sono affrettato a scusarmi per la scelta di un personaggio tanto controverso, argomentando che ciò che contava nella scelta non era l’intero apparato teorico filosofico del nostro, ma il fatto che Malthus era stato il primo a sollevare il problema del rapporto fra crescita demografica e disponibilità delle risorse terrestri, influenzando, con questa fondamentale scoperta, economisti, ecologi e più in generale naturalisti, certo non ultimo fra questi ultimi Charles Darwin.[2]
Poi ho deciso di tornare alla fonte, ho letto il Saggio. [3] Non si può certo dire che non sia datato. Fu pubblicato nel 1798 all’indomani della fase più violenta della Rivoluzione Francese. E’ in parte un pamphlet polemico basato sull’attualità di allora e il primo obbiettivo della polemica sono i progressisti, cioè coloro che pensavano possibile una continua perfettibilità della società umana e perfino dell’uomo, fino a pensare, con l’anarchico Godwin, un raggiungimento dell’immortalità in terra. Non è propriamente un testo di demografia, ma piuttosto un testo di filosofia sociale. Vi sono molte parti che appaiono l’espressione di un conservatorismo da ancien regime e opinioni sul rapporto uomo-donna che oggi appaiono inaccettabili. Ma tenuto conto dei due secoli di modernità trascorsi da allora, viste le non brillantissime vicende delle rivoluzioni e delle restaurazioni dei secoli diciannovesimo e ventesimo, mi sento di associare Malthus al destino delle Cassandre che hanno ragione, ma vengono maledette per il solo fatto di indicare un problema vero.
Il problema vero, allora come oggi, non è solo l’organizzazione della società, ma la prolificità umana che ha portato questo straordinario primate a popolare ogni possibile nicchia ecologica a partire dalla culla di origine. L’organizzazione della società umana è certamente importante per il modo in cui le emergenze della sovrappopolazione vengono affrontate. Ma non è da ricercare nella struttura socioeconomica la causa dell’exploit ecologico di Homo Sapiens dalla condizione di “Scimmia nuda” a dominatore assoluto del pianeta. Il successo di Homo Sapiens è stato continuo e graduale per millenni. La crescita della popolazione umana è stata lenta e costante con pochissime inversioni, come quella corrispondente ai decenni della peste nera intorno alla metà del XIV secolo, con un tasso di crescita inferiore allo 0,1 %. L’intera storia biologica umana fino al 1800 circa è stata necessaria per raggiungere una popolazione di 1 miliardo di individui. Poi la crescita ha preso il ritmo vertiginoso che tutti conosciamo, ma che non tutti riconoscono come problema, e solo dopo gli anni 80’ il tasso globale ha iniziato lentamente a declinare restando comunque positivo, fatto che assicura una crescita della popolazione globale di 75 milioni di individui ogni anno.
Nei millenni precedenti all’era industriale, la specie viveva con il solo apporto dell’energia solare: quella accumulata nel cibo e nel legno, l’energia idraulica dei corsi d’acqua sfruttata nei mulini, o quella del vento sfruttata nei mulini a vento o con le vele per la navigazione, e infine l’energia animale che dipendeva comunque dall’energia del sole per il mantenimento. In queste condizioni ogni tendenza alla crescita di una popolazione oltre il limite di ricostituzione delle risorse rinnovabili sfruttate nell’ecosistema, cioè quello che si definisce superamento della capacità di carico dell’ecosistema, veniva regolata dalla carestia e dalle malattie. Le guerre potevano essere un effetto della scarsità e causare a loro volta, in un classico ciclo retroazione positiva, ancora più carestie e malattie.
Nel suo Saggio Malthus si confrontava con questa realtà ineluttabile proprio nel momento in cui l’uomo stava scoprendo, con il carbone prima e con petrolio e gas successivamente, una riserva di energia solare accumulata in milioni di anni, estremamente vantaggiosa e immediatamente disponibile. Nei due secoli che seguirono la pubblicazione del Saggio l’uso di questa riserva di energia ha moltiplicato la capacità di carico del pianeta, permettendo l’osservato aumento esponenziale della popolazione umana. E, incidentalmente, smentendo Malthus.
E’ indubbio che la scoperta dei combustibili fossili abbia molti risvolti positivi, essa ha infatti permesso uno straordinario balzo scientifico e tecnologico all’umanità. Ma non ha né eliminato, né attenuato la fame, la miseria e le ingiustizie. Ha spostato gran parte della miseria, o almeno la sua parte più insopportabile, dai suburbi industriali dell’Europa dell’800, alle favelas e alle bidonville del terzo e quarto mondo.
Malthus non ha avuto torto, è stato semplicemente temporaneamente smentito. Rileggere oggi Malthus significa misurarsi con il problema del limite fisico del pianeta e riconoscere che, al di là delle critiche giuste e ingiuste, il suo nome è per sempre legato al riconoscimento del problema creato dalla crescita della popolazione umana in rapporto alle risorse della terra.
Cosa è cambiato oggi a due secoli dal Saggio? Una cosa fondamentale è cambiata, esiste un insieme di tecnologie molto semplici e perciò facili da usare, i metodi anticoncezionali, che messi a disposizione della popolazione femminile insieme agli strumenti culturali per usarli, la cosiddetta educazione alla salute sessuale e riproduttiva, potrebbero rapidamente far convergere il numero di nati per donna ad un livello (diciamo, temporaneamente leggermente al di sotto del valore di rimpiazzo di 2 figli per donna) tale da iniziare la lenta marcia di rientro dolce della popolazione entro limiti sostenibili. Tale marcia non sarebbe, come molti dicono, una iattura, ma una delle poche cose sensate da promuovere con urgenza.
La promessa di una futura transizione demografica delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo, come quella osservata in tutti i paesi della vecchia Europa, appare come una delle tante leggende contemporanee. Sappiamo bene che se la popolazione continuerà a crescere non ci sarà alcuna possibilità di sviluppo per nessuno, ma solo un collasso catastrofico. D’altra parte il temuto invecchiamento delle società appare come una benedizione in una fase storica nella quale la tipica aggressività giovanile, adatta alle fasi di colonizzazione, deve lasciar spazio alla saggezza e alla collaborazione, senza le quali i tempi duri che verranno saranno tempi di guerra.
L’obbiezione secondo cui non si possa contrastare lo slancio riproduttivo è infine quella più facile da smentire come ha fatto Robert Engelman nel suo libro More [4]. La realtà infatti dimostra che, quasi ovunque nel mondo, le donne conoscono le potenzialità dei metodi anticoncezionali e sono desiderose di poterli utilizzare non per non fare più figli, ma per avere un controllo sulla propria fertilità. Un diritto per il quale varrebbe la pena di combattere a prescindere dai suoi benefici effetti ecologici.
La sorpresa di scoprire che Malthus aveva molte più ragioni che torti è stata un altro colpo alle certezze accumulate nel corso della mia educazione. Non si deve mai essere troppo convinti di quello che si pensa, perché spesso non si pensa con il proprio cervello anche quando siamo convinti di farlo.


[1] Ugo Bardi, La maledizione di Cassandra, giugno 2005, http://www.aspoitalia.it/archivio-articoli/35-cassandra e L’effetto Necronomicon e i Limiti dello sviluppo. Ottobre 2005. http://www.aspoitalia.it/archivio-articoli/60-quelli-che-gli-dei-vogliono-distruggere-prima-li-fanno-impazzire.

[2] Luca Pardi, Perché un Malthus day? Febbraio 2009.
http://malthusday.blogspot.com/2009/02/perche-un-malthus-day.html

[3] T. R. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, Piccola Biblioteca Einaudi Testi, Giulio Einaudi Ed. 1977, Torino.

[4] Robert Engelman, More: Population, Nature and what women want
http://www.worldwatch.org/node/5636.

mercoledì, aprile 22, 2009

Se fa qua-qua come un'anatra, allora probabilmente è il picco

Produzione di petrolio mondiale come somma dei petroli convenzionali e non convenzionali ("tutti i liquidi"). Dati da Rembrandt Koppelaar, the oil drum.



Gli americani hanno un detto che fa, più o meno, "if it quacks like a duck, it walks like a duck, and it swims like a duck, then it is probably a duck". Ovvero, "se fa qua-qua come un'anatra, cammina come un'anatra e nuota come un anatra, allora probabilmente è un'anatra." Questo viene il "duck test" e implica che alle volte le cose sono veramente quello che appaiono senza bisogno di farci sopra troppe teorie strane.

Applicato al picco del petrolio, il duck test ci dice che se appare come un picco, al tempo previsto per il picco, e per le quantità previste per il picco, allora è probabilmente, davvero, "il picco"

Ovvero, quello che stiamo vedendo oggi sembrerebbe davvero quel famoso "peak oil" che ASPO prevedeva da ormai parecchi anni per un periodo fra il 2005 al 2010 e che, dai dati disponibili, sembrerebbe essersi verificato realmente per il 2008 per "tutti i liquidi", ovvero per la somma della produzione del petrolio convenzionale con tutte le robacce (tar sands, heavy oil, ecc.) dalle quali si possono comunque tirar fuori liquidi combustibili.

Come per tutte le cose, in ogni caso, ci vuole sempre cautela. Se qualcosa fa qua-qua come un'anatra, non è detto che sia per forza un'anatra. Potrebbe essere un ornitorinco scappato dallo zoo, oppure un disoccupato che fa l'imitazione dell'anatra in piazza per raccogliere qualche centesimo. In effetti, i dati disponibili indicano che - potenzialmente - l'industria petrolifera mondiale potrebbe arrivare a produrre fino a 90 milioni di barili al giorno di liquidi, e quindi il picco "vero" potrebbe essere spostato di qualche anno più avanti (*).

Su questo punto, mi limito a ribadire che il concetto di "picco" non dipende unicamente dalle capacità produttive dell'industria, ma anche dal gioco fra la domanda e l'offerta. In un momento di crisi come l'attuale, l'industria non ha molto interesse a investire in nuove capacità produttive. Quindi, tutto si gioca una possibile ripresa dell'economia mondiale nei prossimi mesi. Se ci sarà davvero questa ripresa, i prezzi del petrolio schizzeranno di nuovo in alto e può darsi che la produzione ne venga stimolata a sufficienza per rimbalzare verso livelli anche oltre gli attuali. Su questo punto, mi permetto di essere molto scettico. A mio parere, se la ripresa ci sarà, sarà uccisa sul nascere dai conseguenti aumenti dei prezzi delle materie prime.

Comunque vada, su un punto non possiamo che essere tutti daccordo: la produzione di petrolio non aumenta più in modo significativo dal 2005 e questo vuol dire qualcosa!

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(*) Sul fatto di arrivare a 90 milioni di barili ho fatto una scommessa di un euro con Massimo Nicolazzi. Lui sostiene che ci arriveremo, io no. Fra un annetto vediamo chi vince la posta, che a quel momento credo che varrà circa cinquantamila nuove lire.

lunedì, aprile 20, 2009

Peak summit ad Alcatraz


La "libera università di Alcatraz", vicino a Perugia, dove vedete un tipo strambo impegnato in un curioso esperimento con un bicchiere.


Vi è mai venuta voglia di conoscere personalmente le persone che stanno dietro il lavoro di ASPO (association for the study of peak oil) e di TOD (The Oil Drum)? Magari vi è anche venuto in mente di andarli a sentire a qualcuna delle conferenze internazionali a cui partecipano, ma il costo vi ha scoraggiato, come pure il "peso" di giornate intere di conferenze.

Bene, dopo aver partecipato a un paio di conferenze decisamente peanti e noiose, io (Ugo Bardi) Rembrandt Koppelaar e un altro paio di persone di ASPO e di TOD abbiamo pensato che ci vuole qualcosa di nuovo e di diverso: una riunione "leggera", informale e a basso costo in un ambiente splendido (Alcatraz, vicino a Perugia) dove alcuni dei membri di ASPO internazionale e di TOD si riuniranno per una serie di scambi di idee secondo il formato di libera discussione del "bar camp". Non ci sono distinzioni rigide fra oratori e partecipanti, tutti hanno la possibilità di dire la loro e di interagire sugli argomenti di cui ci interessiamo: risorse, economia e ambiente.

Solo ad Alcatraz, in due giorni di fuoco e fiamme dal 26 al 28 Giugno, potete incontrare e scambiare idee con creature mitiche, come Nate Hagens ("Le tigri petrolifere dai denti a sciabola"), Rembrandt Koppelaar ("oilwatch monthly"), Euan Mearns ("il picco del gas"), Gail Tilverberg ("the actuary of the oil drum"), Toufic el Asmar ("l'uomo del RAMSES"), Antonio Zecca ("il distruttore dei negazionisti climatici") e molti altri che non sto a nominare ma che sono tutti persone eccezionali e piene di nuove idee.

Ci sono ancora posti disponibili ad Alcatraz, ma il limite di accoglienza è di 50 persone e siamo già vicini. Se vi interessa, fate ancora in tempo a iscrivervi scrivendo a Ugo Bardi oppure a Rembrandt Koppelaar (contact at peakoil.nl). Potete consultare anche questo post su TOD. Riceverete i dettagli e un modulo di iscrizione.

Per partecipare al convegno, si pagano soltanto i costi di vitto e alloggio, più un piccolo contributo di soli 10 Euro per l'organizzazione. Il totale viene 199 Euro in tutto. Ah... il tutto è rigorosamente in Inglese per ovvi motivi.


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Su questa idea della conferenza "leggera" devo ringraziare Carlo Stagnaro e Massimo Nicolazzi che mi hanno guarito dall'idea che i convegni devono essere per forza noiosi facendomi partecipare a "Vedro'" l'anno scorso.


sabato, aprile 18, 2009

Teutoburgo: la fine di un impero


Quest'anno ricorre il secondo millenario della battaglia di Teutoburgo che segnò la fine dell'espansione dell'Impero Romano nell'Europa dell'Est. Sia pure remota nel tempo, questa antica battaglia è interessante per noi per certi paralleli evidenti con il nostro tempo e anche per capire come i nostri antenati percepivano il raggiungimento del "picco" di una società che aveva basato la sua economia sull'espansione militare.


Duemila anni fa, nell'anno 9 a.d., la sconfitta di Teutoburgo fu, in un certo senso, il picco di una civiltà che aveva basato la sua prosperità sulle guerre di conquista. Già circa mezzo secolo prima, nel 53 a.c., l'Impero Romano aveva subito una tremenda battuta di arresto a Carrhae, in Asia Minore. Fu una sconfitta che mise la parola fine al sogno di espandersi nelle ricche terre asiatiche, come aveva fatto Alessandro Magno qualche secolo prima.

Ma, anche dopo Carrhae, l'Impero Romano rimaneva un'immensa macchina militare sempre alla ricerca di nuove terre da conquistare. In Europa, dopo la Spagna e la Gallia, l'obbiettivo che rimaneva era la Germania: terra vasta e scarsamente abitata; apparentemente un bersaglio facile. Così, al tempo di Cesare Augusto, tre legioni romane sotto il comando di Publio Quintilio Varo varcarono il confine dell'impero addentrandosi in Germania. Fu un disastro militare inaspettato. Impreparate a combattere un nemico che usava tattiche che oggi chiameremmo di guerriglia, le tre legioni furono massacrate fino all'ultimo uomo in una feroce battaglia nei boschi di Teutoburgo.

Teutoburgo fu molto di più di una semplice sconfitta militare. Fu la dimostrazione della debolezza intrinseca dell'Impero Romano. Anche le guerre di conquista hanno una loro resa economica: il rapporto fra quello che si ottiene con il saccheggio e quello che costa la guerra. Fino ad allora, l'impero si era arricchito conquistando terre ricche e relativamente deboli dal punto di vista militare. Ma in Germania la situazione era cambiata: c'era poco da saccheggiare in un paese dove non c'erano città degne di nota. In più, i Germani erano combattenti feroci e determinati e il costo di una invasione militare era in ogni caso molto alto. Anche se la battaglia di Teutoburgo fosse andata in un altro modo, conquistare la Germania era impossibile per i Romani. Semplicemente mancavano loro le risorse economiche necessarie.

Questa impossibilità di conquistare la Germania si sarebbe vista qualche anno dopo Teutoburgo, quando i Romani invasero di nuovo la Germania, questa volta ottenendo una serie di vittorie. Ma i Romani non riuscirono a sottomettere la Germania e nemmeno ad attestarsi stabilmente al di là del fiume Reno. Queste vittorie furono del tutto inutili, anzi, furono uno spreco di risorse preziose per un Impero in chiare difficoltà economiche. In effetti, si potrebbe sostenere che i Germani a Teutoburgo abbiano fatto un piacere ai Romani, liberandoli di tre legioni ormai del tutto inutili ma che comunque andavano nutrite, equipaggiate e stipendiate.

Ma non fu certamente così che i Romani videro la sconfitta di Teutoburgo. Fu uno shock durissimo. A Carrhae, Roma si era scontrata con un altro impero di pari portata e simili ambizioni - la sconfitta si poteva ancora interpretare come un incidente di percorso. Ma che tre legioni Romane fossero state annientate a Teutoburgo da dei selvaggi primitivi era una cosa impensabile; un rivolgimento totale di tutti paradigmi accettati fino ad allora. Tale fu l'impressione che ne nacque la leggenda di Cesare Augusto che, nella notte, vagava per il suo palazzo mormorando "Varo, Varo, rendimi le mie legioni." Dione Cassio (155 –ca. 229) ci racconta che:

Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l'Italia e la stessa Roma. Dato che non c'erano cittadini in età militare rimasti in numero importante e le forze alleate che contavano avevano molto sofferto.

Tuttavia, inizio dei preparativi al meglio possibile viste le circostanze, e quando nessuno in età militare si mostrò pronto a prendere le armi, li costrinse a tirare a sorte, arruolando un uomo ogni cinque di quelli sotto i 35 anni e uno ogni dieci di quelli che avevano passato quell'età. Infine, dato che molti non gli davano retta, ne mise a morte alcuni ... Siccome a Roma vi era un numero elevato di Galli e Germani, alcuni di loro nella Guardia Pretoriana e altri che ci vivevano per varie ragioni, temette che potessero insorgere. Perciò cacciò via in certe isole quelli che erano nella sua guardia personale e ordinò a quelli che non portavano armi di lasciare la città.

In queste poche righe, troviamo una descrizione impressionante di un momento di caos e di smarrimento. Roma cercava di reagire sul piano militare alla disfatta, ma cadeva anche preda di un momento di xenofobia con la cacciata dei Galli e dei Germani. E' una cosa del tutto atipica dell'antico impero che, per quasi tutta la sua storia, fu tollerante e aperto a tutti.

Dopo Teutoburgo, l'Impero Romano non aveva ancora del tutto esaurito la sua spinta militare e riuscì ancora ad espandersi in Britannia e - molto più tardi - nella Dacia. Ma un'epoca era finita per sempre: l'impero non riusciva più ad ottenere dalla guerra risorse sufficienti per lanciarsi in sempre nuove conquiste. Iniziava la fase in cui Roma cominciava a chiudersi entro i limes: grandi fortificazioni che dovevano metterlo al riparo dalle invasioni barbariche. L'impero non si vedeva più come un predatore ma come una preda. Si metteva da solo dentro una gabbia dalla quale non sarebbe mai più riuscito a uscire.

La fase che ne seguì fu, in un certo senso, un crepuscolo dorato. Relativamente al sicuro entro la cinta delle fortificazioni, l'Impero viveva un periodo di relativa pace e prosperità sotto la dinastia degli Antonini. I Romani abbandonarono anche la fase di xenofobia di cui ci parla Dione Cassio. Ma il destino dell'impero era comunque segnato: con il graduale esaurimento delle risorse accumulate nella sua fase di espansione, a lungo andare l'Impero doveva sparire.

Il collasso degli imperi segue delle linee che sono comuni a tutti i casi storici che conosciamo. Così, la storia dell'Impero Romano ci può servire - con cautela - come uno specchio in cui vedere qualcosa del nostro futuro. Gli imperi collassano per l'esaurimento delle risorse che li sostengono; per i Romani erano le conquiste militari, per noi sono le risorse minerali. In entrambi i casi, l'esaurimento era ed è inevitabile e, di conseguenza, il collasso. La reazione dei Romani alla sconfitta di Teutoburgo ci ricorda molto la nostra situazione odierna. Sia oggi come allora, si cerca di reagire alle difficoltà incrementando gli sforzi, ma sempre nella stessa direzione; senza riuscire a capire le vere ragioni delle crisi. Per i Romani, il problema era solo militare e cercavano di risolverlo usando le risorse rimaste per costruire possenti fortificazioni. Per noi, il problema è l'esaurimento delle risorse minerali e cerchiamo di risolverlo usando le risorse rimaste scavando più in fondo e sempre più lontano.

Le società umane non riescono quasi mai a rendersi conto della necessità di cambiare. Tendono, anzi, a sprecare energie preziose prendendosela con il primo capro espiatorio che capita sotto mano. Così, la cacciata dei Galli e dei Germani da Roma dopo la battaglia di Teutoburgo ricorda molto l'ondata di xenofobia che vediamo oggi. I Romani superarono questa fase e, forse, toccherà anche a noi un crepuscolo dorato paragonabile all'era degli Antonini. Ma il collasso delle strutture che conosciamo è inevitabile. Il mondo cambia sempre e, se il nuovo deve arrivare, qualcosa di vecchio deve sparire. Sic transit gloria mundi.

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Altri post che ho scritto sull'Impero Romano sono "Il picco dell'Impero Romano", come pure "Delle Cose della Guerra"

venerdì, aprile 17, 2009

La follia della combustione

Il fornello del gas: uno scorcio di quotidianità. Accenderlo, è uno dei primi gesti rituali del mattino mentre la mente, magari, è già attiva su quello che si farà sul lavoro un'ora dopo.

La mia famiglia, composta attualmente da 2 persone, brucia spannometricamente circa 90 m3 di gas naturale all'anno per i soli scopi culinari. Altri 300 m3 vanno in fumo per l'acqua calda sanitaria. Infine, ulteriori 1000 servono per il riscaldamento.

La cosa può sembrare banale, ma non lo è affatto. Il metano, negli spot di qualche tempo fa, "dava una mano". La frase non è sbagliata, solo incompleta: dà una mano finquando "ce n'è".

Le proiezioni sui prossimi mesi danno costo del metano in discesa di qualche punto percentuale; qualcuno si rallegrerà, peccato che l'aumento negli ultimi 2 anni sia stato molto più significativo.

Ma non voglio fossilizzarmi sul prezzo. Non che sia inutile, per carità. Anzi, il prezzo è sempre stato un indicatore di fatti più profondi. Non molto ricco di informazione, ma pur sempre meglio di niente. Tuttavia, seguire in modo esclusivo le fluttuazioni del prezzo di una risorsa fossile senza preoccuparsi minimamente della problematica della futura scarsità, è un po' come fare decine di radiografie a una gamba rotta per descrivere la frattura, senza aver fatto nulla per prevenire l'incidente.

Nulla vieterà tra 2 anni di vedere scendere il gas naturale da 0,85 a 0,60 €/m3; e se tra 5-7 anni, per contro, arrivasse a 4 €/m3 ? Quanti potrebbero continuare a scaldarsi in modo decente? E se il prezzo fosse artificiosamente mantenuto costante nei decenni, ci saranno per caso delle zone geografiche penalizzate dal punto di vista dei diritti umani? Mah, chissà.

Il punto non è il prezzo. Il punto è che siamo di fronte a una risorsa fossile, nè più ne meno del petrolio. Il gas naturale è un patrimonio insostituibile e attualmente non rinnovabile. In realtà può essere ottenuto come biogas sfruttando allevamenti bovini e suini, ma con un'efficienza e una capacità di copertura che è ordini di grandezza inferiore all'output dei reservoir russi, africani e canadesi; il concetto di "stoccaggio" chimico dell'energia rinnovabile è piuttosto lontano dalla maturità.

Bruciare a scopo di riscaldamento un gas che è vitale per l'industria degli intermedi chimici è una cosa estremamente pericolosa, che ci trascinerà in orbite di instabilità geopolitica. Non si può cambiare dall'oggi al domani, tutti e contemporaneamente, ma se già ce ne rendiamo conto abbiamo la possibilità di fermare progressivamente l'emorragia, razionalizzando i consumi con tecnologie più efficienti (come le caldaie a condensazione) e integrando, per quanto possibile, con contributi rinnovabili. In attesa del grande salto.



PS Il lunedì di "Pasquetta" (ma questo nome chi l'ha inventato?!) siamo riusciti a cucinare per 9 persone utilizzando quasi esclusivamente la cucina solare (bollitura dell'acqua e riscaldamento antipasti in teglia), con minima integrazione a stufa a legna (3 kg circa di legno secco) per riscaldamento contemporaneo di ulteriori recipienti, che sarebbe servita comunque per scaldare la stanza; con il surplus di acqua calda abbiamo lavato i piatti. Le 2 bombole di GPL che ho se ne sono restate lì intonse, e sono pronte a intervenire, ma solo in mancanza di alternative :-)

giovedì, aprile 16, 2009

Nessuno più si fida di nessuno

La diffusione di notizie via internet sta diventando una cosa troppo complicata e difficile da gestire e da comprendere per la maggior parte di noi. Siamo arrivati in una situazione in cui nessuno più si fida di nessuno è il complottismo dilaga incontrollato.


Vi passo qui di seguito un bel "rant" (sfogo) di Michael Tobis, climatologo che gestisce il blog "Only in for the gold". Il titolo si riferisce all'accusa che gli hanno fatto di occuparsi di clima "per i soldi". E' un bel blog ricco di informazioni e di approfondimenti. Se masticate bene l'inglese, vi suggerisco di seguirlo.

Qui vi passo una sezione del testo in cui Michael Tobis centra benissimo il problema di comunicazione che ci troviamo davanti: con l'ingresso di internet, non abbiamo più punti di riferimento e la maggior parte di noi non ha i "filtri" che sarebbero necessari per eliminare il rumore. Se avete tempo, leggetevi tutto il post.
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Verso un giornalismo scientifico sostenibile per un mondo sostenibile.
Di Michael Tobis

Prima dell'internet, chiunque poteva dire qualsiasi cosa, ma nessuno poteva trovare chi lo ascoltava. In Inghilterra, si manteneva la tradizione degli oratori che parlavano stando in piedi su delle scatole di sapone, immagino, ma dubito che chiunque possa oggi ottenere un'udienza in quel modo. L'azione, per almeno un secolo, è stata tutta nelle mani dei mass media. Di conseguenza, per il periodo di vita di quelli che vivono oggi e fino a pochi mesi fa, erano gli interessi monetari a decidere chi poteva parlare e chi doveva stare zitto.

Questo si è interrotto parzialmente nel periodo dal 1966 al 1974, il breve periodo chiamato a volte "gli anni 60" in cui i radicali capivano i media meglio di quelli che li gestivano. Rapidamente, tutto quello che c'era di interessante su quel periodo, è stato sterilizzato, offuscato, e doverosamente dimenticato da tutti quelli che non hanno avuto il privilegio di diventare adulti in quel periodo.

Il controllo dell'input intellettuale è completamente a pezzi, oggi. Non c'è governo dell'internet. E' il dominio della folla, come potrete notare istantaneamente se fate una ricerca con Google di "consenso sul global warming". Le corporazioni controllano una sezione dell'economia più grande di ogni altro periodo - anche i baristi (quelli che fanno il caffé) si commerciano in pubblico. Ma hanno perso il controllo dei media in un modo che fa sembrare la rivoluzione degli anni '60 come una goliardata (che, in un certo senso, è stato se ci pensate un attimo)

Il controllo delle corporazioni sulla "finestra di Overton" (n.d.t. un concetto che descrive che cosa è ammissibile discutere pubblicamente e fornisce metodi per rendere accettabili opinioni prima giudicate troppo estreme) (grazie a Eli per avermi insegnato il concetto) si stava già indebolendo prima che il disastro dell'AIG (n.d.t. La AIG è una compagnia multinazionale di assicurazioni andata in bancarotta nel 2008) provò quello che molti di noi avevano sempre sospettato a proposito dei vari Phil Gramm al mondo (n.d.t. Gramm è un politico americano accusato di aver prodotto una legislazione che ha favorito il crollo del mercato finanziario del 2008). Adesso non c'è più speranza. Abbiamo libertà di parola, ma non ha molta importanza dato che nessuno più si fida di nessuno.

Queste sono notizie altrettanto molto buone che molto cattive. La libertà di espressione è la buona notizia. Se avete qualcosa di interessante da dire, potete trovare un'udienza che la troverà interessante. Oggi, c'è molta roba interessante da leggere.

Sfortunatamente, abbiamo anche cattive notizie. Le bugie costano meno della verità; vaghe allusioni costano meno di un'analisi bilanciata e costa meno inventarsi qualcosa che fare un'analisi basata su interviste e investigazioni. In breve, il rumore domina sul segnale. Così come sono messe le cose, la maggior parte della gente non ha filtri efficaci.

Una funzione importante che una volta era fornita dalle corporazioni, e prima di loro dalla cultura e dalla chiesa, era di dare un senso di cosa era ragionevole e di cosa era folle, che cosa ere degno di una conversazione educata e di cosa si poteva certificare. Via via che perdiamo questa conoscenza imposta di cosa è appropriato, abbiamo un bisogno disperato di filtri, di meccanismi affidabili per connettere quelli che hanno perso la fiducia in tutte le istituzioni e le persone che veramente vogliono fare qualcosa di buono e che sanno di cosa c**** stanno parlando.

Testo originale

Before the internet, anybody could say anything, but nobody could get anybody to listen. The Brits maintained their soapbox tradition in Hyde Park, I imagine, but I doubt anybody gathers much of an audience that way anymore. The action, for almost a century now, has been in the mass media. Consequently, for the lifetime of everybody living and until just a few months ago, it was the moneyed interests who decided who would speak and who would be silent.

This broke down a bit in the period of 1966-1974, often called "the sixties", a brief period when radicals understood media better than the people who owned them. Soon enough everything interesting about that period was sanitized, obfuscated and duly forgotten by everybody who wasn't privileged to come of age exactly at that moment.

Control of intellectual input by the corporate sector is totally shattered now.
There is no governance on the internet. It's totally mob rule, as a Google search on "global warming consensus" will instantly reveal. The corporations run a bigger chunk of the economy than ever; even our barristas are publicly traded. But they have lost control of the media in a way that makes the revolution of the sixties look like a fraternity prank. (Which, in a way, it was, come to think of it.)

The corporate control of the Overton window (thanks to Eli for teaching me the concept) was already weakening before the great AIG screwup proved what many of us had always suspected about the Phil Gramms of the world. Now it's hopeless.
Speech is uncontrolled but it doesn't matter very much, because nobody trusts anybody anymore.
This is both very good news and very bad news. Freedom is the good news. If you have something interesting to say, you can find the audience to whom it is interesting. There is much more interesting stuff to read nowadays.

Unfortunately, we also have the bad news. Lies are cheaper than truth, vague misgivings cheaper than balanced analyses, and wild-ass guesses cheaper than interview and investigation. In short, noise dominates signal. As things stand, most people lack effective filters.
An important function that the corporations used to provide for us, and before that the culture and the churches, was to provide a sense of what was reasonable and what was outlandish, what was worthy of polite conversation and what was certifiable. As we lose this imposed sense of propriety, we are in desperate need of filters, of reliable mechanisms to connect the people who have lost faith in every institution to the people who really do mean well and really do know what the f*** they are talking about.

mercoledì, aprile 15, 2009

Spigolature: linkoteca di ASPO - Italia




Il clima bilanciato

created by Maurizio Tron



«Guadiamo il torrente e risaliamo la ripidissima morena dietro il bivacco. Superatala faticosamente ci troviamo davanti ad un poetico pianoro di ghiaia solcato da tanti rii. Del ghiacciaio di Gay nemmeno l'ombra. Poi comincia il bello. Al posto del ghiacciaio, del quale resistono solo poche lenti di ghiaccio nerastro, c'è un'immensa distesa di pietre, terriccio, macigni enormi che si muovono appena li sfiori. Dello scivolo che saliva al colle di Gran Crou non rimane niente. Solo sassi e una parete in sfacelo. La salita si fa faticosissima. In qualche modo, tra rocce montonate e pietre che scivolano via sotto i nostri piedi, arriviamo a quella che pensavo fosse la lingua terminale del ghiacciaio di Gay, che ci accoglie con una bella scarica di sassi (alle 7 del mattino …). Mettiamo i ramponi, ma mordono ben poco su questo ghiaccio vecchio e duro come il marmo. Questo tratto ci impegna fisicamente e psicologicamente, anche il tratto nevoso è durissimo e i ramponi fanno fatica a mordere. Quindi la sorpresa. Ancora pietraie, ancora immondi sassi, ancora terreno schifoso. Togliamo di nuovo i ramponi, attraversiamo gli sfasciumi, li rimettiamo sul pezzo di ghiacciaio che una volta risaliva fin sulla vetta della Testa di Gran Crou. Rimane una gobba di ghiaccio nero, con qualche crepaccio, duro anche questo come il vetro. Del canalone nevoso del colle di Valnontey nessuna traccia, solo una lingua che deborda dalla valle di Cogne. Il colle di Noaschetta, segnato come di accesso banale su ghiacciaio su libri di appena 10-15 anni fa, è impraticabile. Una parete in sfacelo ne impedisce l'accesso. Il primo tratto del canalone è estenuante e pericoloso. Pietre instabili di tutte le dimensioni, pendenza 35°, si muove tutto ad ogni passo. A metà Alex e Beppe si stufano, risalgono direttamente la parete sud della Testa di Valnontey. A me non ispira, proseguo nel canalone che si appiattisce e dove le pietre diventano più stabili. Della cresta nevosa ne rimane ben poco, fino all'anticima riusciamo ad evitarla. Un ultimo tratto di neve e siamo sulla vetta, finalmente. Che spettacolo. Tutta la Valnontey sotto di noi, il Ghiacciaio della Tribolazione, il Gran Paradiso con ciò che resta della parete est. Che desolazione sti ghiacciai. Da quando sognavo di essere quassù, quasi 17 anni fa, è cambiato tutto. Le montagne sono irriconoscibili. E questa gita mi ha portato anche a riflettere. Possiamo buttare tutte le relazioni che hanno più di 5 anni. La montagna è cambiata, al posto dei ghiacciai rimangono in molti posti solo schifose pietraie. Comunque il dente me lo son tolto. Anche di questa gita serberò ricordi, emozioni e fatiche indimenticabili. Fa parte dell'andare in montagna. La Testa della Tribolazione: un nome, un programma.... »
Il brano precedente è opera di Roberto Maruzzo (del quale consiglio vivamente il bellissimo sito), membro della Società Meteorologica Italiana, e descrive compiutamente il senso di sconcerto che i fruitori abituali della montagna d’alta quota provano ormai da diversi anni. I cammini consueti di salita risultano sempre più difficili, pericolosi, penosi, di fatto spesso impercorribili, e la situazione si fa di anno in anno peggiore. Chiedersi il perché è doveroso, ma è altrettanto importante cercare soluzioni per ovviarvi almeno in parte o, in alternativa, adattarsi ai cambiamenti in atto.

La situazione mostrata è conseguenza, come tutti sanno o dovrebbero conoscere, dei cambiamenti climatici. La quantità di gas serra, di per sé necessari al mantenimento di una temperatura su questo pianeta ideale per la vita, sta aumentando in concentrazione, producendo un surriscaldamento del pianeta, che dalla Rivoluzione Industriale in poi non ha conosciuto soste, vedi figura 1, dalla quale si evince che la concentrazione di biossido di carbonio sta crescendo esponenzialmente.




Fig. 1



Quel che spesso viene taciuto o minimizzato è che la causa scatenante dell’aumento di tali gas è imputabile, oltre che parzialmente a cause naturali, anche all’uomo e alle sue attività; la figura 2, tratta da questo link, fornisce una spiegazione attraverso il confronto fra temperatura osservata e temperatura calcolata dai modelli climatici, tenendo o meno in conto gli effetti della presenza dell’uomo.




Fig. 2



È altresì noto che la concentrazione dei gas serra, come ad esempio il già citato biossido di carbonio e il metano, varia di pari passo con la temperatura del nostro pianeta, vedi fig. 3; se si osserva con attenzione il grafico, tratto dallo studio dei carotaggi effettuati nella crosta di ghiaccio dell’Antartide, stazione di Vostok, si vede che il dato del 2002 risulta addirittura fuori scala rispetto a quelli dei 400.000 anni precedenti (e dai risultati degli ultimi studi si può affermare che la concentrazione di gas serra nell’atmosfera non è mai stata così alta negli ultimi 6-700.000 anni).


Fig. 3

Nessuno può dire esattamente quali saranno gli effetti finali; stiamo effettuando il più grandioso esperimento mai condotto su questo pianeta, senza alcuna precauzione, ritegno e logica, e ben difficilmente le conseguenze saranno piacevoli. Ormai solo chi ha un interesse personale in ballo, o è disinformato, può negare l’evidenza scientifica del riscaldamento globale e delle colpe del genere umano nello stesso. Una delle prove che ci portano a considerarci responsabili dei cambiamenti in atto è strettamente legata al consumo di energia proveniente da fonti fossili. Senza entrare nei dettagli delle reazioni chimiche che avvengono nella combustione dei derivati petroliferi o del gas naturale, è noto che uno dei prodotti è proprio la famigerata CO2.

Fondamentale per le nostre aspettative future è anche il raggiungimento del “picco del petrolio”, ossia del momento in cui la produzione di petrolio raggiunge il valore massimo per poi declinare inesorabilmente. È di pochi giorni fa l’annuncio che la IEA (International Energy Agency) ha ammesso il crollo della produzione per i prossimi anni; una notizia che fino a meno di un mese fa veniva definita “catastrofista” nella peggiore accezione del termine, ma che ad esempio ASPO affermava da molti anni.

Una volta afferrato il senso dei fenomeni coinvolti, qui condensati al massimo, com’è possibile agire per contrastarli o almeno per attenuarli? Senza entrare nei dettagli dei complicati meccanismi di azione e di retroazione tra atmosfera, oceani e biosfera, cosa può fare in concreto chiunque di noi, frequentatori più o meno assidui delle cime? Esistono diversi comportamenti “virtuosi” che possono essere messi in campo; qui mi limiterò ad un paio, connessi all’attività della sezione e di ogni singolo socio, che costano poco ma possono avere effetti non trascurabili.

Consideriamo un generico bollettino, come ad esempio quello del CAI di Giaveno su cui ho riportato originalmente questo articolo; ho pesato quello dell’anno scorso, ottenendo una massa di 296,4 g. Poiché nelle stime che propongo non è necessaria una precisione al decimo di grammo, possiamo supporre senza commettere gravi errori che sia di 300 g. Ora, poiché ogni anno vengono stampate 1000 copie del bollettino, ciò porta alla necessità di disporre di 300 kg di carta (nei calcoli che seguono non si considerano dal punto di vista energetico e di produzione di gas serra le operazioni di stampa, rilegatura, distribuzione, etc, che ovviamente peggiorano ulteriormente il bilancio). Per ottenerla occorrono 3450 MJ di energia primaria, 312 kWh di energia elettrica e vengono contemporaneamente prodotti 102 kg di CO2 (dati ricavati da: “Sustainability Report 2007 – Confederation of European Paper Industries”); tale quantità di energia primaria viene di solito ottenuta bruciando combustibili fossili, ad esempio 82 kg circa di petrolio. Immaginiamo ora che ogni socio, all’atto del rinnovo dell’iscrizione al CAI, si rechi in sede con la propria penna hardware, sulla quale viene scaricato il bollettino in forma elettronica: consumo di energia trascurabile, nessun rilascio di CO2, e la possibilità di avere foto a colori in alta definizione senza aggravio alcuno. Potrà sembrare poca cosa, ma se tale comportamento fosse esteso a tutte le sezioni CAI italiane che sono solite pubblicare un bollettino, e così pure alla rivista del CAI, l’effetto complessivo diventerebbe tutt’altro che marginale, oltre a rappresentare un atto assennato e responsabile, in linea con le finalità dell’associazione.

Un altro esempio che ci tocca direttamente è quello del consumo di benzina o gasolio, e delle relative emissioni, nei viaggi necessari per raggiungere le agognate mete alpine. Premesso che l’uso dei mezzi pubblici è fortemente consigliato in ogni caso, e che l’abitudine di alternare a mete lontane altre vicino a casa è senz’altro meritoria, come si potrebbe ridurre il proprio impatto, pur mantenendo lo stesso “standard” di gite, facendo comunque uso di mezzi proprii ? Anche qui un esempio numerico può aiutare a capire qual è l’influenza di un’attività apparentemente ecologica come l’andar per monti. Consideriamo una combriccola di quattro persone che compia 24 gite all’anno di un solo giorno (circa una ogni due settimane), e che ogni volta percorra 200 km (tragitto di andata e ritorno; è all’incirca la distanza tra Giaveno e l’alta Val di Susa). Possiamo ipotizzare che un’auto media consumi 1 l ogni 15 km, emettendo al contempo in atmosfera 180 g di CO2 per ogni kilometro; un semplice calcolo ci permette di trovare un totale di 320 l di combustibile consumato e 864 kg di CO2 emessa ogni anno. Se ora le quattro persone compiono le stesse 24 gite in otto fine settimana “allungati”, dal venerdì alla domenica – nel momento in cui scrivo, 22 novembre 2008, le previsioni sono purtroppo per week-end lavorativi ben più consistenti, stante l’attuale congiuntura -, quindi con soli otto viaggi, il totale è rispettivamente di 107 l di benzina o gasolio e 288 kg di CO2 prodotti, pari ovviamente a un terzo dei valori precedenti. È superfluo sottolineare il fatto che se ogni alpinista viaggia sulla propria auto per raggiungere mete differenti le conseguenze sono ancor più onerose, in termini di combustibili bruciati e di emissioni in atmosfera. Il trekking, da questo punto di vista, è con ogni probabilità la forma meno energivora e inquinante di frequentazione della montagna; le giornate che impegniamo a camminare incidono solamente per quel che riguarda gli approvvigionamenti dei rifugi. È mia convinzione che il ritorno al viaggio da mero, rapido e per tale motivo spesso insensato raggiungimento della meta, a scoperta e conoscenza del percorso, dei luoghi e delle persone che ci vivono e lavorano, possa diventare la futura pratica della montagna, forse l’unica. Un modo di viverla, dunque, molto più vicina a quella di esploratori e alpinisti del XIX secolo che a quello degli ultimi decenni.

Chiaramente ognuno, nel suo agire quotidiano, può diminuire considerevolmente la propria impronta sul pianeta, sia in termini di sfruttamento delle risorse sia per quanto riguarda l’inquinamento che produce, e ciascuno di noi può trovare molti sistemi per conseguire tale risultato; i due esposti prima sono i primi che mi sono venuti in mente, e non sono certo esaustivi della casistica in materia. Un altro importante modo per prendere coscienza dei problemi legati alla nostra presenza sul pianeta è l’informazione; poiché nel nostro disgraziato Paese questa è mediamente di infima qualità, occorre sapere dove e a chi rivolgersi. I cinque link riportati al fondo dell’articolo e il libro consigliato – uno solo tra i tanti; potrà essere un’ottima strenna post-natalizia ed è fresco di stampa, dunque aggiornato nei dati esposti – costituiscono un’eccellente base di partenza.

L’umanità è di fronte a un bivio: proseguire dissennatamente sulla strada dei consumi senza fine, ma non più per molto, oppure tornare a una vita legata alla natura e ai suoi tempi, attenta alla limitatezza delle risorse e al delicato equilibrio dell’ambiente in cui viviamo. Gli aspetti fondamentali necessari per comprendere come sia necessaria la transizione energetica, che è anche un cambiamento epocale di mentalità, si possono sintetizzare come segue:
1. le risorse della Terra sono limitate, dunque i consumi non possono crescere al­l'infinito
2. le risorse devono essere distribuite più equamente fra tutti gli abitanti della Terra
3. l’unica risorsa energetica veramente inesauribile, almeno su tempi dell’ordine dei miliardi di anni, gratuita, equamente distribuita e in grado di supplire alle imminenti carenze, è il sole, che ogni ora ci fornisce con un’energia pari a quella consumata dall’umanità in un anno.

Se le prime due sono “verità scomode”, e che buona parte delle persone ha difficoltà a metabolizzare, la terza è la via della speranza, che non va mai disgiunta dalla sobrietà. Qualità che, non dimentichiamolo, è sempre stata patrimonio di chi ha vissuto e vive in montagna.

http://www.aspoitalia.it/ e relativo blog: http://aspoitalia.blogspot.com/

http://www.nimbus.it/

http://petrolio.blogosfere.it/

http://crisis.blogosfere.it/

http://www.theoildrum.com/ (in inglese)

Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani, “Energia per l’astronave Terra”, Zanichelli Editore, Bologna, Ottobre 2008



L’autore desidera ringraziare ASPO-Italia, Associazione per lo studio del picco del petrolio, nella persona del Prof. Ugo Bardi, presidente della stessa, e il dott. Luca Mercalli, presidente della società Meteorologica Italiana, per i consigli, per l’aiuto e per avermi reso consapevole in prima persona dei problemi che ho tentato di riassumere in questo articolo. Ringrazio altresì Roberto Maruzzo, che ha gentilmente concesso di riportare parte dell’articolo del suo sito concernente la salita alla Testa della Tribolazione, e Leonardo Maffia, che ha cortesemente fornito il report della Confederation of European Paper Industries

martedì, aprile 14, 2009

Grillo e l'idrogeno

Strano paese il nostro, dove i comici si buttano in politica e i politici tentano di fare i comici raccontando barzellette. Sono ambedue espressioni di quel disprezzo per la politica che è un tratto distintivo del carattere nazionale e una conseguenza diretta dello scarso senso dello Stato di cui si sono nutrite generazioni di italiani, a ciò indotte dalla letale influenza della Chiesa Cattolica e dal secolare succedersi di dominazioni straniere nel nostro paese. Tra due anni ricorreranno i primi centocinquanta anni dall’Unità d’Italia, temo inutilmente senza una riflessione impietosa sulla nostra storia, materia di cui gli italiani hanno purtroppo scarsa conoscenza.
Ma non voglio divagare troppo e passo subito a parlare di un personaggio che da qualche anno imperversa nelle piazze italiane con un eloquio da tribuno della plebe, Beppe Grillo. Anticipo subito che mi piace e giudico davvero esilarante la satira del comico genovese, ma comincio a trovarla un po’ sgradevole da quando l’ha messa al servizio di una strategia politica fondata su una formula di sicuro successo in Italia: parlar male della politica per avere successo politico assicurato. Inoltre, non apprezzo in Grillo il discorso demagogico e il tono perentorio, la tendenza al monologo ossessivo che concede poco al dibattito democratico, come dimostrato in una recente trasmissione televisiva, l’esaltazione della democrazia che promana direttamente dal popolo, rappresentata dai gruppi locali a lui affiliati, ma che rischia, a mio parere, di trasformarsi nell’ennesima fucina di consiglieri e assessori comunali.
Eppure, anche il nostro comico convertito alla politica può prendere delle cantonate come un qualsiasi comune politico di casa nostra. Qualche anno fa, con tronfia sicurezza, sbeffeggiando i politici di turno, Grillo si esibiva sul palco con un furgone ad idrogeno, inalando i fumenti di vapor d’acqua, spalmando di balsamo all’eucalipto il tubo di scappamento. E prendendosela con i petrolieri che tramavano nell’ombra per scongiurare la soluzione finale che li avrebbe portati inevitabilmente sul lastrico.
Ma con mia grande sorpresa, ascoltando qualche giorno fa un comizio di Grillo in televisione, l’ho sentito lanciarsi con la stessa sicumera in una requisitoria feroce contro l’automobile, definendola una tecnologia “finita”, senza futuro industriale.
Non avendone mai condiviso l’ingenuo e poco scientifico ottimismo per l’auto a idrogeno, sono contento di questa conversione di Grillo, che sembra averne finalmente capito i limiti: i modi di produrre l’idrogeno non eliminano la dipendenza dai combustibili fossili e causano il preoccupante fenomeno del consumo di ossigeno atmosferico e/o sono estremamente inefficienti dal punto di vista energetico ed economico. L’utilizzo dell’idrogeno per autotrazione è quasi una chimera a causa dei problemi industriali connessi all’accumulo sui veicoli, ai costi e all’affidabilità delle tecnologie di utilizzo di tale vettore, la rete di distribuzione sarebbe estremamente costosa e non si sa ancora come superare i problemi di sicurezza.
Spero almeno che durante il suo comizio – spettacolo abbia ammesso, come l’Ispettore Rock di una famosa pubblicità degli anni ’60: "Anch'io ho commesso un errore".

lunedì, aprile 13, 2009

I giorni della vergogna

Ho parlato un po' della crisi di Napoli in un post precedente che era stato ispirato dal libro di Bruno Vespa intitolato "Viaggio in un'Italia diversa". Il libro di Marco Imarisio "I giorni della Vergogna" (ed. L'Ancora, 2008) tratta dello stesso argomento, ma fra i due libri c'è un abisso di differenza.

Vespa racconta Napoli come un turista che passa di li', senza nemmeno la macchina fotografica. Intravede questo e quello, trancia qualche giudizio fra buoni e cattivi, e se ne va senza aver capito niente. Imarisio, invece, sulla questione di Napoli ti racconta la storia dall'interno come un testimone che ci soffre e che capisce. Come direbbero i napoletani "ci mette sentimento".

Ed'è veramente una storia interessante questa dei rifiuti di Napoli, dove tutto si intreccia in una serie di legami indissolubili e mortali: politica, camorra, rifiuti, miseria, e tante altre cose che hanno creato quella crisi del 2008 dove sembrava davvero che un'intera città potesse essere sommersa da quella strana e materia che chiamiamo "rifiuti".

Teoricamente, i rifiuti dovrebbero essere una ricchezza da cui estrarre le materie prime che sono sempre più difficili da trovare. In pratica, non riusciamo a gestirceli come si deve e i risultati sono disastrosi come nella storia di Napoli degli ultimi anni. Da quello che ci racconta Imarisio, e da quello che io stesso so della faccenda, non c'è stato nessun cattivo mostruoso e nemmeno nessun salvatore miracoloso. Ci sono stati degli errori di fondo al tempo di Bassolino che hanno complicato una situazione già enormemente difficile. Tutto si è risolto, alla fine dei conti, quando è stato possibile riaprire la discarica di Chiaiano. Fosse durato qualche mese di più, il merito della soluzione della crisi sarebbe andato a Prodi e al suo governo.

Ma la storia dei rifiuti di Napoli è destinata a lasciare delle cicatrici che non si rimargineranno tanto presto, se mai si rimargineranno. Le pagine più impressionanti del libro di Imarisio sono quelle che descrivono l'ondata di razzismo che ha percorso Napoli. La descrizione della distruzione dei campi Rom di Ponticelli è un pezzo che fa rabbrividire, come pure quello del cosidetto "ratto della bambina di Ponticelli" da parte di una ragazza Rom. E' una bufala, ma di quelle che fanno male. Napoli razzista? E' possibile? Se lo chiede anche Imarisio. Che cosa, ormai, non è più possibile?

Il libro di Imarisio non si trova sugli scaffali del supermercato, come invece quello di Vespa.

sabato, aprile 11, 2009

Che cos'è ASPO-Italia?

Approfitto di questo post per prima cosa per fare gli auguri di Pasqua ai lettori del blog. E' una Pasqua un po' triste per via del disastro in Abruzzo; qualcosa che ci ricorda la fragilità di molte creazioni umane e della necessità di pensare a lungo termine. Se non si fa così, si continueranno a costruire edifici che si sfasciano quando c'è un terremoto. Molte altre cose, e non solo edifici, costruite in fretta e male, potrebbero andare a pezzi nel prossimo futuro. Ma è cosa normale e umana costruire guardando soltanto al profitto a breve termine; questa è una cosa sulla quale dovremo fare i conti nel prossimo futuro.

Comunque, a sei anni dalla fondazione dell'associazione, pensavo anche che si potesse fare un piccolo bilancio. Non è un anniversario, ma il risultato di una discussione che c'è stata ultimamente nella mailing list interna di ASPO-Italia. Cosa abbiamo fatto? Cosa stiamo facendo? E cosa pensiamo di fare?

In questi anni ASPO-Italia ha acquisito una sua fisionomia e un suo modo di essere che è dovuto, sostanzialmente, alla personalità e al modo di essere del gruppo dei fondatori. Questi sono quasi tutti impegnati in tante altre cose e possono dedicare ad ASPO-Italia solo una frazione del loro tempo. Da qui, la scelta di fare un'associazione "leggera", dedicata quasi esclusivamente alla divulgazione.

Così come si è evoluta, l'associazione non ha finanze degne di nota, ma riesce comunque a tenere insieme due blog, un sito internet, tre gruppi di discussione; tutti in piena attività. Come divulgatori sul web, abbiamo avuto un discreto successo; il nostro blog "risorse, economia e ambiente" appare entro i primi cento blog italiani. L'associazione ha anche un certo prestigio e appare come un punto di riferimento nel web quando si parla di risorse e di energia rinnovabile. C'è poi l'attività di presentazioni pubbliche fatte dai vari soci individuali oppure dall'associazione in quanto tale che, anche quella sta avendo un buon successo. Abbiamo organizzato la conferenza ASPO-Internazionale a Pisa nel 2006 e due conferenze nazionali, una a Firenze, l'altra a Torino. La prossima è programmata a Capannori per Ottobre.

In effetti, i membri di ASPO-Italia sono estremamente attivi. Nel mio piccolo, vi posso dire che siamo reduci, io, Toufic elAsmar e Luca Pardi, da due incontri a Livorno - uno televisivo l'altro pubblico alla libreria "la Gaia Scienza" - dove abbiamo riportato il "verbo aspo" a folle plaudenti. Beh, non proprio folle ma, insomma, alla libreria ci hanno detto che non avevano mai visto tanta gente a un dibattito. E' una cosa interessante e anche bella, ma faticosa. Come conseguenza, mentre scrivo questo post sono reduce da una bella emicrania mattutina con annessa pasticca - di quelle pasticche che mi fanno avere visioni mistiche per il resto della giornata.

Possiamo fare di più? Certamente si. Per esempio, molti dei soci ASPO-Italia sono coinvolti in progetti di ricerca nazionali e internazionali sulle energie rinnovabili o sulla sostenibilità. Quando possibile, citiamo il contributo di ASPO in questi progetti, ma è chiaro che non è compito di ASPO mettersi a fare progetti di ricerca internazionali. Questo è un lavoro che fanno le università, centri di ricerca, o ditte specializzate. Tuttavia, il ruolo di ASPO-Italia nell'aggregare ricercatori che altrimenti non si sarebbero conosciuti è stato preziosissimo. Vorrei citare - fra gli altri - il progetto internazionale RAMSES per l'elettrificazione dell'agricoltura mediante energie rinnovabili, coordinato dal nostro segretario, Toufic El Asmar. Per non parlare dell'idea del cinquino elettrico di Pietro Cambi e di quella del Kitegen di Massimo Ippolito, entrambi fin dall'inizio "adottate" dal gruppo ASPO (il cinquino elettrico, in effetti, è nato all'interno di ASPO-Italia).

C'è poi l'attività più propriamente "politica" e qui, devo dire, comincia il punto dolente. Inizialmente, avevamo pensato ad ASPO come ad un "think tank" capace di influenzare i decisori politici; qualcosa che parlasse, per così dire, "all'orecchio del principe". Questa idea si è rivelata un fallimento totale. L'orecchio del principe è intasato di cerume pluriennale. In sei anni di lavoro, non c'è stato un politico italiano appena sopra il livello di consigliere comunale che abbia citato ASPO o le previsioni ASPO, se non per infamarle (non faccio nomi, ma è successo). Per l'esattezza, non abbiamo trovato nemmeno un consigliere comunale che ci abbia dato retta - forse qualcuno conosce qualche consigliere di quartiere più ricettivo?

Non che ASPO-Internazionale abbia fatto di meglio. A tutti i congressi ASPO internazionali siamo riusciti ad avere qualche politico locale che è venuto a parlare; ma poco di più. A Pisa, è venuto Vittorio Prodi, membro dell'Europarlamento. Una bravissima persona, che però nel suo intervento non ha detto una parola sulle previsioni di ASPO. Non dobbiamo disperare: chissà, forse un giorno il nostro messaggio diventerà parte integrante del manifesto del movimento bakuninista di liberazione dei lavoratori della gomma arabica nel Madagascar meridionale.

Insomma, il messaggio ASPO non passa a livello politico o di mass media. Anzi, il recente abbassamento dei prezzi del petrolio ci ha fatto fare un passo indietro a livello di percezione generale, convincendo il pubblico che tutto era un falso allarme; un effetto della "speculazione" (e la peste di Milano era tutta colpa degli untori). Questo proprio ora in cui ci sono delle evidenze nettissime che il picco sta arrivando o è addirittura già arrivato.

Allora, se il messaggio ASPO non passa, non dovremmo fare di più? Per esempio incontrarsi con i partiti politici, fare più politica, più attivismo o cose del genere? Se nessuno ci da retta, forse dobbiamo urlare più forte?

A mio parere, questo sarebbe un errore clamoroso. Ci sono delle buone ragioni per le quali il messaggio ASPO non passa a livello politico. Non sto qui ad approfondire la faccenda, ma le capite bene da voi se ci pensate sopra un momento. In sostanza, il politico è condannato a poter soltanto reagire, mai prevenire. Dopo il terremoto, il politico guadagna punti mediatici quando esplora le rovine o promulga provvedimenti per la ricostruzione. Ma il lavoro di assicurarsi che le norme antisismiche siano rispettate negli edifici, quello non gli da nessuna visibilità, anzi è una scocciatura.

Parlando di picco del petrolio, ASPO sta subendo in questo momento qualcosa che chiamerei "effetto Giuliani," dal nome della persona che ha sostenuto di aver previsto in anticipo il terremoto dell'Aprile 2009. Non entro qui nella polemica sul fatto che Giuliani sia un ciarlatano o un profeta. Però, la vicenda delle sue previsioni è emblematica della difficoltà di allertare i decisori politici di un possibile disastro imminente. Come ASPO, stiamo prevedendo l'equivalente di un terremoto in arrivo, ma nessuno ci da retta. Insistendo con il mandare messaggi sempre più forti ai politici, il meglio che possiamo ottenere è di salire un gradino i più; ovvero da essere ignorati a essere definiti "imbecilli" e forse denunciati per procurato allarme.

Ma, allora, qual'è lo scopo di ASPO? Non mi prendete per un nichilista, al contrario, io credo che ASPO abbia fatto e stia tuttora facendo un lavoro eccezionale su quello che è il nostro vero target che NON sono i politici o i media. I politici sono soltanto delle figure di facciata: è tutto un circo mediatico la fuori che ci fa una bella rappresentazione ma ci prendono per una certa parte del corpo che non starò a nominare esplicitamente. Sono altri i luoghi dove si prendono le decisioni e si fanno veramente le cose. Vi cito solo un esempio: conosco personalmente Rob Hopkins, il fondatore, insieme a Luise Rooney, del movimento "transition towns." So bene, quindi, quanto il suo pensiero sia stato influenzato da Colin Campbell e da ASPO internazionale. Un Rob Hopkins, da solo, vale di più per cambiare il mondo di tutti i mille parlamentari italiani. Vedete allora che ASPO a qualcosa serve?

Allora, per concludere questa riflessione, diciamo che la mia idea di quello che ASPO-Italia può fare si basa sul concetto ben noto nell'arte militare che si deve attaccare dove il nemico è debole. Mettersi a parlare con i politici vuol dire impegnarsi in un'impresa equivalente a quella di attaccare alla baionetta i nidi di mitragliatrici. Nel nostro caso, invece, dobbiamo comunicare alle persone che sono preparate ad ascoltare e a capire quello che noi possiamo dire. Dobbiamo pensare a raggiungere persone come Rob Hopkins; persone che poi, quando hanno capito il messaggio ASPO, vanno fuori e cambiano il mondo.

Su questo punto, uno dei nostri associati, Mario Ferrandi, ha citato una frase (credo) di Mao Zedong: che da ASPO sboccino cento fiori!