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giovedì, luglio 19, 2012

Smentito il Picco del Petrolio? Il Meccanismo della Negazione al Lavoro

Da Cassandra's Legacy. Traduzione di Massimiliano Rupalti

La pubblicazione del rapporto dal titolo Petrolio: la prossima rivoluzione di Leonardo Maugeri è diventata virale ed ha generato un'ondata di risposte tutte incentrate sul teme che “il picco del petrolio è stato smentito”. Potremmo assistere ad una ripetizione della campagna di negazione che, negli anni 90, ha gettato “I Limiti dello Sviluppo” nella pattumiera delle teorie scientifiche sbagliate.

sabato, luglio 07, 2012

Il picco del petrolio e il ritorno degli abbondantisti

Una nota di Aspo Italia pubblicata su Qualenergia il 6 luglio 2012


Dal tempo della prima grande crisi del petrolio, cominciata nel 1973, la percezione del problema della disponibilità di petrolio ha un andamento ciclico. Ottimismo e pessimismo sembrano dipendere più che altro dai prezzi, non tanto dal loro valore assoluto quanto dalla loro tendenza al rialzo o al ribasso: quando i prezzi sono in salita si sente di più la voce dei “catastrofisti”; il contrario accade quando scendono, con gli “abbondantisti” che si fanno sentire maggiormente.

La recente tendenza al calo dei prezzi petroliferi, che pure rimangono molto alti rispetto a quelli precedenti il 2004, sembra aver innescato una nuova fase di ottimismo, ben rappresentata dalle posizioni espresse recentemente da Leonardo Maugeri; ma non solo da lui, si veda per esempio la relazione annuale di Pasquale De Vita dell’Unione Petrolifera.

martedì, maggio 08, 2012

Picco? Quale picco? Sta tornando Re Carbone!

Di Ugo Bardi
Pubblicato su "Effetto Cassandra"


Re Carbone potrebbe tornare per salvarci dal picco del petrolio, ma condannandoci ad un peggior destino in termini di riscaldamento globale (immagine dal National Media Museum).


Recentemente, Rembrandt Koppelaar ha pubblicato su the Oil Drum  un riassunto delle tendenze mondiali nella produzione di energia. La relazione ci dice che l'industria del petrolio sta lottando per mantenere l'attuale livello di produzione. Potrebbe non avere ancora raggiunto il picco, ma chiaramente non può riprendere le  passate tendenze ad incrementare. Ciò non sorprende, è stato previsto già nel 1998 da Colin Campbell e Jean Laherrere (link). Ciò che colpisce è il balzo in avanti del carbone. La produzione mondiale complessiva di energia non ha raggiunto il picco e questo a causa della rapida crescita del carbone, come potete vedere qui, dalla relazione di Koppelaar:



Il carbone sembrava aver raggiunto il proprio picco nel 1990, ma era un'illusione. La crescita della produzione di carbone durante il primo decennio del 21mo secolo è stata impressionante: mai vista prima nella storia. Quindi, Re Carbone sta tornando e potrebbe presto reclamare il titolo di sovrano del mondo dell'energia che aveva perso negli anni 60.

lunedì, gennaio 30, 2012

La produzione di tempo

Di Armando Boccone



Da molti studiosi il futuro è descritto a tinte molto fosche.
Si avvicina il  momento in cui l’offerta di combustibili fossili non reggerà più la domanda. Forse ciò sta già avvenendo visto le tensioni e le guerre da alcuni decenni a questa parte nelle aree produttrici di risorse energetiche, visto la crisi finanziario-economica scatenata, dicono alcuni studiosi, anche dall’aumento del prezzo del petrolio, e che interessa il mondo intero ormai dal 2008 e, infine, visti gli sconvolgimenti politici che, a partire dagli inizi del  2011, interessano il Maghreb e il Medio Oriente.
Inoltre molti equilibri ecologici rischiano di saltare. Si prevedono effetti sconvolgenti a livello mondiale se le cose continueranno allo stesso modo in cui si sono sviluppate finora (alcuni studiosi dicono che le cose sono compromesse in ogni caso, anche se le cose cambiassero da subito).

Molti studiosi continuano dicendo che non può esserci sviluppo infinito in un mondo che è finito. Il pianeta Terra infatti ha dei limiti fisici che non possono essere superati e, anzi, sembra che l’umanità sia in debito verso il pianeta Terra, nel senso che  si è andati oltre la capacità del pianeta di rigenerarsi. Se inoltre tutte le popolazioni del mondo desiderassero vivere come negli Stati Uniti e in Europa (ma si ricorda che una parte della popolazione mondiale vive con problemi di approvvigionamento di cibo e acqua potabile), se si desse inizio a uno sfruttamento intensivo di combustibili fossili estraendoli da scisti e sabbie bituminose oppure estraendoli in posti difficili come in alto mare oppure in zone sempre ghiacciate…(ma ciò sta già avvenendo), allora l’umanità andrà incontro a una catastrofe certa.
Inoltre (per mettere in evidenza, nel contempo, la complessità e la contraddittorietà  dell’attuale situazione che si è creata), alcune ricerche hanno messo in evidenza che nei Paesi sviluppati non c’è più un rapporto diretto fra aumento della produzione e aumento di benessere. C’è stato un rapporto diretto fino agli anni settanta del secolo scorso ma dopo non più e, in alcuni casi, il rapporto si è addirittura invertito.

Si conclude invocando un nuovo paradigma, cioè un nuovo modello di vita. A fronte dalle cose dette, questo nuovo modello di vita dovrà essere davvero rivoluzionario per dare qualche chance a tutta l’umanità di esistere in buone condizioni. Quale dovrà essere l’elemento rivoluzionario al centro di questo nuovo modello di vita?

Sarà il primato della dimensione tempo l’elemento rivoluzionario al centro del nuovo modello di vita! Per la precisione si passerà, con un complesso rapporto dialettico, dal primato della dimensione spazio (sempre maggiore produzione di beni) al primato della dimensione tempo (più lunghe prospettive di vita per il genere umano).

Ma cosa  significa l’introduzione del primato della dimensione tempo nella cultura umana? Significa che l’umanità d’ora in poi dovrà interessarsi non a produrre di più ma, contemporaneamente e in modo dialettico, a soddisfare più adeguatamente possibile i suoi bisogni e ad aumentare il più possibile le sue prospettive di vita.

L’imperativo, in questo nuovo modello di vita, dovrà quindi essere il soddisfacimento più adeguato possibile e per tempi più lunghi possibile dei bisogni umani. Davanti a ogni scelta bisognerà chiedersi: che cosa soddisfa più adeguatamente e per tempi più lunghi possibili i bisogni umani? Questa affermazione è enormemente rivoluzionaria se si guarda alle conseguenze che porterà a tutti i livelli della vita umana.

In una azienda industriale significherebbe che non si dovrà produrre di più ma produrre di meno e che, però, bisognerà produrre macchine che durino moltissimo e che sia possibile, riparandole, allungare il loro tempo di vita. Bisognerà abbandonare la produzione di beni a “obsolescenza programmata” e che non rendano possibile le riparazioni e, soprattutto, bisognerà abbandonare la produzione di beni che non soddisfano bisogni concreti ma solamente i profitti dei produttori (ma la situazione, riguardo alla decisione dei beni da produrre, è molto più complessa).
In una azienda di distribuzione questo nuovo modello di vita significherebbe non vendere di più ma di meno, eliminando tutte quelle forme di promozione delle vendite (per esempio le offerte “prendi due e paghi uno” o le varie altre forme di sconti, l’assegnazione di regali al raggiungimento di un certo punteggio legato agli acquisti fatti dai clienti, ecc.) che portano a enormi sprechi soprattutto di beni alimentari deperibili.
Vi immaginate i proprietari e i dirigenti di queste aziende che abbiano come obiettivo non l’incremento del fatturato e degli utili ma il soddisfacimento in modo più adeguato possibile e per tempi più lunghi possibili dei bisogni umani? (con che cosa poi dovrebbe essere premiato il raggiungimento degli obiettivi di consumare di meno? Con l’ottenimento di maggiore reddito che consente di consumare di più?)
Vi immaginate che come conseguenza rivoluzionaria di questo nuovo modello di vita nelle aziende si dovrà ridurre sia l’orario di lavoro che la retribuzione?
Vi immaginate le conseguenze sul sistema informativo quando si dovrà fortemente ridurre se non eliminare la pubblicità? Vi immaginate le conseguenze sui rapporti di proprietà dei mezzi di produzione?

Che cosa dire poi di quell’altra conseguenza rivoluzionaria (non so se più rivoluzionaria delle altre ma quanto meno la più efficace) che sarà la riduzione della popolazione? Con la riduzione della popolazione si allungherebbe enormemente l’aspettativa di vita dell’umanità e, nello stesso tempo e in modo dialettico, aumenterebbero le possibilità di soddisfare più adeguatamente i bisogni umani.

Che cosa dire poi del vuoto psico-culturale  che si creerà nella vita degli  uomini quando verrà meno quell’insieme di motivazioni che guidano tutti i comportamenti quotidiani (dall’acquisto della nuova autovettura e/o telefonino, ai viaggi, al seguire le più svariate e nuove mode)? Cosa prenderà il loro posto?

Diceva Aurelio Peccei negli anni settanta del secolo scorso che la via di uscita da questa situazione sarà una rivoluzione culturale (per la precisione usava l'espressione "evoluzione culturale")  che dovrà riguardare l’umanità in tutta la sua variegata articolazione, dai rapporti interpersonali alle organizzazioni mondiali. L’uomo infatti vive dominato da residui culturali del passato (che, per esempio, hanno portato nei secoli scorsi al principio della sovranità nazionale, e in tempi più recenti, all’ossessione della crescita economica e dei consumi, ecc.) che ormai sono apertamente in contrasto con i limiti del pianeta terra. L’uomo non può più correre freneticamente nel traffico urbano, verso ambienti climatizzati, per andare a prendere un aereo, oppure verso la propria TV e verso il proprio frigorifero. Sono necessari nuovi valori, nuove motivazioni spirituali, sociali, politiche, estetiche, artistiche e nuovi modi di stare con gli altri uomini, basati sull’amicizia, la solidarietà, la convivialità.

Bisogna chiedersi se le vecchie culture (per semplificare quella di destra e quella di sinistra) siano adeguate alla nuova sfida che la nuova realtà impone. La risposta è negativa perché tutte e due, anche se in modi diversi, mirano alla crescita. Qualche tempo fa ho rivisto dei vecchi appunti (considerazioni) di quando facevo l’Università. Gli appunti riguardavano il pensiero di Marx. Per la precisione riguardavano la teoria del “materialismo dialettico”, che vede la storia come rapporto dialettico fra uomo e natura o, per meglio dire, fra il bisogno e il suo soddisfacimento: la considerazione che annotai in questi appunti era che questo rapporto non teneva conto della dimensione tempo, non teneva conto cioè che questo rapporto avrebbe dovuto essere oltre che completo anche per sempre.
Marx ovviamente era figlio del suo tempo e a quei tempi non c’era coscienza dei limiti dello sviluppo.

Per concludere bisogna dire che ci aspettano lacrime e sangue… ma che le scelte da fare sono obbligate!

giovedì, gennaio 26, 2012

Nature e il picco del petrolio


Di Gianni Comoretto
pubblicato anche su Riflessioni in Libertà


Stamane sono passato con il mio motorino elettrico davanti ad un po' di distributori, tutti con la loro brava coda di auto. Mi sembrava di vivere su di un altro pianeta, visto che i distributori li frequento forse una volta al trimestre.


Ma la scena mi è immediatamente tornata in mente leggendo il numero di oggi di Nature, la più prestigiosa rivista scientifica internazionale. Vi compare un articolo di commento sulla situazione della produzione mondiale di petrolio. La cosa più carina è questo grafico, che mostra come variano i prezzi in funzione della produzione.


Fino al 2004 (punti azzurri) un aumento della produzione, e quindi dei consumi, causava un aumento proporzionale dei prezzi, che all'incirca raddoppiavano per un aumento dei consumi da 64 a 74 milioni di barili al giorno. Da allora la produzione è rimasta sostanzialmente inchiodata a 74 milioni di barili al giorno (è inelastica), con i prezzi che vanno selvaggiamente su e giù (più su che giù), seguendo più che altro l'andamento della crisi economica. C'è una leggera tendenza ad un aumento della produzione con i prezzi, ma per arrivare a 75 milioni di barili il prezzo deve superare i 100-120$. Detto in altre parole il petrolio che possiamo estrarre è quello, fatevelo bastare.

Ma un prezzo del petrolio sopra i 100$ è, a detta di diversi economisti, incompatibile con la nostra economia. Non si tratta solo delle code al distributore, il petrolio entra praticamente in tutto: energia, cibo (fertilizzanti, agricoltura meccanizzata), distribuzione e trasporti (vedi cosa succede per un banale sciopero di un po' di trasportatori), materie plastiche... E quindi stiamo vivendo da alcuni anni in una situazione in cui oscilliamo lungo un ciclo: prezzi del petrolio alti -> crisi economica -> contrazione dei consumi -> calo (relativo) dei prezzi -> timida ripresa di economia e consumi -> prezzi alti. Governo Monti, default greco, crisi dei subprime USA, alla fine tutto è causato ANCHE da quel grafico lì sopra. E per far capire la cosa anche a chi legga distrattamente, un occhiello evidenzia la frase “The price of oil is likely to have been a large contributor to the euro crisis in southern Europe.” Il prezzo del petrolio probabilmente ha dato un grosso contributo alla crisi dell'euro nell'Europa meridionale.

Le brutte notizie però non sono finite. I pozzi di petrolio esistenti stanno calando la produzione di circa il 5% l'anno (4,5%-6,7% secondo diverse fonti). La produzione di 74-75 Mil. di barili viene mantenuta mettendo in produzione nuovi giacimenti, scoperti gli anni passati e sempre più costosi. Ma per mantenere la produzione per tempi lunghi, diciamo fino al 2030, occorrerebbe scoprire un paio di nuove Arabie Saudite. Che semplicemente non esistono. Insomma, il petrolio non è finito, ne avremo ancora per un bel po', ma sempre meno e sempre più caro. Le code ai distributori sono un assaggio di quel che vivremo tra non troppi anni. E di conseguenza questa crisi non finirà mai.

Si passa quindi in rassegna le alternative. Petrolio da sabbie bituminose? Ce nìè un sacco, ma è difficile, inquinante (1) da produrre. Il Canada potrebbe arrivare a produrne 4,7 milioni di barili al giorno, il Venezuela altri due. Il carbone? Le stime delle riserve sono state recentemente riviste al ribasso (2), il carbone che si può ragionevolmente pensare di estrarre è solo una piccola parte di quanto si stimasse. Molte speranze sono state poste nel metano, in particolare allo "shale gas"(3), che però sembra molto più difficile (ed inquinante) da estrarre del previsto. A un certo punto il giacimento si rifiuta di produrre, il metano resta intrappolato nelle rocce e la produzione crolla.

Tra le conclusioni mi sembra spicchi "questioning if and how economic growth can continue without an increase in fossil fuels" (chedersi se e come si possa mantenere una crescita economica senza una crescita dei combustibili fossili). E un aumento delle tasse sui consumi petroliferi va nella direzione giusta, perché costringe ad essere più efficienti. Ma qualsiasi cosa vada fatta, va fatta ora.

Note

(1) Ed energivoro. Alla fine diventa un cane che si morde la coda, se devo utilizzare tanta energia quanta poi ne ricavo dal petrolio estratto faccio prima a lasciarlo dov'è. In pratica, considerando tutti gli altri costi energetici, non conviene estrarre petrolio se impiego più di un terzo dell'energia che ne ricavo.

(2) dimezzate rispetto al 2004, ridotte ad un quinto rispetto agli anni '90

(3) Lo "shale gas" è metano intrappolato in una roccia porosa, ma in cui i pori non comunicano tra di loro. Viene estratto fratturando la roccia, ad es. pompandoci dentro acqua in pressione.

giovedì, dicembre 22, 2011

L'irresponsabilità di essere (tecno)ottimisti

Di Antonio Turiel 


Apparso il 19 Aprile 2010 su The Oil Crash. Traduzione di Massimiliano Rupalti.
Pubblicato anche su Effetto Cassandra



Cari lettori,

sulla base dell'ultimo commento di Agustìn (un lettore del blog, ndT) fatto al precedente post, ho creduto che il tema toccato fosse talmente ampio che meritasse un post a sé.

Circa la descrizione che facevo dei problemi di fornitura di frutta e verdura nel Regno Unito provocata dal blocco del traffico aereo (è il periodo dell'eruzione del vulcano islandese Eyiafjallajokull, ndT), Agustìn diceva quanto segue:

Sono chiare due cose: Primo: che in questo pianeta siamo di passaggio e quasi per caso, quindi qualsiasi crisi ci può spazzar via dalla faccia della Terra. Secondo:che la tecnologia (in questo caso l'aeronautica) può ben poco di fronte a questo. Ma non importa, ci sarà sempre gente che protesta perché non sono state previste le conseguenze dell'eruzione e perché non si è cercata una soluzione al “loro" problema.

Agustìn ha ragione, perché sono questi due i problemi ricorrenti e che spiegano in gran parte la nostra incapacità di approcciarci in modo razionale al problema del Picco del petrolioGrosso modo (scritto così nel testo originale, ndT), questi due problemi sono la nostra incapacità di accettare i nostri limiti e il tecno-ottimismo.

L'essere umano è, intrinsecamente e necessariamente, limitato. Questo lo capiamo presto da bambini: non possiamo correre tanto quanto vorremmo, non possiamo sollevare cose molto pesanti, non possiamo volare... E nemmeno possiamo fare ciò che crediamo, nel contesto dei nostri limiti fisici, per via di altri limiti intangibili ma ugualmente inflessibili: la famiglia, la società, la scuola... Tuttavia, questa evidenza si va disperdendo con l'età, nella misura in cui si insedia un'altra idea, non tanto naturale ed evidentemente fallace, che dice che è possibile ottenere qualsiasi cosa, con i giusti mezzi. La nostra società dei consumi ci sta permeando con l'idea che con sufficiente denaro si può ottenere tutto e dove la nostra capacità fisica non può arrivare,sarà capace di arrivare l'onnipotente tecnologia. Questa nuova realtà prefabbricata risulta essere molto comoda e conveniente; elimina l'incertezza del mondo reale, rende più rarefatta la più terribile di tutte le certezze, quella della propria morte, e spinge le persone a consumare senza riflettere.

Tuttavia, occasionalmente, la disgrazia arriva comunque, la gente muore in incidenti, terremoti, malattie.... L'economia ha problemi, la disoccupazione aumenta, l'insicurezza cresce... Per lottare contro questa realtà spigolosa, che intacca la nostra cortina di illusioni, abbiamo il tecno-ottimismo, vale a dire la rigida credenza nel fatto che la tecnologia possa risolvere qualsiasi problema, se solo siamo disposti ad investire a sufficienza nel suo sviluppo. Questo sta alla base di molte politiche che sono in corso di attuazione oggigiorno, man mano che si comincia a percepire il fatto che abbiamo un problema intrinseco col modello attuale: che, eventualmente, dobbiamo cercare energie alternative; che, eventualmente, l'auto elettrica ci potrà aiutare a superare la nostra dipendenza dal petrolio, ecc. L'infantilismo nel quale ci ha gettati il consumismo ci porta a credere che tutti i problemi si possono risolvere e che Papà-Stato-Autorità-Tecnologia-Scienza-Chiperloro, in ogni caso l'autorità superiore e responsabile, non solo può, ma addirittura ha l'obbligo di risolvere i problemi. Trovo frustrante che, in tutti gli incontri che vado proponendo sull'Oil Crash, quando arriva il momento delle domande ci sia sempre qualcuno che ci chiede, quasi esige da noi – noi che siamo scienziati e che pertanto siamo parte di questo establishment onnipotente – che risolviamo un problema tanto complesso come quello di adattare una società autistica ed egoista ad uno scenario di diminuzione dell'energia; fuori le soluzioni, forza!

Il problema veramente grave è che le diverse amministrazioni accettano questo ruolo di fornitori di soluzioni che, in realtà, non possono ricoprire. Non si vendono più automobili? “Non vi preoccupate, metteremo sovvenzioni per fare in modo che si continuino a vendere”, anche se entro tre anni non si sa da dove estrarremo il petrolio, non tanto a buon mercato, ma a qualsiasi prezzo. La gente si preoccupa perché il prezzo del petrolio sale? “Non vi preoccupate che con l'auto elettrica il problema del petrolio scompare”, ignorando il fatto che il petrolio non si usa solo per le auto, ma per quasi tutto e che in ogni caso non abbiamo idea da dove verrà l'energia per ricaricare queste auto e per la costruzione delle quali non abbiamo, in ogni caso, sufficienti materiali (per esempio le terre rare, ndT). La domanda di petrolio per gli altri usi energetici, oltre alle auto, continua? “Non vi preoccupate, che possiamo moltiplicare per due o per tre la produzione di energia rinnovabile attuale”, ma ignorando che questo è molto lontano dal moltiplicare il suo potenziale per 20, che è quello di cui avremmo bisogno per eguagliare il consumo attuale. Fra l'altro perché è impossibile, perché l'energia rinnovabile non ha un tale potenziale e questo senza parlare della mancanza di materiali per le installazioni e della loro scarsità associata all'aumento del prezzo del petrolio (perché serve petrolio, ed in quantità ingenti, per estrarre, raffinare e processare tutti i materiali). La gente ha paura della disoccupazione? “Non vi preoccupate e consumate, consumate, maledetti, che dobbiamo far crescere il PIL fino al magico 2,6% che farà in modo che la disoccupazione torni a scendere”, anche se questo non è possibile, visto che il nostro consumo di petrolio scende ad un ritmo medio del 3% ogni anno.

Essere tecno-ottimisti, credere che la tecnologia risolverà tutto, è un modo socialmente accettabile di essere suicidi. Io, se permettete, scelgo la vita. Sono uno scienziato, ma non un idiota e non voglio credere ai benefici della tecnologia come se fosse un atto di fede; proprio perché sono uno scienziato so che ci sono dei limiti nella natura (le leggi della termodinamica, per esempio) e che non possiamo fare miracoli, anche se possiamo e dobbiamo migliorare le condizioni di vita degli umani. Ma cerchiamo di essere razionali. 

Saluti,

AMT

domenica, novembre 20, 2011

Petrolio e complessità (quasi una recensione)



Scritto da Luca Pardi

A well from the hell (un pozzo dall'inferno). Con queste parole una delle undici vittime dell'esplosione del 20 aprile 2010, definiva il pozzo della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon (fig1) nel Golfo del Messico. Un oggetto costato 1 miliardo di dollari il cui uso gravava la British Petroleum per 500.000 dollari al giorno


Drilling Down, un libro scritto da Joseph A. Tainter e Tadeusz W. Patzek riporta anche alcuni passi delle deposizioni alla commissione di inchiesta federale sull'incidente. La moglie di Shane Roshto, questo è il nome del giovane di 22 anni il cui corpo non è mai stato ritrovato, continua affermando che suo marito diceva anche: “Madre Natura non vuole essere trivellata quì”. Può sembrare la solita ingenua personificazione della Natura, buona o matrigna, ma in realtà rende il senso della difficoltà estrema che incontrano gli uomini impegnati nell'impresa di estrarre petrolio da giacimenti off shore, per raggiungere i quali si deve operare a migliaia di metri sotto il livello del mare e a migliaia di metri nella roccia. Come si dice: in ambiente ostile. Un'impresa che, secondo gli autori di Drilling Down, supera in difficoltà le imprese di esplorazione spaziale.


La storia dell'incidente e del susseguente disastro ecologico del Golfo del Messico è il simbolo della fine del petrolio facile ed è un evento paradigmatico della legge dei ritorni marginali decrescenti della complessità. Tainter e Patzek forniscono una descrizione dettagliata del pozzo della British Petroleum denominato Macondo, trivellato in mare aperto a 130 miglia a sud est di New Orleans a circa 1600 metri di profondità per andare a succhiare idrocarburi in un giacimento a migliaia di metri sotto le rocce del fondo del mare, e, partendo da questo, mostrano come la questione petrolifera rientri nel generale processo di complessificazione della nostra società che rimanda appunto alla legge di Tainter.

Ugo Bardi ha parlato più volte di complessità e, proprio in relazione alla legge di Tainter, ha proposto un semplice modello che ne offre un'interpretazione fisica (leggi qui).

Nelle parole di Tainter la complessità di un sistema, che può essere un'intera civiltà come una sua parte: le sue infrastrutture industriali, l'infrastruttura dei trasporti, il sistema della ricerca scientifica, o le istituzioni politiche e sociali, è caratterizzata da due componenti: la differenziazione strutturale (il numero di parti e i tipi di parti che la compongono) e l'organizzazione (cioè il modo di far funzionare quelle parti in modo efficace). La crescita della complessità è una modalità di soluzione dei problemi, dei quali in questo mondo c'è sempre abbondanza, che viene adottato ad un certo costo energetico. Infatti in ultima analisi il costo della complessità è riducibile ad un costo energetico

Il grafico che descrive questa evoluzione dei sistemi è una tipica curva che riporta i Benefici in funzione del Costo cumulativo come quella riportata in Figura in blu. Il livello di complessità aumenta nel tempo insieme al costo cumulativo del processo di complessificazione. In una curva come questa si possono individuare tre punti critici e tre regimi distinti. Quando il processo di complessificazione inizia la curva blu è concava, ciò significa che la sua tangente in ogni punto giace in ciascun punto al di sotto della curva stessa, in queste condizioni il beneficio per unità di costo (o per aumento unitario del livello di complessità) è crescente. Tale grandezza, al limite di costo tendente a zero, in Analisi matematica, si definisce derivata prima della funzione che descrive la curva, e la derivata della curva blu è la curva in rosso, e corrisponde anche al famoso Ritorno Marginale secondo cui è definita la legge di Tainter. Il primo punto critico si incontra quando la derivata raggiunge il suo massimo in corrispondenza dei valori C1, B1. Quest'ultimo è un punto di flesso della curva blu, da questo punto in poi la curva è convessa e la tangente alla curva giace in ciascun punto al di sopra della curva stessa e la sua derivata prima è decrescente. Cioè è dal livello di costi cumulativi (o di livello di complessità) C1, che si comincia ad osservare la diminuzione dei benefici per unità di costo o cioè i citati ritorni marginali decrescenti. Qui si innesta il secondo regime. La derivata continua scendere (curva rossa) finché nel punto (C2, B2) essa si annulla in corrispondenza del massimo della curva blu. Da qui in poi la derivata è negativa, cioè un aumento di complessità porta benefici negativi, cioè un ulteriore aumento del livello di complessità è un male invece di un bene. La prima fase fino al punto C1 possiamo chiamarla: Era dell'Entusiasmo Tecnologico, includendo nella tecnologia non solo le applicazioni scientifiche innovative, ma anche l'ingegneria sociale ed istituzionale, oltre il punto C1 ma prima di C2 si vive nell'Era della Delusione Tecnologica con ritorni marginali decrescenti. Raggiunto il massimo si va incontro a un periodo in cui non è più possibile, per risolvere i problemi, continuare ad aumentare la complessità del sistema senza causare danni superiori a quelli che si cercano di riparare o problemi più gravi di quelli che si intende risolvere. La fase intorno al massimo, è una fase di transizione, è piuttosto breve e conduce ad una risposta, i tentativi di aumentare ulteriormente la complessità portano al collasso dell'intero sistema cioè ad una semplificazione traumatica, l'unica strada non, o meno, traumatica è la semplificazione volontaria che è tanto più difficile quanto più a lungo e in profondità il sistema ha accresciuto la propria complessità. Tainter e Patzek riconoscono un unico caso di semplificazione volontaria di una società complessa: quella dell'Impero Bizantino.

Nella società moderna la fase dell'entusiasmo è quella che ha portato all'attuale religione dell'ottimismo tecnologico. In questa fase i costi sociali ed economici sono superati dai benefici. Purtroppo questa fase lascia uno strascico di vera e propria superstizione filo-tecnologica che non ha nulla di razionale. L'atteggiamento razionale sarebbe infatti fermarsi in C1 o appena dopo. Cioè non appena si iniziano a sperimentare i ritorni marginali decrescenti. Ma che l'uomo sia un animale razionale è un'altra delle molte e persistenti illusioni filosofiche.

Va detto a questo punto che la forma della curva rossa non è l'unica possibile, ad esempio potremmo immaginare che la curva sia sempre convessa, cioè che la legge dei ritorni marginali decrescenti valga fin dall'inizio, ma io di questo non sono convinto e credo anzi che nella fase iniziale di qualsiasi ciclo di civilizzazione i ritorni siano crescenti e che questo crei quella fiducia incrollabile nei meccanismi di soluzione dei problemi che più tardi porterà ad una vera e propria corsa al collasso. Vi sono ragioni fisiche che mi fanno pensare questo che saranno esaminate in un altro contesto, ma che sostanzialmente rimandano ai limiti delle sorgenti di energia e risorse da cui le società traggono linfa vitale.

Il processo di semplificazione che “salvò” l'Impero Bizantino nel VII secolo di fronte all'avanzata dell'Islam si riduce ad un abbandono della catena organizzativa che rendeva l'esercito non sostenibile. Invece di far coltivare il grano ai contadini per poi tassarli e attraverso il governo centrale dare la paga ai soldati si decise di dare la terra ai soldati, o, il che è lo stesso, far fare la guerra ai contadini (sembra che difendendo la propria terra fossero anche più motivati). Rinunciarono a difendere l'intero territorio in modo rigido e si ritirarono nelle città fortificate e/o nascoste. Misero in pratica i consigli del saggio Forresterius di cui potete leggere qui. Anche l'Impero Romano d'occidente rimandò la propria caduta con una semplificazione militare che portò all'abbandono delle costose fortificazioni difensive ai limiti dell'Impero.

Naturalmente stiamo parlando di società relativamente semplici rispetto alla nostra. Nel caso della civilizzazione contemporanea, industriale, globalizzata ed altamente energivora semplificare non è una cosa semplice.

La difficoltà dipende dalla natura cumulativa del processo di aumento della complessità. Tale processo si realizza in piccoli passi successivi e raramente per salti significativi. Semplificare significativamente un sistema che si è evoluto in questo modo è comunque traumatico.

Prendiamo, ad esempio, il caso dei telefoni cellulari. Oggi ognuno di noi ne ha almeno uno e lo usa tutti i giorni della settimana, per ragioni di lavoro, familiari e di svago. Supponiamo che sia essenziale tornare indietro e rinunciare ai cellulari. Se questa decisione fosse stata presa nel 1985 sarebbe stata di scarso impatto. Il salto dal telefono fisso al cellulare era recente, tornare indietro relativamente facile. Da allora i cellulari sono diventati non solo la forma prevalente della telefonia, ma sono anche sempre più complessi cioè sono costituiti di un numero maggiori di parti che forniscono funzioni diverse di cui la comunicazione telefonica è soltanto una. E' ovvio che potremmo tornare al telefono fisso, ma ciò comporterebbe la rinuncia a molte comodità e funzioni e sarebbe anche una spesa ingente, ad esempio per ricreare la rete di telefoni pubblici oggi quasi completamente sparita. E' quindi molto più difficile ripercorrere un processo di complessificazione in senso inverso.

L'incidente del pozzo petrolifero denominato Macondo, nel quale è esplosa e successivamente naufragata la piattaforma petrolifera della BP, causando il più grande incidente ecologico della storia dell'estrazione petrolifera, serve da pretesto a Tainter e Patzek per riesaminare il tema della complessità dei sistemi sociali e della loro vulnerabilità. La prima conclusione, forse prevedibile, è che sistemi così straordinariamente complessi, cioè strutturalmente differenziati e gestiti da una intricata organizzazione che prevede decine di diverse figure professionali e gerarchie incrociate, è estremamente soggetto ad incidenti imprevedibili. L'imprevedibilità è proprio data dal numero di componenti tecniche, naturali e umane che interagiscono fra loro. La seconda conclusione è che benché una semplificazione sia inevitabile, non abbiamo la più pallida idea di come realizzarla in modo non traumatico e organizzato.

Gli autori di Drilling Down promuovono l'idea di un dibattito onesto e “adulto” sulla questione energetica, cioè razionale (per esempio basato sull'EROEI) e interessato al mantenimento di pianeta vivibile per i nostri figli e nipoti (quindi basato su considerazioni etiche). E' leggermente irritante il manifesto scetticismo degli autori nei confronti delle fonti rinnovabili di energia, ma più che altro Tainter e Patzek sembrano rivolgersi a coloro che pensano (in buona o cattiva fede) di poter continuare con il livello di flussi energetici attuali semplicemente sostituendo le fonti fossili con quelle rinnovabili, lasciando tutto il resto immutato. Ma la cosa più apprezzabile di tutto il libro è l'atteggiamento non prescrittivo con cui gli autori si pongono nelle premesse del dibattito adulto che promuovono.

giovedì, settembre 29, 2011

Aspoitalia e il dibattito italiano sul picco del petrolio

Pubblichiamo il documento inviato alla stampa dal Comitato Scientifico di Aspoitalia per controbattere ad alcune affermazioni pubbliche che negano la realtà del picco petrolifero.


Raccontando un incontro al Festival dell'Energia di Firenze, Lorenzo Pinna, uno dei giornalisti della rubrica televisiva SuperQuark, scrive un articolo dal titolo roboante “Balle energetiche: il Peak Oil e altri falsi miti“.
Nell'articolo si riprendono alcune delle opinioni sul Picco del Petrolio del Prof. Vaclav Smil da questi già espresse nel suo recente libro: “Energy Myths and Realities” e in un articolo reperibile in rete [1].
Il Picco del Petrolio sarebbe un falso mito. Nella sostanza l'articolo di Pinna e le pubblicazioni citate non aggiungono nulla di nuovo rispetto alla ricca letteratura meta-scientifica che si occupa di sfatare il mito del Picco del Petrolio.
Pinna, Smil e recentemente Yergin del Cambridge Energy Research Association adottano argomentazioni datate: non è vero che il petrolio è finito, anzi ne abbiamo sempre di più. Con questo essi intendono dire che ne abbiamo sempre di più da annoverare fra le risorse conosciute.
L'affermazione è tanto discutibile quanto inutile e non risolve il problema dell'offerta di combustibili liquidi.
E' infatti essenziale estrarlo quel petrolio, cioè produrlo.
L'impegno delle compagnie petrolifere, tutte le tecnologie dispiegate e il prezzo del barile (che nel decennio 1998-2008 è aumentato di un fattore 10 e oggi oscilla su valori non lontani dai 100 USD/barile) hanno permesso di impedire il declino della produzione di liquidi combustibili, ma lo hanno fatto attingendo a risorse assai più costose energeticamente ed economicamente, bilanciando il calo di produzione del petrolio convenzionale che, come previsto dagli stessi geologi citati nell'articolo di Pinna, ha avuto il suo picco attorno al 2005.
I fatti sono quantitativamente descritti nel seguente grafico tratto da The Oil Drum [2].
Qui è visibile il “plateau” (l’altopiano disegnato dalla stasi produttiva) nel quale ci troviamo dal 2004 e che viene faticosamente mantenuto a causa delle crescenti difficoltà di individuazione e di estrazione, nonché legate alla inferiore qualità del greggio.
Dalla prima metà del secolo scorso ad oggi il costo energetico di estrazione (determinato dal rapporto tra la quantità di energia investita e quella che se ne ricava, definito ERoEI), su cui pesano anche le sempre più onerose azioni di ripulitura ambientale (come quelle del Golfo del Messico), è aumentato in media di 10-15 volte. Un processo negativo che riduce di fatto la risorsa netta estraibile e quindi realmente disponibile.
Le nuove tecnologie introdotte possono in realtà solo allungare di qualche anno questo stato di stallo produttivo, dopodiché l'inizio della discesa della disponibilità di greggio sarà inevitabile.
Considerazioni analoghe sono contenute in recenti documenti del JOE (The Joint Operating Environment) del Comando delle Forze Armate USA, del Dipartimento dell’Energia del governo USA (DoE) e del Zentrum für Transformation der Bundeswehr, un Centro di Ricerca dell’esercito tedesco.
Anche l’Agenzia Internazionale per l’Energia nel suo ultimo rapporto colloca nel 2008 il picco della produzione di greggio convenzionale dei giacimenti già in produzione e nel 2015 quello deigiacimenti che si stanno ora sviluppando.
Successivamente il mantenimento del livello di produzione risulterebbe garantito solo da improbabili nuove scoperte che si potessero estrarre tempestivamente.
Le altre energie fossili (gas e carbone) seguono trend ed evoluzioni peggiorative dell’ERoEI analoghe, anche se non temporalmente coincidenti. Possibili processi di sostituzione di una fonte energetica primaria con un’altra non sarebbero comunque in grado di soddisfare una domanda di energia globale tendenzialmente in costante crescita.
Il problema non è la quantità di energia fossile che possiamo contemplare attraverso i sofisticati mezzi della prospezione geologica, ma la quantità di petrolio (o di gas o carbone) che possiamo estrarre a costi che il sistema economico globalizzato (largamente dipendente da un flusso ininterrotto di energia a buon mercato) può permettersi senza andare in tilt come nell'estate del 2008.
Allora, in concomitanza con il picco assoluto del prezzo del barile, il sistema finanziario inciampò nella realtà fisica che è alla base della ricchezza monetaria, piombando in un crisi da cui ancora nessuno sa quando e se si potrà uscire.


[1] Vaclav Smil - Peak oil: A Catastrophist Cult and Complex Realities - http://www.vaclavsmil.com/wpcontent/
uploads/docs/smil-article-2006-worldwatch.pdf
[2] http://www.theoildrum.com/node/8391

Comitato Scientifico ASPO-Italia.

lunedì, agosto 22, 2011

Ma quando arriva l'apocalisse?



Avrete notato che i prezzi del petrolio greggio sono in rapida diminuzione. E' un vero e proprio crollo che, come argomentavo qualche mese fa, sta somigliando moltissimo a quello che era successo nel 2008, quando il prezzo del petrolio si era ridotto di un terzo in pochi mesi, dopo essere arrivato a quasi 150 dollari al barile. Se la situazione continua a evolversi in parallelo a quello che era successo nel 2008, vedremo a breve anche un calo di produzione.

Allora, arriva o non arriva questo famoso picco del petrolio? Sembra che ci sia gente ormai impaziente in proposito.

La situazione è ancora poco chiara. Continua da cinque anni almento il "pianoro produttivo"; va un po' su, va un po' giù, ma non si decide a prendere una direzione ben precisa. Il picco, in effetti, è qualcosa che potremo vedere soltanto "nello specchio retrovisore". Se vedremo nel prossimo futuro calare nettamente la produzione, e se questa tendenza si manterrà per almeno un anno o due, allora potremo riguardare tutta la curva e dire "Il picco è stato nell'anno x". Ma ancora non possiamo dire niente di preciso.

Quando arriveremo a guardarci alle spalle in questo modo, tuttavia, stabilire l'anno del picco sarà soltanto un dettaglio. Il picco non è un evento particolare; è soltanto un punto su una curva continua. Il cambiamento fra prima e dopo il picco è graduale; non ci sono discontinuità importanti. Quello che è importante sono le conseguenze del graduale aumento dei costi del petrolio; è questo che causa il picco, ma causa anche i problemi che vediamo.

In sostanza, qui nessuno fa profezie; nessuno prevede l'apocalisse, nessuno parla di fine del mondo. A partire dai dati che abbiamo, facciamo delle ragionevoli interpretazioni. Via via che nuovi dati arrivano, le predizioni possono cambiare un po'; ma raramente vengono stravolte. Nel complesso, direi che la capacità predittiva di ASPO continua a rivelarsi più che buona.

Per fare un esempio delle previsioni del passato, questo è quello che scrivevo nel mio libro "La Fine del Petrolio" del 2003.

Ci si aspetta che il picco del petrolio «convenzionale», il petrolio greggio, potrebbe registrarsi entro i primi anni del 2000. Il picco per tutti gli idrocarburi liquidi avverrà piú tardi, verso il 2010. Come abbiamo detto, i vari esperti danno valori diversi per i punti di picco, ma in sostanza dai dati disponibili vediamo come la «transizione petrolifera» potrebbe essere imminente. Nessuno ha voglia di rischiare una figuraccia gridando troppo presto «al lupo!» e non bisogna, evidentemente, mettersi a fare i profeti di sventura. Anzi, è il caso di dire con chiarezza che arrivare al picco di produzione non significa l’esaurimento delle riserve di combustibili. In primo luogo, abbiamo ancora gas naturale che, sempre secondo C. Campbell non dovrebbe raggiungere il picco fino al 2030-2040. Inoltre, al momento del picco avremo ancora notevoli riserve di petrolio.Bisogna però anche dire con chiarezza che arrivare al picco vuol dire affrontare dei cambiamenti radicali di tipo economico, ovvero principalmente un aumento dei prezzi. Il picco di produzione corrisponde al punto in cui il progressivo declino delle riserve farà sí che la domanda superi le capacità di produzione. Dopo la transizione, gli incrementi nella domanda non potranno piú essere assorbiti da aumenti di produzione. Ci aspettiamo di conseguenza che i costi del petrolio aumenteranno, sia per ridurre la domanda, sia per finanziare nuovi pozzi o lo sviluppo di nuove fonti di energia. Le conseguenze che potrebbero derivare sono note dall’esperienza passata degli anni settanta e ottanta: crisi economica, disoccupazione, recessione e inflazione.


Direi che come profezia non è niente male, considerando che è stata scritta ormai quasi 10 anni fa (il libro lo avevo scritto nel 2002).







giovedì, aprile 28, 2011

ASPO-9 a Brussels: la seconda giornata




Entra nel vivo oggi il convegno ASPO di Bruxelles. Va detto che per molti di noi certe cose sono già note, quindi tralascio di relazionare su molte presentazioni - come quella di Dave Murphy sull'EROEI - che sono cose che conosciamo bene. Magari le conoscessero bene anche i politici e gli economisti, ma si sa, ormai, che questa è una pia speranza.

Invece, oggi c'erano proprio loro: gli economisti. Il primo è stato Jeff Rubin - economista canadese molto noto. Ha parlato per un'ora di cose orribili, bancarotta imminente della Grecia e del Portogallo, fine dell'Unione Europea entro un anno e mezzo, cosette del genere. Ma sempre in modo obliquo; dicendo e non dicendo. Non ha mai menzionato il picco, se non preceduto dalla parola “cosiddetto”. Alla fine, si è limitato a dire “fine della crescita”; ma ha indorato la pillola dicendo che non è la fine del mondo. Sembrava un prete dal pulpito. Sembrava un po' che dicesse , "si, siete dei peccatori e rischiate le fiamme dell'inferno, ma ora confessatevi e pentitevi, che poi tutto andrà bene."

Poi è arrivato Doug Reynolds, economista americano basato in Alaska. Reynolds lo conosciamo bene in ASPO; è stato anche in Italia su mio invito qualche anno fa. Lui ha sparato giù di brutto: altro che “no growth”. Ha fatto l'esempio dell'Unione Sovietica e parlato di iperinflazione, collasso del sistema, collasso del sistema sanitario, collasso del sistema militare. Suggerisce di fare scorta di cose come alcool e sigarette, che saranno la moneta del futuro.

A questo punto, ho chiesto ai "distinguished economists of the panel" una cosa che mi ero sempre domandato: Come mai negli anni '70 l'inflazione era tanto più alta che oggi? Devo dire che Rubin mi ha dato un'ottima risposta. In primo luogo, ha detto che c'è inflazione in paesi come Cina e India - dove le economie continuano a crescerre. Ma il punto fondamentale è che nei paesi occidentali non la vediamo per via dalla globalizzazione. Ovvero, l'inflazione ha lo scopo di distruggere il potere d'acquisto dei salari. In un regime di globalizzazione, questo si può ottenere altrettanto bene mediante lo "outsourcing", ovvero mettendo i lavoratori occidentali in diretta competizione con quelli dei paesi poveri. Hey, non vi ci arrabbiate: è così che funziona il mondo, baby!

Reynolds ha confermato, citando ancora l'Unione Sovietica e dicendo che l'iperinflazione esploderà non appena vedremo il petrolio toccare i 200 dollari al barile. A quel punto, aspettatevi di accendere la stufa con i biglietti da cento euro. Il moderatore ha ringraziato per l'ottimismo; ma in platea c'è stato un momento di gelo.

Più tardi. Eric Townsend ha dato un altro talk molto interessante su come gli investitori vedono il peak oil – semplicemente non lo vedono. Ha fatto vedere come il mercato dei Brent future sia tutto in backwardation – ovvero gli investitori non si aspettano di vedere un aumento dei prezzi; anzi. Dice townsend che quando dice ai traders “picco del petrolio” loro rispondono “picco cosa?” Una cosa veramente orribile che ha detto è che i “traders” sono gente che si crede di essere il top solo perché hanno trovato il modo di fare un sacco di soldi, ritengono che il concetto di “peak oil” sia stato completamente demolito dal crollo dei prezzi del petrolio che si è verificato nel 2008. Ahimé.

Anche Townsend si aspetta un “big crunch” nel futuro prossimo con iperinflazione e disastri vari. Si aspetta che ci sia un altro crollo dei prezzi a breve scadenza, con il dovuto collasso delle varie economie. Insomma, questa cosa gira.

Insomma, dopo questa panoramica credo che si rischia che non ci sia mai un ASPO-10, perché saremo tutti troppo occupati a coltivare patate.

Comunque, la conferenza è continuata con vari talk. Il più interessante credo sia stato quello di Euan Mearns, che è tornato al fantasma che aleggia sulla conferenza: quello della relazione fra peak oil e climate change. Euan Mearns – si sa – è un negazionista climatico, ma o ha cambiato idea oppure non lo ha dato a vedere; saggiamente. Ha fatto un discorso giusto: se aumentiamo l'efficienza energetica saremo in grado di permetterci risorse più costose – questo vuol dire che potremo continuare a estrarre risorse sporche come tar sands e shale gas. E questo vuol dire che la maggiore efficienza energetica ci potrebbe portare a emettere ancora più CO2.

Alla mia domanda se secondo lui è veramente possibile sequestrare la CO2 – Mearns risponde che secondo lui si può forse fare dal punto di vista geologico, ma è probabilmente impossibile dal punto di vista finanziario.

Domani ultimo giorno di conferenza. Relazione a seguire

martedì, gennaio 25, 2011

Roma: la fine del mondo!


Il modesto sottoscritto, Ugo Bardi, impegnato nella sua presentazione a Roma, per il convegno del Festival della Scienza che quest'anno aveva come titolo "La Fine del mondo: istruzioni per l'uso" . Sullo sfondo si vedono Kjell Aleklett, presidente di ASPO (a destra nella foto) , e il moderatore, Emanuele Perugini. (foto di Giovanni Marocchi)


Gli organizzatori del convegno di quest'anno della serie "Il festival della scienza" hanno avuto un certo coraggio a intitolarlo "La fine del mondo: istruzioni per l'uso". Il rischio era di farsi dare di catastrofisti, allarmisti, distruzionisti, disumanisti e chissà che altro. Però, se l'idea è di spettacolarizzare un po' la scienza per renderla interessante per il grande pubblico, allora bisogna un tantino calcare la mano. Il titolo serve per attirare l'attenzione, l'importante è che i contenuti siano corretti.


E così, a Roma in questi giorni si è visto un giro di conferenze su tutti quegli argomenti che fanno un po' rabbrividire - dai buchi neri alle collisioni asteroidali. Da quel che ho visto e che mi hanno riferito, mi sono parse tutte conferenze di ottimo livello.


Parlando di catastrofi e cose del genere, non poteva mancare un incontro sul picco del petrolio al quale abbiamo partecipato il sottoscritto, Ugo Bardi, e Kjell Aleklett, presidente di ASPO internazionale.

Aleklett ha fatto un intervento molto dettagliato e articolato. Le sue conclusioni sul picco, probabilmente le conoscete, ma comunque il risultato è che siamo più o meno sul picco, anche se è possibile traccheggiare ancora un po' sul "pianoro produttivo" che dura ormai dal 2004. Aleklett ha un suo blog, dove potete trovare molte delle sue conclusioni e dei suoi studi. Ecco Kjell in tutto il suo fulgore mentre parla al convegno.




Per quanto riguarda la mia presentazione, ho cercato di dare più spazio - come vogliono le norme della cortesia - al nostro ospite dall'estero e ho fatto una cosa più breve dove sono concentrato sull'interazione fra il picco del petrolio e il riscaldamento globale. Trovate una descrizione del mio intervento sul blog "Cassandra".


Con 500 persone ad ascoltare, credo che sia stato un notevole successo. Personalmente, non avevo mai parlato a tanta gente tutta insieme. Aleklett stesso mi ha detto che neanche lui aveva mai avuto un'udienza così numerosa. Molta gente mi è parsa parecchio interessata, abbiamo avuto molte domande e non riuscivamo più nemmeno a uscire dalla sala perché ce ne facevano ancora dopo che la conferenza era finita.


Questo vuol dire che il picco del petrolio è diventato "mainstream"? Difficile dire. In un convegno come questo, si rischia di far finire il picco nella stessa categoria di cose catastrofiche ma improbabili e remote, tipo vedere la Terra colpita da un mega-asteroide o risucchiata da un buco nero. Invece, il picco non è né improbabile né remoto: è una cosa certa e vicina nel tempo.

Bene, comunque è qualcosa anche questo.




giovedì, dicembre 09, 2010

L'Italia dopo il picco del petrolio

Nel panorama delle democrazie occidentali, il sistema politico italiano si configura come un’anomalia rispetto allo schema prevalente fondato sul conflitto dialettico tra due aree politico – culturali, quella di tradizione socialista o socialdemocratica e quella che genericamente possiamo definire conservatrice – liberale.

La storia del nostro paese ha determinato la natura di questa anomalia. Dopo la disfatta della seconda guerra mondiale, il quadro nazionale fu monopolizzato da due partiti molto lontani dagli orientamenti politici europei: la Democrazia Cristiana, espressione politica delle masse cattoliche escluse fino a quel momento dal “non expedit” di Pio IX e il Partito Comunista strettamente collegato al regime stalinista.
In conseguenza di questa situazione, l’Italia divenne di fatto uno snodo cruciale tra i due blocchi contrapposti facenti capo agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica. Ciò determinò da una parte la subordinazione degli interessi nazionali alle potenze dominanti, dall’altra sancì una tutela politica extra istituzionale da parte dello Stato Vaticano e del movimento comunista internazionale.
Queste condizioni storiche consentirono la cristallizzazione per circa cinquant’anni del quadro politico nazionale e solo dopo il crollo del muro di Berlino il sistema implose, deflagrando rapidamente e rovinosamente sulla spinta di Tangentopoli.

Da allora, e sono passati vent’anni, assistiamo a una lunga serie di scosse di assestamento che stanno modificando radicalmente il sistema politico senza però condurlo ancora verso una configurazione moderna di tipo europeo. Le ragioni di una perdurante anomalia sono da ricondurre al processo contraddittorio di trasformazione della sinistra italiana, per ora materializzatosi in un Partito Democratico dall’incerta identità, alla discesa in campo di un partito legato agli interessi personali di un imprenditore privato, all’emergere di una forza politica nel nord del paese che propone addirittura la rottura dell’Unità nazionale.
Come un fenomeno carsico riemergono in superficie tendenze e pulsioni distruttive presenti nel corpo sociale del paese sin dalla sua costituzione, tenuti compressi durante la guerra fredda: le conseguenze di un processo unitario incompleto, la carenza di senso dello Stato, l’immaturità democratica che spesso sfocia nel populismo e nel desiderio dell’uomo forte.

Ma si tratta a mio parere solo di un passaggio di fase che dovrebbe condurre in breve tempo a una configurazione più stabile, favorita dalle particolari condizioni storiche, economiche ed ambientali.
La crisi economica strutturale che stiamo vivendo e il sopraggiungere del picco del petrolio accentueranno le differenze sociali e, conseguentemente, l’evoluzione del Partito Democratico verso una formazione politica di tipo socialdemocratico in grado di rappresentare adeguatamente la spinta verso una redistribuzione del reddito tra le classi sociali.
Le sempre maggiori esigenze di autosufficienza economica ed alimentare sbaraglieranno le residue velleità secessioniste della Lega, in favore di una maggiore integrazione delle aree del paese. L’inevitabile declino del berlusconismo, se non altro per ragioni anagrafiche, favorirà l’aggregazione di nuove forze politiche di ispirazione cattolica e di una nuova destra di stampo liberale.

In definitiva potremmo avere, invece della temuta disgregazione del paese, una maturazione politica e culturale in una situazione di declino economico. Molto affascinante come tema di studio.

lunedì, novembre 15, 2010

300 anni di storia del petrolio in 5 minuti



Questo video di Tod Brilliant è in inglese, ma è facilmente comprensibile e vale decisamente la pena di perderci i 5 minuti che richiede. L'originale è qui.

giovedì, settembre 16, 2010

Picco del petrolio e trasporti


Ospitiamo volentieri questo articolo che ci ha inviato Giorgio Nebbia, prestigioso decano dell'ambientalismo italiano. Ci ricorda che le principali conseguenze del picco petrolifero riguarderanno il settore dei trasporti e che sarà necessario un radicale cambiamento nei sistemi urbani e della mobilità di cose e persone. Siamo completamente d'accordo con lui e in questo blog non perdiamo occasione per ricordare l'obiettivo prioritario di investire risorse verso i moderni sistemi di trasporto collettivo su ferro.

Scritto da Giorgio Nebbia


Dove troveremo tutto il petrolio per far camminare mille milioni di autoveicoli, che aumentano in ragione di circa 50 milioni all’anno? Finora il pericolo di un impoverimento delle riserve mondiali di petrolio è stato oggetto di analisi da alcuni “pessimisti”; altri, ancora più pessimisti, hanno ricordato le previsioni fatte nel 1956 da un certo Hubbert secondo cui si sta avvicinando, o si è già verificato, un “picco” nella quantità di petrolio estratto dalle riserve, al di là del quale non sarà facile, forse neanche possibile, far aumentare la quantità di petrolio prodotta ogni anno, oggi circa 4300 milioni di tonnellate. “Il picco” non dice che il petrolio mancherà, ma che ce ne sarà sempre di meno disponibile nelle viscere della Terra.
Da tempo alcuni governi e le imprese fanno fare degli studi di previsioni sull’entità delle riserve di petrolio nel mondo. Nei giorni scorsi un articolo del settimanale tedesco “Der Spiegel”, generalmente bene informato, riferisce che una speciale sezione di studi sul futuro del Zentrum für Transformation (il centro per l’analisi delle trasformazioni) dell’esercito tedesco avrebbe redatto un rapporto, ancora riservato, destinato al governo tedesco, in cui sono indicati alcuni scenari di mutamenti della politica sia diplomatica sia militare necessari nel caso in cui si verifichi davvero una diminuzione della disponibilità del petrolio nel mondo. Il fatto che se ne occupino i militari fa pensare che la cosa sia seria.
Il petrolio è indispensabile e per ora non sostituibile: con l’elettricità si possono far funzionare le industrie, scaldare le abitazioni, assicurare alcuni trasporti, e l’elettricità può essere ottenuta anche senza petrolio, utilizzando il carbone, il gas naturale, con il moto delle acque e con le forze del Sole, del vento, eccetera, ricorrendo, se si vogliono accettarne i rischi ambientali, i costi e i pericoli, all’energia nucleare. Ma il settore dei trasporti stradali di persone e merci, basato sui motori a combustione interna, quelli degli attuali camion e automobili, richiede un carburante liquido che può essere ottenuto soltanto dal petrolio (i carburanti derivati dall’agricoltura hanno per ora soltanto un uso e prospettive marginali), e che rappresenta circa un terzo di tutta l’energia prodotta e consumata nel mondo.
Qui non si tratta di discutere sui mutamenti climatici, sull’inquinamento dell’atmosfera, sulla salute, sui costi monetari dell’energia, dei trasporti, delle merci; si tratta di discutere di dove e di come andare a prendere il petrolio. Chi possiede il petrolio è padrone del mondo; possono essere musulmani o cristiani, dittatori o buoni governanti. Esclusa, come hanno dimostrato le guerre perdute in Irak, Afghanistan Asia centrale, Somalia, la conquista militare dei pozzi petroliferi o degli oleodotti altrui, chi ha bisogno di petrolio dovrà trattare con i padroni del petrolio e baciargli le mani. Il gesto del presidente del consiglio dell’Italia (che dipende quasi totalmente dalle importazioni del petrolio) nei confronti di Gheddafi, può aver anticipato quello che tanti altri governanti dovranno fare adottando un nuovo stile di diplomazia.
Bisognerà diventare amici dei padroni del petrolio e nemici dei loro nemici; si profilano nuovi rapporti con Israele e gli stati arabi, fra paesi cristiani e quelli musulmani. Chi possiede il petrolio diventerà ricchissimo, il che porterà ad una nuova stratificazione di classe; oggi i nuovi ricchissimi sono arabi, musulmani, asiatici, russi e li ammireremo e adoreremo, al loro arrivo, con le loro favolose barche e ville, magari dimenticando che fanno i generosi spreconi con i soldi portati via a noi assetati di petrolio, destinati a diventare più poveri. Bisognerà andare a cercare petrolio da qualsiasi parte: nei mari profondi, negli scisti bituminosi, nelle distese ghiacciate dell’Artico, nelle paludi dei fiumi africani, in mezzo alle foreste tropicali. Altro che salvaguardia delle pantere e conservazione della natura.
Quanto meno accessibili saranno le riserve, tanto maggiore sarà la devastazione ambientale; lo si è visto nel Golfo del Messico, perché i giornali ne hanno parlato, ma i giornali non parlano delle diecine di sversamenti e inquinamenti del petrolio che ogni anno si verificano in qualche parte nel mondo, negli oceani e nei porti dalle petroliere. Pochi numeri indicano quanto sia grande la dipendenza dai padroni del petrolio ormai non solo dell’Europa e Nord America, ma anche dei nuovi giganti industriali asiatici. Ogni autoveicolo nel mondo consuma ogni anno, in media, duemila litri di benzina o gasolio e per produrre 1000 litri di carburante occorrono circa due tonnellate di petrolio. In Italia i circa 40 milioni di autoveicoli circolanti richiedono ogni anno circa 40 miliardi di litri di carburanti.
Solo una piccola frazione di questi carburanti potrebbe essere sostituita da alcol etilico o biodiesel di origine agricola, necessari, certamente, ma non risolutivi. I veicoli elettrici o quelli con minori consumi di carburanti, fanno diminuire solo di poco la richiesta di petrolio. Se i governi, soprattutto nei paesi industriali, non avranno il doloroso coraggio di proporre di comprare meno automobili, di avviare una nuova pianificazione energetica e radicali cambiamenti nella mobilità delle persone e delle merci, nella struttura delle città, nella localizzazione delle abitazioni e dei posti di lavoro, nei processi produttivi, in modo da rallentare la crescente richiesta di petrolio, dovranno essere preparati non solo a maggiori costi monetari pubblici e privati, ma a gravi forme di dipendenza politica e di instabilità e insicurezza.
Dovranno essere preparati a devoti rapporti con capi politici e religiosi oggi considerati impresentabili, solo per sfuggire al ricatto della chiusura degli oleodotti che portano nelle nostre strade il petrolio indispensabile per muoverci e vivere. E chi volesse fare lo schizzinoso, come Pinocchio quando si è rifiutato di spingere il carretto di carbone, può sentirsi dire: “Mangiati due belle fette della tua superbia e bada di non prendere un’indigestione”.

domenica, agosto 01, 2010

Aspo censurata

Sul Sole 24 Ore di lunedì 26 luglio è apparso un articolo di Giorgio S. Frankel dal titolo “L’incognita del picco petrolifero”, che dà conto in maniera un po’ confusa delle varie previsioni sulla data del picco petrolifero. Non mi soffermo su cose che i lettori di questo blog già conoscono come il recente allarme lanciato dallo Stato Maggiore statunitense, gli errori di previsione e le successive smentite dell’Agenzia Energetica Internazionale.
Mi preme sottolineare che ASPO non viene mai nominata direttamente, anche se nell’articolo si fa esplicitamente riferimento alle sue previsioni in materia di picco. Così, se “organismi molto influenti” come AIE ed EIA avevano previsto il picco dopo il 2030, “altri l’avevano già previsto per questi anni”. Inoltre, “oggi, all’improvviso, si parla del 2014 – 2015 non da parte di scienziati militanti (?) e no global”.
Ma il colmo di questa strana censura si raggiunge nella pubblicazione, a margine dell'articolo, del grafico (riportato anche sul sito di Aspoitalia) corrispondente alle previsioni di ASPO internazionale relative alla produzione mondiale di greggio e gas, dove la fonte viene completamente omessa.
Speriamo che si tratti solo di un refuso e non di un tentativo inutile quanto maldestro di occultamento del merito innegabile della nostra associazione di aver previsto e denunciato da tempo quello che altri si ostinavano a negare.

mercoledì, luglio 21, 2010

Petrolio: sembra confermato il picco nel 2008


Gli ultimi dati sulla produzione petrolifera, da Rembrandt Koppelaar (cliccare per ingrandire)


Gli ultimi dati sulla produzione petrolifera sembrano confermare che il picco del petrolio, inteso come picco di produzione di energia fossile, è stato nel 2008. La tendenza all'aumento della produzione che era iniziata nel 2009 si è interrotta ben prima di raggiungere di nuovo il massimo di quasi 88 milioni di barili al giorno che si era visto nel Luglio del 2008. 

La tendenza è ancora più evidente se guardiamo i dati depurati dai biocombustibili (figura a destra). E' sensato non considerare i biocombustibili perché si tratta principalmente di bioetanolo prodotto con sussidi sia finanziari sia energetici. In sostanza, per fare bioetanolo bisogna consumare quasi altrettanta energia dai fossili di quanta poi se ne ricava (e, secondo alcuni, un po' di più). Quindi, i biocombustibili sono una perdita netta e non andrebbero contati.

Rimane da discutere l'ultimo dato dell'IEA, che indica che la capacità produttiva mondiale è in aumento, nonostante la stasi della produzione. Questo dato va preso con molta cautela: i dati sulla produzione sono reali e verificabili, quelli sulla "produttività" molto meno. Ma è probabile, in effetti, che esista una certa capacità produttiva che non viene sfruttata. E' tutto parte del gioco della domanda e dell'offerta che fa si che ci si mantenga su questo equilibrio precario di stasi produttiva. In effetti, non inizieremo la discesa fino a che non avremo esaurito questo divario fra capacità produttiva e produzione.

lunedì, luglio 19, 2010

Un pozzo di petrolio “rovesciato”



Uno zoom sui pannelli termici (affiancati al FV) che ho messo sul tetto di casa mia.
Semplici soluzioni che accomunano tanti lettori del blog


La questione del picco del petrolio e degli idrocarburi in genere (HC) è, per sua natura, molto difficile da afferrare in tutte le sue molteplici implicazioni.

Da una parte, i media sparano qua e là notizie di nuovi giacimenti giganti (soprattutto in Brasile e al Polo Nord), di tecnologie innovative di estrazione a resa elevata, di ingenti riserve di petrolio non convenzionale (scisti bituminosi canadesi); dall’altra, ASPO ed altri think tank indipendenti cercano di informare la comunità, scientifica e non, dell'imminenza del peak oil e della delicatezza di questa transizione verso una società a basso consumo (vedere la recente lettera alle amministrazioni regionali).
Tra l'altro, il recente incidente alla piattaforma off-shore della BP è un chiaro indicatore del proliferare di punti di estrazione che vanno ad avventurarsi in zone sempre più estreme, tanta è la fame di greggio; questo argomento è stato eccellentemente esposto in questo pezzo pubblicato da Debora Billi su Petrolio.

Secondo la nostra associazione, il grow up di un’infrastruttura rinnovabile delocalizzata e diversificata (privilegiando le "attitudini" del territorio per estrarre il massimo EROEI dalle nuove tecnologie più promettenti) è estremamente urgente; del resto, gli indicatori macroeconomici sono sempre più chiari, e il loro andamento non può essere imputato a una “cattiva gestione estemporanea dei fondamentali dell’economia” da parte di pochi, sprovveduti enti responsabili.
Quando si parla di disoccupazione diffusa, sovraproduzione industriale, aumenti a fiotti dei costi dei carburanti e delle materie prime in genere, difficoltà delle banche a sostenere il credito, Stati a rischio default (Grecia e non solo),  tutto ciò può essere giustificato solo con la diminuzione della velocità di  “offerta” da parte della fonte di energia primaria, gli idrocarburi appunto.

Un eccesso di ottimismo verso l’utilizzo di HC a basso EROEI (quali le sabbie bituminose) o di petrolio “spremuto” da giacimenti in forte declino potrebbe davvero lanciarci in una mission impossible, fatta di illusioni, ulteriore spreco di risorse e prezioso tempo perso; per non parlare poi dei rischi di disastro ambientale.

Vi propongo la seguente recente elucubrazione, sulla cui base è possibile fare un parallelo logico (in termini di energia spesa ed energia recuperata): gli scisti bituminosi stanno al petrolio convenzionale come un impianto solare termico mal parametrato sta a uno correttamente gestito.

L’altro giorno stavo mettendo a punto alcuni coefficienti della centralina elettronica del mio solare termico. Tra questi vi è il salto di temperatura minimo (tra la mandata dei collettori e l’accumulo) al di sotto del quale la pompa non viene azionata. Ossia, se la quantità di calore “recuperabile” è bassa, come ad esempio al mattino presto e la sera verso il tramonto, ci potrebbe essere svantaggio energetico nel mantenere il processo di circolazione forzata. Questo dipende anche dall’altezza dei collettori solari rispetto all’accumulo. Se ad esempio l’altezza è di 10 metri, potrebbe essere svantaggioso mantenere le pompe (circa 200 W) se, visto il sole flebile, il salto termico è di soli 1-2 °C e la potenza termica corrispondente recuperata è di 150-200 W [Per circuiti in pressione, e in casi limite si potrebbe addirittura verificare che stiamo alimentando le pompe con il risultato di far funzionare i pannelli come un dissipatore di calore, diminuendo così la temperatura dell’accumulo].

Un ragionamento ingenuo porterebbe a dire che si sta comunque recuperando calore, mentre considerazioni energeticamente realistiche portano invece a concludere che si sta effettivamente lavorando in pareggio scarso o in perdita. Come si suol dire, "per la gloria" di un'ideologia.
Sarebbe meglio impiegare quella potenza elettrica per far girare una pompa di calore, che garantirebbe una produzione termica di 3-4 volte superiore. Piuttosto, a meno di un disperato bisogno di acqua calda (non è indispensabile fare 3 docce al giorno), è meglio fermare le pompe. In ogni caso, una classica resistenza elettrica in questo contesto garantirebbe la stessa prestazione, con il massimo della semplicità in componenti.
Impostando correttamente il salto termico minimo per l’azionamento della pompa, è possibile osservare nelle fasce orarie più favorevoli (dalle 10 alle 15 in primavera) un rapporto tra energia spesa per la pompa e energia termica recuperata fino a 1:15 , e anche 1 : 20 nei momenti di picco di insolazione.

Come si può vedere, spendere lavoro è bello e nobilita, ma bisogna farlo in modo “saggio”, entrando in risonanza con i flussi rinnovabili. Tutto il resto è tempo perso, distorsione psicologica, è pericolosa produzione di entropia... in un momento storico in cui lo spettro della "transizione al caos" aleggia come non mai.