martedì, settembre 29, 2009

Il picco dell'insegnamento

Pietro Abelardo (1079-1142) fu uno dei primi docenti universitari europei. E' ben noto ancora oggi il suo interesse non solo professionale nei riguardi di una sua studentessa, Eloisa. E' ben nota anche la disavventura che ne seguì con lo zio della stessa. Ma, a parte questo, doveva essere un insegnante formidabile per oratoria ed erudizione. Si racconta che, quando fu cacciato da Parigi per aver offeso qualche collega, i suoi studenti lo seguirono in esilio. Costruirono per lui un oratorio e si accamparono intorno, soltanto per sentire le sue lezioni. Ho qualche dubbio che una cosa del genere non si verificherebbe tanto facilmente per i docenti universitari di oggi.



Quando mi chiedono se sono un insegnante, rispondo che, beh, non è il caso di esagerare. Diciamo che certi giorni entro in una stanza buia e ci trovo dei ragazzi seduti. Parlo per un'oretta, loro scribacchiano qualcosa su dei loro quaderni, dopo di che se ne vanno. Se questo voglia dire "insegnare" è cosa aperta al dibattito.

Ormai sono buoni trent'anni che entro in quelle stanzette buie dove ci sono dei ragazzi seduti. Nel tempo, mi sono progressivamente reso conto di come sia perfettamente possibile insegnare (o, piuttosto, pretendere di insegnare) senza aver capito nulla di quello che uno insegna (o pretende di insegnare). Mi sono accorto che alcuni aiuti tecnologici, specialmente il powerpoint, permettono di accumulare tranquillamente ore e ore di lezione (come si dice "frontale") semplicemente leggendo testo scritto sullo schermo senza aver la minima idea, o quasi, di quello di cui uno parla. Ho il vago dubbio che questa situazione non sia tanto poco comune, ma non ho statistiche in proposito - solo aneddotica spicciola che mi raccontano gli studenti.

Insegnare per davvero non è cosa facile. Perlomeno, non è stato facile per me. Credo che sia meglio stendere un velo pietoso sui miei primi tentativi di neolaureato di insegnare la meccanica quantistica che sta alla base del legame chimico. Ma credo, piano piano, di essere migliorato e mi pareva anche che - miracolosamente - qualcuno dei miei allievi anche capisse qualcosa di quello che provavo a spiegare. Forse riuscivo davvero a essere un "insegnante." Non certamente da paragonare a Abelardo da Parigi (e, per fortuna, non mi è mai capitato niente di simile in termini di interesse non professionale verso una studentessa). Ma, insomma, a un certo punto della mia carriera mi è parso di essere moderatamente capace di fare il mio mestiere.

Ho anche l'impressione, però, di essere passato attraverso un qualche "picco dell'insegnamento" diversi anni fa. Mi sono accorto che qualcosa stava andando storto mentre insegnavo (o pretendevo di insegnare) a un laboratorio di esercitazioni di Chimica Fisica. E' stato qui che ho visto per la prima volta una crepa nell'edificio dell' "educazione superiore" che mi ha fatto improvvisamente capire quanto fosse pericolante. E' stato quando un gruppetto di studenti sono venuti a lamentarsi da me perché il manuale di istruzioni di uno degli strumenti che stavano utilizzando era in inglese. Lo volevano in italiano.

Ci sono rimasto di sasso. Sapere l'inglese è una dote fondamentale per un professionista in campo tecnico-scientifico. Se non lo sai, sei come un pianista che non sa leggere la musica: puoi anche fare qualche bello svolazzo alla tastiera, ma non sei un professionista. Che questi ragazzi, ormai al terzo anno di chimica, non avessero chiara questa cosa mi ha spiazzato. Ma era solo l'inizio.

Da buoni dieci anni insegno (pretendo di insegnare) una materia che si chiama "chimica fisica dei materiali". Non ho mai capito esattamente cosa si dovesse intendere con questo astruso titolo, ma l'ho sempre inteso seguendo un'indicazione che mi aveva dato un mio vecchio professore che mi diceva "La chimica fisica è la scienza delle cose interessanti". Così, avevo preparato un corso che conteneva tutte le cose che trovavo interessanti nella scienza dei materiali. C'era una disquisizione sulle astronavi interstellari, una su Mazinga robot, la teoria statistica degli elastomeri e tanta bella meccanica quantistica applicata ai semiconduttori spiegata sulla falsariga delle mitiche lezioni di fisica di Feynman. Mi ci ero impegnato parecchio, scrivendo anche delle dispense.

Bene, questo corso sembra che stia seguendo il destino di un pozzo di petrolio che via via si esaurisce. Piano piano, ha sempre meno pressione e la produzione cala. Ho dovuto tagliarne gran parte, perché semplicemente gli studenti non riuscivano a seguire. Via la meccanica quantistica, via tutte le trattazioni di meccanica statistica. Sempre meno cose, sempre di più un corso di livello liceale; non universitario. E, anche così, agli esami i ragazzi spesso si trovano completamente ammutoliti di fronte a domande che cerchino, anche minimamente, di verificare se hanno capito le cose che hanno letto.

Cosa sta succedendo agli studenti? Colpa della televisione? Dei videogiochi? Di Internet? Di Bin Laden? Ma forse non è colpa degli studenti. Forse è il diluvio di informazioni che ci arriva addosso a tutti che ha spiazzato studenti e docenti allo stesso modo. Al tempo di Pietro Abelardo, i docenti erano depositari di informazioni che solo loro possedevano. Ma oggi, con Internet a disposizione, chiunque può trovarsi sullo schermo a casa proprio più cose e più dati di quanto anche il docente più preparato può fornire. E gli studenti, al tempo di Pietro Abelardo, erano all'università soltanto per farsi una cultura. Ma, oggi, sono li' per farsi un pezzo di carta che poi gli potrebbe servire per la loro carriera o, più probabilmente, per sentirsi dei sotto-occupati mentre lavorano al call center.

E' un paradosso che la nostra società ha sviluppato una sapienza scientifica senza uguali nella storia dell'uomo, ma che questa sapienza rimane comprensibile soltanto a un'elite infinitesimale in termini numerici. Il resto dell'umanità ne è completamente tagliato fuori. Non solo ne è tagliato fuori, ma anche reagisce aggressivamente quando l'elite scientifica pretende di farsi sentire avvisando, per esempio, del pericolo del riscaldamento globale o di quello dell'esaurimento dei combustibili fossili. Questo fallimento nel basare i meccanismi decisionali della società sulla scienza e sul metodo scientifico ci causerà - e ci sta già causando - dei danni spaventosi.

Credo che dovrei finire questo post indicando qualche possibile soluzione per cercare di smuovere il blocco decisionale in cui ci troviamo. Il problema è che non so quale possa essere una soluzione. Forse dovremmo impegnarci di più per divulgare la scienza alle masse. O forse dovremmo lasciar perdere le masse e concentrarci sui "decision makers" (ovvero "parlare all'orecchio del principe"). O forse far rinascere il movimento dei "tecnocrati" come aveva fatto Hubbert ai suoi tempi ("tutto il potere agli scienziati").

In qualche modo, non mi sembra che nessuna di queste possibilità sia molto promettente. Cosa vi posso dire? Quest'anno, comincia un nuovo anno accademico e mi ritrovo di nuovo a iniziare il mio corso. Posso solo provare a fare del mio meglio.

domenica, settembre 27, 2009

Tutta colpa del Sole?


Che il Sole abbia effetti sul clima non ci piove. Il minimo di Maunder, un periodo tra il 1645 e il 1715 in cui non si osservarono macchie solari, corrisponde molto bene con il momento più rigido della piccola era glaciale. In generale, quando l'attività solare (misurata ad esempio contando le macchie) si è ridotta, la temperatura è diminuita. Periodi freddi corrispondono ad es. al minimo di Dalton (ispiratore di un blog che cerca di dimostrare come sia tutta colpa del Sole), intorno al 1800. Quindi è naturale che si cerchi di capire se e quanto il Sole contribuisca al riscaldamento globale in atto. Ed è comprensibile lo facciano con maggior foga le persone che dubitano, per altri motivi, della tesi per cui è colpa nostra.

Lavorando in un osservatorio che è tuttora molto coinvolto nella fisica solare, ho modo di parlare con i colleghi di queste cose. Il consenso generale è che il Sole contribuisca piuttosto poco, tra il 15 e il 25% del totale, al riscaldamento. Ultimamente una teoria aveva ipotizzato che quando il Sole è quieto arrivino sulla Terra più raggi cosmici, questi producano nuvole e quindi alterino il clima. Si è quindi misurato anche quanti raggi cosmici arrivano effettivamente[1] e ancora le variazioni che si vedono non sono sufficienti a spiegare il recente aumento della temperatura. Se ne è anche parlato in questo blog, facendo notare come l'accordo tra sunspot number e temperatura vada a farsi benedire negli ultimi 15-20 anni.

Ma (giustamente) uno scienziato non demorde, e si continua a sfornare ipotesi. Qualche anno fa alcuni astronomi hanno osservato che la correlazione con la temperatura era migliore se come indice dell'attività solare si utilizzava il cosiddetto indice di attività geomagnetica AA. In particolare la cosa è molto gettonata sul blog climatemonitor, ma ho ritrovato articoli che ne parlano[2]. Mi sono quindi preso i dati, grazie anche a un lettore di quel blog, e ho fatto il grafico qui sotto.

Tutti questi grafici son fatti nello steso modo, per cui spiego solo il primo. In nero ho graficato l'andamento della temperatura globale, riferita alla media degli anni '50 (uguale in tutti i grafici). In blu ho riportato l'indice che tento di correlare, scalato in modo da riprodurre al meglio la curva di temperatura (regressione lineare, una tecnica statistica standard). In rosso c'è quel che resta, la parte di variazioni di temperatura che non è possibile spiegare con l'indice che ho esaminato. L'ampiezza media della curva rossa è riportata in basso, in questo caso circa 0.12 gradi. Più piccolo è questo numero, tanto meglio ho riprodotto la mia curva di temperatura. Insomma lo scopo del giochino è trovare una curva blu (modello) il più uguale possibile a quella nera (vera), e la curva rossa (residui) mi dice quanto ho sbagliato

L'attività solare oscilla con un periodo di 11 anni e la temperatura no, e per questo ho mediato i dati su 11 anni. Come conseguenza della media ho dovuto scartare i primi e gli ultimi 5 anni, in cui non ho i dati per calcolare una media sensata.

Bene, se non si tiene conto degli ultimi anni l'accordo è impressionante, il coefficiente di correlazione che si ottiene è R=0.84. Ma non c'è verso di far sparire quel picco finale nei residui, quasi mezzo grado che il Sole proprio non spiega.

L'accordo diventa molto migliore se si media su 22 anni (due cicli solari, o un ciclo solare completo), con R=0,9. Ma in questo caso devo buttar via altri 5 anni e gli articoli che trovano questa bella correlazione sono del 2005, altri 4 anni scartati. Alla fine sparisce proprio quel problematico picco finale tra +0,2 e +0,4 gradi nella curva rossa.

Bene, ma la CO2? Se faccio lo stesso lavoro utilizzando come forzante la concentrazione di CO2 in atmosfera ottengo questo:

La CO2 varia molto più regolarmente, con meno bozzi, ma riproduce l'andamento delle temperature osservate molto meglio (R=0,94). I residui sono quasi la metà che nel caso precedente anche se la rampa tra il 1910 e il 1940 è chiaramente dovuto ad altro. Evidentemente la verità sta nel mezzo, ma quanto? Bene, basta provare a utilizzare un mix dei due, e vedere per quale "ricetta" ci riproduce meglio i dati.


Detto fatto, ci vuole un 22% di Sole e un 78% di CO2. Probabilmente c'è dell'altro, e difatti i modelli dell'IPCC non sono così semplici, ma siamo arrivati da qualche parte anche solo con questi semplici conti:


  • L'accordo tra AA-Index e temperatura non è molto migliore di quello tra altri indicatori di attività solare e temperatura. Tutti questi indicatori non spiegano assolutamente l'aumento di temperatura degli ultimi 20 anni, che invece corrisponde benissimo all'incremento di CO2

  • Se confronto una temperatura, una concentrazione di CO2, e un'attività solare che stanno aumentando tutti nel tempo, otterrò comunque buone correlazioni. Per discriminare devo usare periodi in cui un indice aumenta ed uno cala, altrimenti correlo benissimo gli aumenti di temperatura anche con la crescita del pino secolare al Ponte al Pino a Firenze.

  • Per ottenere un buon accordo si media i dati su un periodo lunghissimo. Ma in questo modo si scartano quelli degli ultimi anni, in cui appunto la CO2 sale e l'AA scende

  • Se medio su tempi lunghissimi ho pochi dati (un secolo campionato ogni 22 anni fa circa 5 punti buoni). Con pochi punti un accordo si ottiene più facilmente

  • Devo confrontare le due ipotesi. La bontà di una correlazione da sola dice poco. Meglio se faccio un fit con le due ipotesi, e mi faccio dire dai dati il peso relativo delle due componenti.
Ultima nota: l'attività solare spiega benissimo come mai ultimamente la temperatura non sia cresciuta. Il che significa che se l'attività solare non contasse, le temperature sarebbero un decimo di grado più calde di quanto siano ora.

Qualche riferimento:
[1] A. D. Erlykin, T. Sloan, A. W. Wolfendale: "Solar activity and the mean global temperature" Environmental Research Letters (2009)
[2] K. Georgieva, C. Bianchi, B. Kirov; "Once again about global warming and solar activity", Mem. SAIt 76, 969 (2005)

sabato, settembre 26, 2009

Se non c'è Baresi, Costacurta non sa giocare: ovvero, il riscaldamento globale visto come una partita di calcio


Questo quadro di Guttuso rende bene l'idea dell'atmosfera di quello che poteva essere un bar o una casa del popolo in Toscana all'epoca in cui la briscola regnava sovrana (in effetti, dal numero di carte questi sembrano piuttosto giocare a scopone). Manca il sonoro, incluso il turpiloquio, per il quale vi potete fare un'idea vedendo il film di Roberto Benigni "Berlinguer ti voglio bene"



Poco tempo fa, fermatomi per un caffé in un circolo ARCI di Firenze, mi sono imbattuto in una visione di altri tempi: almeno trenta pensionati in una saletta laterale, impegnati a giocare a carte. Mi è parsa una visione equivalente a quella di ritrovare i dinosauri vivi e vegeti in un'isola remota, come in Jurassic Park.

Nella mia gioventù, a partire dagli anni '60, gli spazi di interazione sociale erano più che altro nelle case del popolo, nei più rari circoli cattolici, e nei bar all'angolo. All'epoca, per un maschio in via di maturazione, inserirsi in questo mondo era una piccola iniziazione non enormemente diversa, immagino, dai vari riti di passaggio in uso nelle varie tribù indiane di una volta. Fra gli indiani, (come si legge in Tex Willer) immagino che si dovesse imparare a cacciare il bisonte, a fumare il calumet e a parlare con cognizione di causa di Manitù o forse della manifattura delle punte di freccia. Nei circoli ARCI dovevi imparare a giocare a carte e a parlare di sport, soprattutto di calcio; il tutto possibilmente condito con adeguate forme di parolacce in dialetto toscano.

Devo dire onestamente che, come giovane iniziato alla casa del popolo sono sempre stato pessimo. Traslato nei termini di una tribù indiana (col dizionario di Tex Willer), penso che mi avrebbero dato il nome di Attah-Katah-Altram ovvero, "quello-che-tossisce-perché-ha-fumato-il-calumet-e-fa-scappare-il-bisonte." Questo non era dovuto alla briscola, dove mi difendevo più che bene, ma piuttosto nella mia incapacità quasi totale di argomentare di calcio (o di sport, in generale).

Mi dispiace dover dire che la logica dell'argomentazione calcistica è sempre stata al di sopra delle mie capacità di comprensione. In disperazione, ho tentato varie tattiche, fra le quali spacciarmi per tifoso di squadre poco conosciute, tipo l'Atalanta. Questo, curiosamente, sembrava darmi quasi un certo prestigio - un po' come i pesci studiati da Konrad Lorenz che riuscivano a conquistarsi un piccolo territorio in un angolo dell'acquario. Ma questo modesto guadagno territoriale spariva rapidamente quando qualcuno andava a scoprirmi le carte chiedendomi, per esempio "ma chi hanno come centravanti?" Mi sembrava di essere una spia straniera che cerca di infiltrarsi nel comando nemico, ma il suo accento lo tradisce.

Anni fa, mi ricordo di essere rimasto assolutamente spiazzato di fronte a uno che si è espresso pubblicamente in totale convinzione dicendo che "Se non c'è Baresi, Costacurta non sa giocare". Mi ha fatto l'effetto di un piccolo satori zen che ti arriva dopo la contemplazione di un koan misterioso, tipo quello dell'oca chiusa in una bottiglia. Quale misteriosa creatura poteva essere questo Costacurta che si cimentava sui campi di serie A (presumo) senza saper giocare? Mi è venuta in mente la scena di questi due sul campo, con quello chiamato Baresi che continua a ripetere a quell'altro, chiamato Costacurta, "Imbecille! Quante volte ti devo ripetere che devi prendere a calci quell'affare tondo!"

Ma non c'è niente da fare: in tutte le società umane ci sono delle regole che devi seguire se vuoi mostrare la tua appartenenza al gruppo e, se sei un maschio, la tua virilità. Se fra gli indiani bisognava saper cacciare il bisonte (sempre secondo Tex Willer), nella società Italiana della seconda metà del ventesimo secolo, queste regole implicavano la capacità di argomentare in modo convinto, e possibilmente condito con adeguate parolacce, sulla bontà delle scelte di questo o quell'allenatore e sulla disposizione di certi giocatori in forma di mediani, terzini, centrocampisti o che diavolo altro.

Non è cosa facile. Provatevi ad argomentare in modo convincente (con o senza parolacce) l'affermazione "Se non c'è Baresi, Costacurta non sa giocare". Affermazione probabilmente falsa, quasi certamente indimostrabile, da intendersi forse come un'iperbole. La darei come affine ai paradossi di Zenone, ma credo anche che Protagora e la sua scuola dei sofisti l'avrebbero inclusa nella scienza dell'eristica, ovvero l'abilità di sostenere comtemporaneamente due argomenti contraddittori (tipo: "Costacurta è un giocatore di calcio e allo stesso tempo non è un giocatore di calcio; perché non sa giocare. Allora, chi è Baresi?").

Il problema stava nella mia provenienza da un'educazione scientifica, che già cominciavo a seguire negli anni del liceo. Se avessi voluto esprimere certi concetti secondo le regole della discussione scientifica, avrei dovuto dire qualcosa come "Secondo alcuni autori (Maranz, 1987, Hydraulics 1992) la misura delle prestazioni del giocatore Costacurta mostra un coefficiente di correlazione significativo con la presenza in campo del giocatore Baresi. Tale correlazione è negata da Lopo e Ciaramella (1994), ma può essere attribuita a effetti semantici legati all'interazione verbale, come discusso per esempio da Pippolillo (1993)". Capirete che la cosa non poteva funzionare.

Gli anni sono passati; i giocatori di briscola sono praticamente spariti dai circoli ARCI, spazzati via come i dinosauri da un asteroide chiamato TV. Lo scambio sociale si fa più che altro via internet, ma certe cose non sono tanto cambiate. Lo stile della discussione calcistica rimane in trasmissioni come "Il processo" (che, giuro, non ho mai visto, ma ne ho sentito parlare). Non credo che Aldo Biscardi (la cui biografia ho letto su Wikipedia) regga il confronto con Protagora, ma una certa capacità di confondere l'avversario nell'arte della retorica indubbiamente ce la deve avere. Forse dall'esistenza stessa di Aldo Biscardi possiamo comunque arrivare alla stessa conclusione che i sofisti propugnavano, ovvero la sostanziale inconoscibilità dell'universo.

Rimane il problema della incomunicabilità fra i due mondi, quello calcistico e quello scientifico. Questo pone qualche problema quando si parla di cose importanti, tipo il riscaldamento globale, dove l'uso delle forme retoriche calcistiche (turpiloquio incluso) non porta ad arrivare a una buona comunicazione. Potete trovare, qui un esempio dell'uso del turpiloquio come arma retorica.

Ma il vero problema del dibattito sul riscaldamento globale non è quello del turpiloquio. E' proprio il concetto di base del dibattito calcistico da circolo ARCI (o alla Biscardi se preferite). L'idea è che chiunque può prendere posizione e argomentare su un argomento di cui è totalmente incompetente, posto che sia sufficientemente aggressivo e abile nel confondere le acque nel dibattito. Per un buon esempio di questo squallido dibattito sul clima potete cliccare qui.

Questo è male perché, appunto, dei totali incompetenti di clima si sentono in diritto di dire la loro come se fossero al "Processo" di Biscardi. Se si parla di calcio, niente di male; dopo ognuno torna a casa un po' intontito, ma senza danni. Ma se si parla di qualcosa che può fare dei grossi danni, come il riscaldamento globale, allora si perdono tempo e energie preziose che invece dovremmo utilizzare per cercare dei rimedi. Nessuno vorrebbe volare su un aereo progettato secondo le indicazioni di quelli che partecipano al processo di Biscardi. Anzi, se costoro pretendessero di metter bocca sul calcolo delle portanze alari o dei materiali per le turbine, non solo nessuno gli darebbe retta, ma tutti gli darebbero di pazzi furiosi, come minimo. Invece, quando si parla di riscaldamento globale, curiosamente, in nome della democrazia e della libertà di espressione si ritiene che si debbano pazientemente ascoltare anche gli incompetenti più totali che, tuttavia, pretendono di aver ragione. Il risultato è un dibattito calcistico stile "bar sport", solo che ci può fare dei danni immensi.

Certe volte, in effetti, ti verrebbe la voglia di lasciar perdere e farti una bella partita di briscola con gli amici come ai bei tempi.

martedì, settembre 22, 2009

Che cos'è la curva di Hubbert


Su "The Oil Drum", Alessandro Lavacchi e Ugo Bardi presentano un riassunto del lavoro che hanno pubblicato recentemente sulla rivista "Energies".

L'idea del lavoro è di cercare di spiegare in modo semplice il meccanismo che produce la curva di Hubbert. Molto spesso, infatti, la curva viene vista come qualcosa di arbitrario, una specie di atto di fede. In realtà, la curva si può riprodurre adattando il famoso modello "predatori/prede" sviluppato già negli anni 1920 da Lotka e Volterra.

Ne viene fuori un modello molto generale che spiega molte cose del nostro mondo. Gli esseri umani si comportano spesso come predatori nei riguardi delle risorse disponibili. Sono dei predatori non troppo intelligenti, perché tendono a sovrasfruttare le risorse; ovvero a usarle più rapidamente di quanto non si possano riformare. Il risultato che si ottiene modellizzando questo comportamento è proprio la curva di Hubbert.

Più informazioni su "The Oil Drum"

lunedì, settembre 21, 2009

La sconfitta dei negazionisti climatici

"Il riscaldamento globale non esiste"
"Il riscaldamento globale è stato inventato dai media!"
"Il riscaldamento globale esiste ma non è colpa nostra!"
"Dobbiamo salvare l'economia, non il pianeta?"

"Come fanno i politici a respirare sott'acqua in quel modo? Hanno enormi riserve di aria fritta"




Abbiamo sentito ripetere fino alla nausea negli ultimi tempi che la terra si starebbe "raffreddando". Bene, gli ultimi dati che arrivano dal NOAA indicano chiaramente che non è così.

Quest'estate ha visto almeno un record assoluto, quello della temperatura media della superficie degli oceani, che ha raggiunto un valore mai misurato in precedenza. L'estate è stata la terza più calda in assoluto.

Un altro record assoluto è stato la temperatura media combinata dell'emisfero sud in Agosto, anche questa la più alta mai misurata. Poi ci sono altri dati, inclusi i ghiacci artici che sono sotto la media di un buon 18%. In Italia, la situazione non è migliore, con un'estate caldissima,. Secondo i dati raccolti dall'Università di Modena, è la seconda più calda mai registrata.

Insomma, chi sosteneva che andavamo verso un raffreddamento globale dovrebbe avere buoni motivi per ricredersi. Ma ce ne sono che non cambieranno idea finché non finiremo tutti bolliti e anche allora continueranno a dire, "Ma è una normale fluttuazione....... aaargh!"

domenica, settembre 20, 2009

Il RAMSES a Belfast


Belfast è nota per la sua storia movimentata, ma è rimasto poco, oggi, dell'epoca degli scontri fra cattolici e protestanti. Per fortuna, si sono calmati e sono rimasti quasi soltanto questi grandi murales molto fotografati dai turisti. In questo post, vi passo qualche immagine presa in occasione del workshop sul progetto RAMSES all'università dell'Ulster.



Belfast oggi ha l'aria di una città inglese tranquilla. Da quello che ho visto non è un posto particolarmente entusiasmante, ma chi ci vive mi dice che ci si sta abbastanza bene.




Belfast è una città industriale e la crisi si fa sentire. Qui ti invitano a vendere il tuo oro per raccattare qualche sterlina, passandolo come una cosa "irresistible". Potenza della propaganda....




La riunione del progetto "RAMSES" all'università di Belfast. Vedete al centro (con la maglia bnianca) Toufic El Asmar, il coordinatore (e anche segretario di ASPO-Italia). Accanto a lui, con la camicia blu, il nostro ospite, David McIlween-Wright.


Il modesto sottoscritto (a sinistra nella foto) insieme con Thomas Kattakayam, ricercatore del "Centre for Sustainable Technology. Mi è parso un bel gruppetto di persone in gamba e molto concreti. Qui, ho in mano un modellino del sistema fotovoltaico a concentrazione che hanno sviluppato




Al centro di ricerca, hanno un sistema di test ambientale e un bel manichino pieno di sensori per misurare il livello di comfort dell'interno degli edifici. Pare che sia molto popolare con gli studenti. Qui lo vediamo con Toufic El Asmar.




Belfast è talmente a Nord che conviene montare i pannelli FV in verticale. Questa parete che vedete è sull'edificio del centro di ricerca dove abbiamo fatto la riunione.




Fuori Belfast, la zona dei "Glens di Antrim". Un tipico paesaggio Irlandese moderno, non molto differente da quello del resto dell'Irlanda. Nell'800, avevano tagliato tutti gli alberi e avevano ridotto l'isola a una palla da biliardo. Negli ultimi decenni, hanno ripiantato qualcosa; quello che vedete è uno dei risultati: una macchia di "sitka spruce" nel bel mezzo di una zona molto erosa.




Questa immagine non mi è venuta molto bene, ma fa vedere molte cose interessanti. Le colline sono coperte di un'erba molto rada. Una volta, ci abitava gente che coltivava patate e viveva in capanne di legno. La grande carestia irlandese dell'800 li ha spazzati via e delle loro capanne non è rimasto niente. Io credo che - almeno in parte - la carestia sia stata dovuta all'erosione che ha ridotto la fertilità della terra. Da quello che si può vedere, lo spessore dell'humus sul fondovalle è alto, probabilmente portato dall'erosione. L'acqua che scorre nelle valli è marrone, a indicazione che quasi due secoli dopo il processo di erosione non si è ancora concluso in queste zone. Vedete sulla cima della collina una moderna turbina eolica.



Non tutta l'Irlanda è così malridotta come i Glens di Antrim. Al sud, l'erosione si vede molto bene un po' dappertutto, ma al nord le zone pianeggianti sono verdi e coltivate. Somigliano molto al paesaggio inglese. Coltivare a queste latitudini non è facile per via della scarsa irradiazione solare, ma c'è molta acqua e presumo che facciano buon uso di fertilizzanti




Per finire, Toufic sull'aereo impegnato in un'attività di alto livello intellettuale.

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C'è un altro mio post sull'Irlanda, quella del sud, dove discuto sulla relazione fra carestia e erosione. Ce n'è un altro mio in inglese, più dettagliato, su "The Oil Drum"

venerdì, settembre 18, 2009

Condizioni necessarie e condizioni sufficienti



In più di un'occasione i media economici, i politici e gli industriali dichiarano che la "crisi" (se ci prendiamo la briga di contare quante volte viene pronunciata questa parola in un TG troviamo valori prossimi a 15) è causata dalla mancanza di investimenti in prospezione mineraria, infrastrutture, impianti industriali, edilizia eccetera. Dunque, ognuno incolpa una non ben definita categoria, che raggruppa "quelli che si dovrebbero occupare di investimenti" . Spesso, chi fa questa dichiarazione non si rende conto che egli stesso, secondo la sua teoria, dovrebbe occuparsi della cosa (cfr. Confindustria: gruppo Marcegaglia). Ma la cosa non ha senso; siamo davanti all'ennesimo circuito autoreferenziale, che dissipa energia, fa perdere tempo e distoglie la gente dalle radici dei problemi reali.

Quando un certo processo chimico non ha luogo, questo può avvenire per due motivi: mancanza di reagenti (o substrato, o materia prima), oppure, ancora, per un eccesso di prodotti presenti nel recipiente che fanno retrocedere l'equilibrio verso i reagenti (principio di Le Chatelier, formulato per la prima volta nel 1884). Ad esempio, tutti sappiamo che mettendo un cucchiaio di sale in un litro di acqua a temperatura ambiente e mescolando un po', questo si discioglierà in pochi minuti; se invece proviamo a scioglierne la stessa quantità in un litro di acqua già bella salata, se ne scioglierà di meno o non se ne scioglierà affatto.
Se entrambe le condizioni sono verificate, a maggior ragione, il processo non potrà aver luogo.

Trasportando questi concetti nella vita reale, abbiamo la compresenza delle due condizioni: da una parte la difficoltà dei giacimenti fossili a mantenere la produzione, dall'altra il feedback da saturazione di merci e prodotti di vario tipo. Incidentalmente, se ci fosse un surplus energetico alla base i sistemi industriali potrebbero inventare ulteriori bisogni fittizi e rottamazioni, per mantenere o aumentare ulteriormente l'intensità dei flussi negli scambi, substrato necessario per l'esistenza di "catene di valore aggiunto" e "reservoir di accumulazione di capitale".
Le diminuzioni nei flussi energetici e minerari sono condizioni sufficienti per generare crisi economica; non è detto che siano necessarie, in quanto le cause potrebbero essere legate a giochi politico-strategici, accaparramenti nascosti etc. Ma in un gioco a "informazione completa", dunque in assenza di perversioni, diventano anche condizioni necessarie.

Incidentalmente, per le risorse su cui al momento non è agganciabile il concetto di scarsità, come l'aria e l'acqua di mare, non esiste nemmeno la nozione di prezzo, e non si pongono affatto problemi da "limiti dello sviluppo" (a meno di "violentare" sul serio gli ecosistemi contaminandoli al punto da renderli inadatti alle interazioni cui siamo abituati).

Forse, un giorno, i media smetteranno di propinarci il menu a portate invertite, scambiando le cause con le conseguenze. Ma questo sarà realizzabile solo quando saremo in grado di difenderci, ad esempio per mezzo dell' Intelligenza connettiva e collettiva [flash back su un post di Armando Boccone].

mercoledì, settembre 16, 2009

De Reditu



A dimostrazione dell'interesse che abbiamo per il tempo della caduta dell'Impero Romano, nel 2003 è uscito un film intitolato "de Reditu", tratto piuttosto liberamente dal testo di Rutilio Namaziano e che ci racconta della condizione dell'Impero nei primi anni del quinto secolo. E' stato ben poco nei cinema e il dvd non si trova in nessun posto. Sono riuscito però a scaricarlo da Internet (ringrazio Fabio Santoni per il link) e ora ve ne passo un breve commento.

Il "De Reditu Suo" è un documento raro che abbiamo dal tempo della dissoluzione dell'Impero. Scritto da un patrizio Romano in fuga dalla città ormai diventata invivibile, ci presenta un quadro impressionante di un mondo che stava scomparendo rapidamente. Nei primi anni del quinto secolo, Namaziano viaggia in nave verso la Gallia e ci parla di strade crollate, città abbandonate, fortezze in rovina, disordini e guerre. Insomma, gli ultimi anni di un impero che poi sarebbe scomparso anche formalmente qualche decennio dopo.

Ho commentato in un post sulla caduta dell'impero romano come Namaziano veda il crollo davanti ai suoi occhi ma non riesca a capirlo. Per lui è solo qualcosa di temporaneo che - prima o poi - dovrà passare con il ritorno di Roma alla gloria del passato. L'interesse del libro è sia nel quadro che ci da del crollo, sia in questa incapacità degli uomini del tempo di capirlo. L'ho chiamata la maledizione del pesce che nuota ma non riesce a percepire l'acqua. In questo problema sta il fascino del "De Reditu" che ci colpisce perché sentiamo di soffrirne anche noi.

Claudio Bondi, regista del film, deve aver sentito anche lui il fascino del libro in questo senso e si è dedicato a ricostruire per immagini il senso e lo spirito del testo di Namaziano. Certo, fare un film storico di un'epoca così remota è difficile e per forza ci si scontra con delle incongruenze. Qui, la casa di Namaziano ha degli infissi che sembrano comprati alla Obi. La barca di Namaziano sembra presa da un acquapark e la scena dei gladiatori è banale, per non dir di peggio, con la storia del "pollice verso" ripresa senza il minimo spirito critico. L'incontro con il miliziano toscano che parla in dialetto pisano moderno, poi, non può non far venire da ridere.

Ma, a parte questi dettagli, il film riesce a essere credibile, forse più per merito di Namaziano che di Bondi. In qualche modo, vediamo veramente il mondo degli ultimi sprazzi di esistenza dell'impero romano, con le sue rovine, le sue campagne desolate e le spiagge deserte. Ci sono i guerrieri Goti, alti e biondi, che bevono vino nelle poche locande rimaste e gli eremiti cristiani, sulla loro isola di Capraia, fanatici così come Namaziano ce li ha descritti. Ci sono anche elementi del medioevo che avanza: gli amici di Namaziano gli raccontano come hanno organizzato i loro contadini in milizie ormai indipendenti dal potere centrale. Sono i "domini", i signori locali che nei secoli si trasformeranno nei feudatari medievali.

In contrasto, c'è l'Impero che ancora non si rassegna alla propria scomparsa; con il prefetto di Roma che ancora lancia condanne a morte e con l'imperatore Onorio, che sta a Ravenna, che manda i suoi cavalieri corazzati a far vendetta contro Namaziano. Quest'ultimo è un po' forzato nel ruolo che il regista gli impone; quello di rivoluzionario/restauratore, partito con l'idea di fomentare una rivolta delle legioni della Gallia e di restaurare l'Impero di una volta. Eppure, è una parte che non stona rispetto a quello che possiamo capire da quello che Namaziano ci ha lasciato scritto.

Atmosferico, lento, didascalico, avventuroso, strano, sognante, curioso. Da vedere.

lunedì, settembre 14, 2009

Il picco dei furtarelli - reloaded



Qualche tempo fa, avevo pubblicato un minipost, il "picco dei furtarelli" , in cui descrivevo la rapidissima incursione di ladruncoli sconosciuti in casa mia, con sottrazione di beni di scarso rilievo.

Ora, vi racconto un altro episodio. Un pomeriggio di inizio agosto sono andato in piscina, cosa che faccio con una certa frequenza nel periodo estivo. La piscina dista circa 3 chilometri da casa mia, non ci vado mai in auto apposta (preferendo la bici o una corsetta), però quando programmo la piscina in combinata con il ritorno dal lavoro, ci passo proprio davanti, quindi parcheggio la vettura nel piazzale fuori.

Tornando a quel pomeriggio dopo la nuotata, come potrete facilmente immaginare... faccio per aprire l'auto e lei... si chiude! Qualcuno aveva avuto la brillante idea di aprirla qualche minuto prima, facendo un intervento chirurgico sulla lamiera della porta lato guida. Un lavoro estremamente "professionale", fatto da gente che a seconda del modello sa perfettamente dove mettere le mani. Mi prendo anche parte della colpa, in quanto la borsa che mi hanno rubato (di scarso valore e senza cose particolari dentro, per fortuna) l'avevo nascosta alla bella e meglio dietro i sedili, confidando nei vetri oscurati, che han fatto quel che hanno potuto. Oltre alla borsa mi hanno pure preso 2 tendine parasole di scarsissimo valore, che risultano pure scomode da sottrarre (6 ventose da staccare...).

Non sono la prima nè unica vittima di questo fenomeno che si sta intensificando, in particolare nei dintorni della piscina; tuttavia, il peak oil sta impattando con una certa velocità sul tessuto sociale. I furtarelli ci sono sempre stati da decenni, ma stiamo osservando un aumento della "velocità di nucleazione", cioè della frequenza di osservazione di casi qua e là. A questo, possiamo anche aggiungere il problema della sovrapopolazione delle carceri; non voglio fare del qualunquismo e gridare "al lupo" per il gusto di farlo, tuttavia credo che un minimo di preparazione psicologica su quello che accadrà negli anni a venire sia bene averla.


[per chi fosse interessato, ri-linko un mio vecchio post]

domenica, settembre 13, 2009

Il Prezzo del Petrolio di Nicolazzi

Questa fine del 2009 ha visto un rinnovato interesse nella questione del petrolio. L'anno scorso, la discesa repentina dei prezzi aveva convinto i più che il problema era scomparso e pochi si erano accorti della correlazione che c'era fra la crisi economica che si era scatenata e il probabile raggiungimento del picco globale.

A un anno di distanza, i prezzi sono risaliti, la discesa produttiva è evidente e il tutto coincide con il 150esimo anniversario della trivellazione del primo pozzo di petrolio in Pennsylvania da parte del colonnello Edwin Drake (che poi non era il primo pozzo e nemmeno lui era colonnello, ma si sa che il petrolio genera continuamente leggende). Tutto questo ha riportato un po' il petrolio all'attenzione del pubblico e uno degli elementi di questa attenzione è il libro di Massimo Nicolazzi "Il Prezzo del Petrolio" uscito questo Luglio.

Nicolazzi parla di "prezzo del petrolio" in senso vasto; il suo è un lavoro che cerca di rivedere tutta la storia e le prospettive della questione petrolifera. In questo senso, il petrolio ha un prezzo finanziario e anche un prezzo umano che in questi 150 anni abbiamo pagato in termini di guerre e distruzioni varie.

Massimo Nicolazzi è uno che con il petrolio ci ha lavorato da almeno trent'anni. Non è nato geologo, ma chiaccherando con lui vi può capitare di vedere il suo sguardo allontanarsi verso una collina vicina e sentirlo esprimere un parere sulla stratigrafia delle rocce in vista. Il petrolio è una cosa che ti permea la vita quando cominci a occupartene.

Nicolazzi ha anche una dote rara per quelli che si occupano di queste cose: la capacità di scrivere in modo brillante e interessante. E' un modo di scrivere leggero, ma anche che si presta a degli affondi anche pesanti quando Nicolazzi trova qualche critica da fare: in Toscana lo chiameremmo "lingua taglia e cuci". Occasionalmente, si lascia un po' prendere dalla foga della critica, ma è la conseguenza del gusto di scrivere e di raccontare - lo scrittore vero è un artista e gli artisti sono fatti così.

Il libro di Nicolazzi è senz'altro uno dei migliori fra i libri comparsi in Italia su questo argomento. E' un'eccellente introduzione al mondo del petrolio, leggibile e alla portata di tutti. Ovviamente, è un mondo complesso e difficile e non basta certamente un libro per addentrarcisi (non mi ricordo chi aveva detto "guardati dall'uomo che ha letto un solo libro), ma è ottimo per cominciare e anche per approfondire certi punti.

L'impostazione di Nicolazzi la potrei definire "abbondantismo molto cauto". Affronta la questione del picco del petrolio in modo corretto e abbastanza completo anche se, in fin dei conti, esprime la posizione che, nonostante tutto, ci sono ancora risorse molto abbondanti che possiamo sfruttare con tecnologie migliori.

Con Nicolazzi ho scommesso un caffé che il picco è stato nel 2008. Per il momento, sto vincendo io; ma fra qualche anno vedremo chi ha avuto ragione.

Vi passo un breve pezzetto per darvi un idea del tono e della "verve" del libro. Qui (p. 157) parla delle ragioni della guerra in Iraq del 2003. A proposito dell'embargo petrolifero imposto contro l'Iraq, dice:

[Saddam], se non riusciva a venderlo, è dura capire cosa avrebbe potuto farsene, a meno di berselo o riconsegnarlo all'uso medicale. In più, glie lo avevamo messo sotto embargo noi, tanto per non sottolineare che riuscivamo benissimo a farne a meno. Insomma, l'idea sarebbe che non potevamo permettergli di venderci quello che no gli impedivamo di venderci. Qui, e come sempre, non funziona. Meglio Ionesco. <..> Insomma, [sembra] che l'amministrazione americana, che da Condoleeza Rice a Dick Cheney la pubblicistica dava e dà figlia dell'Oil, fosse oltre che incompetente anche imbecille.

venerdì, settembre 11, 2009

Bimillenario della battaglia di Teutoburgo


Duemila anni fa, probabilmente dal 9 all'11 Settembre del 9 d.c., si combatteva la battaglia di Teutoburgo che segnò l'arresto dell'espansione dell'Impero Romano in Europa. Il "picco dell'impero" per così dire.

I bimillenari non sono tanto comuni, per cui mi è parso il caso di segnalare questa ricorrenza di cui ho parlato estesamente in un lungo post. Sono migliaia di anni che imperi e civiltà nascono e muoiono, una cosa che hanno in comune è quella di avere una durata limitata, un'altra è quella di credersi eterni. La nostra non fa eccezione.

Qui di seguito, riproduco la descrizione della battaglia di Teutoburgo che avevo scritto in un post di qualche mese fa.

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Teutoburgo, la fine di un impero
Di Ugo Bardi

Duemila anni fa, nell'anno 9 a.d., la sconfitta di Teutoburgo fu, in un certo senso, il picco di una civiltà che aveva basato la sua prosperità sulle guerre di conquista. Già circa mezzo secolo prima, nel 53 a.c., l'Impero Romano aveva subito una tremenda battuta di arresto a Carrhae, in Asia Minore. Fu una sconfitta che mise la parola fine al sogno di espandersi nelle ricche terre asiatiche, come aveva fatto Alessandro Magno qualche secolo prima.

Ma, anche dopo Carrhae, l'Impero Romano rimaneva un'immensa macchina militare sempre alla ricerca di nuove terre da conquistare. In Europa, dopo la Spagna e la Gallia, l'obbiettivo che rimaneva era la Germania: terra vasta e scarsamente abitata; apparentemente un bersaglio facile. Così, al tempo di Cesare Augusto, tre legioni romane sotto il comando di Publio Quintilio Varo varcarono il confine dell'impero addentrandosi in Germania. Fu un disastro militare inaspettato. Impreparate a combattere un nemico che usava tattiche che oggi chiameremmo di guerriglia, le tre legioni furono massacrate fino all'ultimo uomo in una feroce battaglia nei boschi di Teutoburgo.

Teutoburgo fu molto di più di una semplice sconfitta militare. Fu la dimostrazione della debolezza intrinseca dell'Impero Romano. Anche le guerre di conquista hanno una loro resa economica: il rapporto fra quello che si ottiene con il saccheggio e quello che costa la guerra. Fino ad allora, l'impero si era arricchito conquistando terre ricche e relativamente deboli dal punto di vista militare. Ma in Germania la situazione era cambiata: c'era poco da saccheggiare in un paese dove non c'erano città degne di nota. In più, i Germani erano combattenti feroci e determinati e il costo di una invasione militare era in ogni caso molto alto. Anche se la battaglia di Teutoburgo fosse andata in un altro modo, conquistare la Germania era impossibile per i Romani. Semplicemente mancavano loro le risorse economiche necessarie.

Questa impossibilità di conquistare la Germania si sarebbe vista qualche anno dopo Teutoburgo, quando i Romani invasero di nuovo la Germania, questa volta ottenendo una serie di vittorie. Ma i Romani non riuscirono a sottomettere la Germania e nemmeno ad attestarsi stabilmente al di là del fiume Reno. Queste vittorie furono del tutto inutili, anzi, furono uno spreco di risorse preziose per un Impero in chiare difficoltà economiche. In effetti, si potrebbe sostenere che i Germani a Teutoburgo abbiano fatto un piacere ai Romani, liberandoli di tre legioni ormai del tutto inutili ma che comunque andavano nutrite, equipaggiate e stipendiate.

Ma non fu certamente così che i Romani videro la sconfitta di Teutoburgo. Fu uno shock durissimo. A Carrhae, Roma si era scontrata con un altro impero di pari portata e simili ambizioni - la sconfitta si poteva ancora interpretare come un incidente di percorso. Ma che tre legioni Romane fossero state annientate a Teutoburgo da dei selvaggi primitivi era una cosa impensabile; un rivolgimento totale di tutti paradigmi accettati fino ad allora. Tale fu l'impressione che ne nacque la leggenda di Cesare Augusto che, nella notte, vagava per il suo palazzo mormorando "Varo, Varo, rendimi le mie legioni." Dione Cassio (155 –ca. 229) ci racconta che:

Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l'Italia e la stessa Roma. Dato che non c'erano cittadini in età militare rimasti in numero importante e le forze alleate che contavano avevano molto sofferto.

Tuttavia, inizio dei preparativi al meglio possibile viste le circostanze, e quando nessuno in età militare si mostrò pronto a prendere le armi, li costrinse a tirare a sorte, arruolando un uomo ogni cinque di quelli sotto i 35 anni e uno ogni dieci di quelli che avevano passato quell'età. Infine, dato che molti non gli davano retta, ne mise a morte alcuni ... Siccome a Roma vi era un numero elevato di Galli e Germani, alcuni di loro nella Guardia Pretoriana e altri che ci vivevano per varie ragioni, temette che potessero insorgere. Perciò cacciò via in certe isole quelli che erano nella sua guardia personale e ordinò a quelli che non portavano armi di lasciare la città.

In queste poche righe, troviamo una descrizione impressionante di un momento di caos e di smarrimento. Roma cercava di reagire sul piano militare alla disfatta, ma cadeva anche preda di un momento di xenofobia con la cacciata dei Galli e dei Germani. E' una cosa del tutto atipica dell'antico impero che, per quasi tutta la sua storia, fu tollerante e aperto a tutti.

Dopo Teutoburgo, l'Impero Romano non aveva ancora del tutto esaurito la sua spinta militare e riuscì ancora ad espandersi in Britannia e - molto più tardi - nella Dacia. Ma un'epoca era finita per sempre: l'impero non riusciva più ad ottenere dalla guerra risorse sufficienti per lanciarsi in sempre nuove conquiste. Iniziava la fase in cui Roma cominciava a chiudersi entro i limes: grandi fortificazioni che dovevano metterlo al riparo dalle invasioni barbariche. L'impero non si vedeva più come un predatore ma come una preda. Si metteva da solo dentro una gabbia dalla quale non sarebbe mai più riuscito a uscire.

La fase che ne seguì fu, in un certo senso, un crepuscolo dorato. Relativamente al sicuro entro la cinta delle fortificazioni, l'Impero viveva un periodo di relativa pace e prosperità sotto la dinastia degli Antonini. I Romani abbandonarono anche la fase di xenofobia di cui ci parla Dione Cassio. Ma il destino dell'impero era comunque segnato: con il graduale esaurimento delle risorse accumulate nella sua fase di espansione, a lungo andare l'Impero doveva sparire.

Il collasso degli imperi segue delle linee che sono comuni a tutti i casi storici che conosciamo. Così, la storia dell'Impero Romano ci può servire - con cautela - come uno specchio in cui vedere qualcosa del nostro futuro. Gli imperi collassano per l'esaurimento delle risorse che li sostengono; per i Romani erano le conquiste militari, per noi sono le risorse minerali. In entrambi i casi, l'esaurimento era ed è inevitabile e, di conseguenza, il collasso. La reazione dei Romani alla sconfitta di Teutoburgo ci ricorda molto la nostra situazione odierna. Sia oggi come allora, si cerca di reagire alle difficoltà incrementando gli sforzi, ma sempre nella stessa direzione; senza riuscire a capire le vere ragioni delle crisi. Per i Romani, il problema era solo militare e cercavano di risolverlo usando le risorse rimaste per costruire possenti fortificazioni. Per noi, il problema è l'esaurimento delle risorse minerali e cerchiamo di risolverlo usando le risorse rimaste scavando più in fondo e sempre più lontano.

Le società umane non riescono quasi mai a rendersi conto della necessità di cambiare. Tendono, anzi, a sprecare energie preziose prendendosela con il primo capro espiatorio che capita sotto mano. Così, la cacciata dei Galli e dei Germani da Roma dopo la battaglia di Teutoburgo ricorda molto l'ondata di xenofobia che vediamo oggi. I Romani superarono questa fase e, forse, toccherà anche a noi un crepuscolo dorato paragonabile all'era degli Antonini. Ma il collasso delle strutture che conosciamo è inevitabile. Il mondo cambia sempre e, se il nuovo deve arrivare, qualcosa di vecchio deve sparire. Sic transit gloria mundi.



mercoledì, settembre 09, 2009

Le risorse di uranio. Cronaca di una notte di mezza estate

Mi svegliai madido di sudore nel pieno della notte, tormentato da un vago senso di inquietudine fisica e mentale. Seduto sul bordo del letto diedi la colpa di quel malessere al caldo afoso dei primi giorni d’agosto e alla splendida ma indigesta peperonata che avevo irresponsabilmente divorato prima di coricarmi. La sentivo ferma lì, al centro dello stomaco, rifiutarsi caparbiamente di prendere la strada obbligata della digestione. Decisi di alzarmi e fare quattro passi per la casa, sapevo perfettamente come dissolvere l’ingorgo gastrointestinale, ma mi rifiutavo ostinatamente di applicare l’infallibile cura. Uscii sul balcone, l’aria fresca della notte mi diede un po’ di sollievo. Nel silenzio rotto solo dal latrato lontano di un cane guardai in alto il disco giallo oro della luna che illuminava quello spicchio di cielo di una luce discreta. In quei giorni ricorreva l’anniversario del primo allunaggio. “Quanti soldi buttati via”, pensai ancora una volta di quell’avventura ormai lontana, sperando ardentemente che avesse avuto ragione il vecchio contadino amico di mio padre, che scetticamente collocava nel deserto della California la messinscena dello sbarco. Tornai in casa, ormai non avevo più sonno, per ingannare il tempo accesi la luce azzurrina del computer e iniziai svogliatamente a leggere l’ultimo rapporto energetico dell’Enea. Saltellavo da un capitolo all’altro, tra preoccupate analisi economico-ambientali e improbabili scenari futuri di abbondanza energetica, quando il mio sguardo si soffermò su un grafico e su alcune parole di granitica certezza: “Le riserve accertate di uranio sono sufficienti ad alimentare la domanda per almeno cento anni…”. Sobbalzai letteralmente dalla sedia mentre una parte dei peperoni si convinceva finalmente a prendere in considerazione l’effetto della legge di gravità. Ne avevamo tante volte discusso tra gli “adoratori del picco”, come un ingenuo pennivendolo aveva una volta definito la nostra associazione scientifica, ed eravamo convinti che il prezioso minerale necessario ad alimentare le centrali nucleari fosse ormai agli sgoccioli. C’era qualcosa di marcio in quella storia e mi decisi con piglio poliziesco ad “aprire un’indagine”. Ormai mi sentivo un epigone del Commissario Montalbano: mi era “smorcato un pititto” e avevo fatto indigestione, come lui avrei risolto tra le quattro mura domestiche durante una notte insonne un caso complicato, c’era la terrazza, mancava solo il mare.

Quel numero rassicurante, 100 anni, mi ronzava nel cervello. Cominciai ad affrontare il caso leggendo gli autori del grafico, che mostrava con dei cilindretti colorati la presunta residua abbondanza di alcuni combustibili fossili e dell’uranio: si trattava di NEA e IAEA, cioè l’Agenzia per l’Energia Nucleare e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. “Uhm, dei tipetti poco raccomandabili”, pensai ricordando uno scritto di Marco (Pagani) che svelava alcune loro previsioni sbagliate sulla reale consistenza delle riserve di uranio francesi. Per un attimo mi soffermai divertito su un facile gioco di parole: Pagani contro Paganetto (Presidente dell’Enea), poi mi concentrai sul titolo del grafico: “Stima delle riserve di uranio calcolata in base all’attuale tasso di generazione elettronucleare”. Repressi a stento una sonora risata che avrebbe certamente svegliato tutto l’isolato. “Questi nuclearisti sono proprio dei birichini”, osservai perplesso, “pretenderebbero di espandere enormemente la produzione mondiale di energia nucleare e poi calcolano la disponibilità di uranio minerale sulla base della produzione energetica attuale!”. Avevo scoperto il primo errore in quel magico numero 100: se anche fosse stato corretto, si sarebbe dovuto diminuirlo di molto per soddisfare un ipotetico aumento della produzione energetica nucleare. “Sì, sono proprio dei birbantelli”, continuai ormai preso nella parte, “nell’interrogatorio mi dovranno poi spiegare perché ostentano preoccupazione per un imminente picco del petrolio e non considerano lo stesso modello di esaurimento della risorsa nel caso dell’uranio”. Ma decisi di rimandare questo aspetto dell’indagine. Ora dovevo fare due conti.
Presi un foglietto di carta e scrissi a caratteri cubitali “YELLOW CAKE”, il nome della preziosa roccia dai cui giacimenti si ottiene l’ossido di uranio, elemento di base per la preparazione dell’uranio arricchito, con cui si confezionano le barre di combustibile delle centrali nucleari. “Torta gialla”, meditai, “ma sconsigliabile da mangiare”. Il pensiero di qualcosa di commestibile mi produsse immediatamente un acuto e insopportabile senso di nausea. Sapevo che quando si lavora con i numeri bisogna essere lucidi e non potevo rinviare più a lungo la soluzione dei miei problemi digestivi. Mi alzai dirigendomi in cucina, aprii il frigorifero. All’interno, circondato dalla luce giallognola, il nero intenso della Coca Cola si stagliava nitidamente. Odiavo quella bibita, in quel liquido nerastro intravedevo la quintessenza del più assurdo e inutile spreco di risorse delle società consumistiche contemporanee. Però, imperscrutabilmente, quell’orrendo miscuglio aveva in me lo strano potere di distruggere qualsiasi ostruzione digestiva e non potevo far altro che venire a compromessi con le mie profonde convinzioni. Riempii il bicchiere, trangugiai senza fiatare dopo aver mormorato tra i denti “Yankee, go home”. Un sordo gorgoglio squassò immediatamente il mio petto e il peperone yankee fu disintegrato senza pietà, lasciandomi per qualche istante con un beato senso di appagamento. “Bene”, potevo continuare.

Scaricai da internet l’ultimo rapporto disponibile della IEA (Agenzia Energetica Internazionale) “World Energy Outlook 2006” e dopo qualche minuto di ricerca, trovai la tabella che mi serviva: “Risorse totali di Uranio mondiali”, fonte: proprio quei mattacchioni del NEA/IAEA. In essa le risorse di uranio venivano suddivise per costo di estrazione, 40 $/Kg, 80 $/Kg, 130 $/Kg e catalogate in “ragionevolmente accertate (cioè le riserve provate), inferite, pronosticate e speculative”. Sapevo che da sei tonnellate di Uranio naturale si ricava una tonnellata di Uranio arricchito, ma non ricordavo quanta energia si può ottenere da una tonnellata di Uranio arricchito. Dopo una ricerca infruttuosa stavo quasi decidendomi di ritornare a letto per recuperare qualche ora di sonno, visto che era già Domenica e non sarei andato a lavorare…, improvvisamente mi si accese la tradizionale lampadina sulla testa. Come avevo fatto a non pensarci, Domenico (Coiante) aveva scritto qualcosa sull’argomento. Scartabellai tra le cartelle virtuali e trovai quello che mi serviva: da 1 t di Uranio arricchito si ricavano 720 GWh termici, da cui, con la consueta efficienza di trasformazione dei bollitori nucleari del 33%, si ottengono 238 GWh elettrici. Nel WEO 2006 trovai rapidamente la produzione annuale di energia elettronucleare nel mondo, 2.742.000 GWh e così ricavai il consumo annuale di uranio arricchito nel mondo: 11521 t. Avevo ora tutti gli elementi per calcolare la durata delle risorse uranifere mondiali, nell’ipotesi autolesionistica dei nuclearisti, di produzione elettronucleare pari a quella attuale e costante nel tempo. Con un costo di estrazione inferiore ai 40 $/kg delle riserve provate mi venivano circa 27 anni, sotto gli 80 $/kg circa 37 anni, per costi di estrazione inferiori ai 130 $/kg, la durata aumentava a circa 47 anni. Meno della metà dell’ipotesi secolare.

Mi alzai dalla sedia, avevo bisogno di allentare la tensione accumulata. A questo punto delle indagini, immancabilmente l’investigatore accende una sigaretta, ma io per fortuna avevo smesso da quasi due lustri. Uscii di nuovo sul balcone a prendere il fresco, il silenzio ovattato della notte inoltrata era ancora più assordante. Guardai nuovamente la buia volta celeste e mi fece uno strano effetto pensare che mentre tutti dormivano l’universo fosse in veloce e incessante movimento. A volte crediamo di essere fermi, ma in realtà ruotiamo a velocità sostenuta intorno al centro della Terra e insieme ad essa intorno al Sole, insieme al sistema solare intorno al centro della galassia, che a sua volta, viaggia vertiginosamente sospinta dalla continua espansione dell’Universo causata dalla grande esplosione iniziale. Le miriadi di stelle che vedevo lassù erano il frutto della costruzione incessante, nel processo di fusione nucleare, di atomi sempre più complessi e il numero di massa dell’uranio così alto, 235, stava proprio a dimostrare la sua relativa scarsità. Dovevo tornare alla mia indagine.
Cercai subito il “Red Book”, lo studio del NEA da cui era stato tratto il grafico delle presunte risorse uranifere, scartai uno scritto in cinese che sicuramente non faceva al mio caso, ma trovai poco dopo quello che cercavo. Trattenni un imprecazione, purtroppo il documento non era scaricabile, ma non mi persi d’animo. Proseguendo la navigazione incrociai un sito di nuclearisti nostrani che citava le conclusioni dell’ultimo “libro rosso”, da cui trassi le informazioni che cercavo. C’era scritto:” Sulla base di nuovi calcoli, si stima che è possibile estrarre a meno di 130 dollari/kg circa 5,5 milioni tonnellate (rispetto ai 4,7 milioni stimati nel 2005), tale aumento è dovuto sia alla scoperta di nuovi giacimenti sia alla riconsiderazione di giacimenti che finora non erano valutati economicamente interessanti”. Il quadro era finalmente più chiaro: guardando di nuovo la tabella delle risorse capii che il NEA considerava nel potenziale estrattivo, oltre alle risorse ragionevolmente accertate anche quelle inferite.
A questo punto avevo bisogno dell’aiuto degli amici adoratori del picco dell’Energy Watch Group, che avevano elaborato uno studio molto serio e approfondito sull’argomento. Ma prima, rifeci i calcoli della durata a produzione energetica costante delle risorse accertate più quelle inferite, comunque non si arrivava ai cento anni: 68 anni per il valore della tabella 2005, 78 per l’ulteriore stima in aumento del 2006. Avevo individuato un secondo errore, solo apparentemente marginale.
La lettura del rapporto EWG riservò altre interessanti e gustose sorprese. Innanzitutto, scoprii che, comunemente, solo le risorse ragionevolmente accertate di uranio (RAR) con costi di estrazione inferiori ai 40 $/Kg o agli 80 $/Kg, sono comparabili alle riserve provate di petrolio. Le altre, RAR tra 80 $/Kg e 130 $/Kg e risorse inferite (IR), non sono certe ma solo probabili o possibili. “D’altra parte”, pensai, “con un prezzo di mercato dell’Ossido di Uranio di circa 100 $/Kg, come si fa a considerare attualmente tra le risorse sfruttabili quelle con costi di estrazione fino a 130 $/Kg?”
Ma il bello doveva ancora venire. Qualche pagina dopo scoprii una sorprendente tabella del NEA che decisi immediatamente di mettere agli atti. Gli stessi proponenti della tesi abbondantista dei cent’anni, consideravano altamente attendibili solo le RAR, mentre le IR erano valutate con un basso grado di attendibilità. Evidentemente, ciò non gli impediva di inserirle completamente e ottimisticamente nel calcolo della durata delle risorse estraibili! Mi ero imbattuto in una terza incrinatura nella loro valutazione sulla durata delle risorse mondiali di uranio.

Ma, come tutti i giocatori professionisti, mi ero riservato la carta migliore nel finale. Avevo ormai scoperto che la stima dei cento anni era poco credibile. Anche nelle ipotesi più che ottimistiche dei proponenti, la durata era in effetti di circa 80 anni; inoltre questo tempo si sarebbe ridotto sensibilmente se non si fossero prese in considerazione accanto alle riserve provate una parte delle risorse stimate con basso grado di attendibilità e, soprattutto, se non si fosse assunta una produzione energetica nucleare costante nei prossimi anni. Però mi mancava ancora qualcosa, cioè un’analisi più profonda della reale dinamica di esaurimento della risorsa uranio, di cui la previsione del NEA rappresentava solo una banale semplificazione. Mi accorse in aiuto il bello e colorato grafico di sintesi dello studio EWG.
Quel grafico, che descriveva la domanda storica di uranio nel mondo, aveva un fascino particolare per quel senso di familiare che mi ispirava. Correva infatti quasi perfettamente in parallelo alla mia vita e alla mia memoria, e mi appariva come un piccolo e stilizzato trattato di storia. Su quelle curve vedevo scorrere rapidamente davanti ai miei occhi immagini e ricordi ormai dimenticati: l’inizio della guerra fredda con la proliferazione nucleare, Krusciev che sbatte violentemente la scarpa sui banchi dell'ONU, la Baia dei Porci e il rischio concreto di conflitto nucleare, l’assassinio di Kennedy la cui mia dettagliata descrizione aveva stupito il maestro delle elementari, l’invasione della Cecoslovacchia e il suicidio di Jan Palach, la prima crisi petrolifera e le domeniche a piedi, la speranza energetica nel nucleare civile fino a Chernobyl, il sole che ride e nucleare no grazie, il picco dell’equilibrio del terrore, fino a Gorbaciev e alla caduta del muro di Berlino.
Dopo, la produzione mineraria di uranio era crollata drasticamente, mentre la domanda per usi civili era cresciuta velocemente utilizzando in parte proprio il materiale fissile proveniente dallo smantellamento dell’arsenale nucleare. Questa modalità di approvvigionamento delle centrali era facilmente leggibile nella voragine esistente tra la curva della domanda dei reattori nucleari e quella della produzione mineraria. Attualmente, infatti, la domanda mondiale di uranio di 67.000 tonnellate all’anno, viene soddisfatta solo per 42.000 tonnellate (circa il 63%) da nuova produzione mineraria, le altre 25.000 tonnellate (circa il 37%), sono ricavate dagli stoccaggi accumulati prima del 1980. Ma quanto potranno durare questi stoccaggi? Secondo EWG appena dieci anni, e se nel frattempo la produzione mineraria non verrà sensibilmente incrementata, ci saranno seri problemi ad alimentare le centrali nucleari esistenti, figurarsi quelle da costruirsi. Il grafico metteva a confronto poi gli scenari estrattivi del NEA/IAEA e quelli energetici dell’IEA, individuando un picco estrattivo e successivo declino della produzione intorno al 2015 per le RAR con costi di estrazione sotto i 40 $/kg, intorno al 2025 per quelle sotto i 130 $/kg, intorno al 2035 per l’ipotesi ottimistica di RAR più IR con costi di estrazione sotto i 130 $/kg. Lo scenario di espansione produttiva di energia nucleare “minimo” prospettato dall’IEA intersecava la curva della produzione di uranio quasi in corrispondenza del picco dell’ipotesi estrattiva più ottimistica, mai in quello “massimo”. Considerando questa situazione e i tempi almeno decennali di costruzione di una centrale nucleare, il rapporto concludeva domandandosi come sarebbe stato possibile programmare ragionevolmente investimenti di quella portata. “Già, cari birbanti”, pensai, “come è possibile se non aumentando ogni anno come fate voi le potenzialità estrattive?”
C’erano altri spunti critici interessanti nel rapporto dell’EWG, tra cui un’analisi dettagliata sulla percentuale di uranio contenuta nei giacimenti mondiali, elemento cruciale per determinare la convenienza energetica ed economica dell’estrazione, ma ritenevo di aver chiuso l’indagine ed ero soddisfatto. Avrei dovuto confutare anche l’ipotesi, contenuta nel grafico originario, di produzione uranifera millenaria garantita dai reattori autofertilizzanti, ma non avevo molta dimestichezza con i racconti di fantascienza.

Fuori si intravedevano le prime luci dell’alba. Feci una doccia, mi rivestii rapidamente cercando di non fare rumore, scesi in strada e cominciai a camminare a passo svelto assorto nei miei pensieri. Dopo qualche minuto riuscii a trovare un bar già aperto nonostante l’ora. Mi sedetti e ordinai un caffè ristretto, annusando con piacere il gustoso aroma che si diffondeva nell’aria. Nel tavolino accanto c’erano due corpulenti camionisti che discutevano animatamente. “Ma come si fa ad andare avanti con questi costi del gasolio che hanno ripreso a crescere? Se continua così saremo costretti tutti a chiudere”. E l’altro, ammiccando, “Non ti preoccupare, ci penserà Berlusconi con il suo bel programma di centrali nucleari”. Buttai giù il caffè e chiusi gli occhi. Quest’anno avevo riposato poco e, per una serie di problemi personali, non avevo potuto concedermi nemmeno una vacanza. Mi domandai preoccupato come avrei fatto ad arrivare alla fine dell’anno in buona salute. “Mah”, dissi ad alta voce, “ci penserà Berlusconi”.

lunedì, settembre 07, 2009

Ma quanto valgono le case?



La signora G. ha venduto casa sua; una villetta non lontana da casa mia. In paese si parla del prezzo di vendita - le cifre ballano a seconda di chi le riferisce, ma col tempo si stabilizzano su una cifra: un milione e duecentomila euro. Non si sa se sia vero o no; ma fa impressione. La villetta della signora G. non era tanto grande e nemmeno tanto in buono stato. Si, aveva un bel giardino, ma certo i lavori da farci.... E vale un milione e duecentomila euro! Quando se ne parla in paese, puoi quasi vedere le pupille del tuo interlocutore trasformarsi in simboli del dollaro, come nei fumetti. E, come nei fumetti, puoi quasi sentire il rumore - ding, ding! - del registratore di cassa dentro il cervello di chi fa un rapido calcolo: "se la casa della signora G. vale più di un milione di euro, allora casa mia vale........"

Il mio collega D. mi ha invitato a cena a casa sua. E' una bella casa che ha ereditato da suo padre. Fatta negli anni '20, senza troppo badare a spese. Grande, spaziosa, nel giardino all'ingresso ci sono ancora le palme piantate allora. Siamo a cena all'aperto, sotto il pergolato, e la casa è in piena vista. "Sai," mi dice il collega, "questa casa mi costa un sacco di soldi. Fra riscaldamento, aria condizionata, le riparazioni. Non hai idea di quanto dovrei spendere per rifare le fognature; hanno quasi cento anni." Si gratta la testa, pensieroso. "Ma io penso proprio di venderla appena vado in pensione. Vuoi che non ci tiri fuori almeno un milione di euro? Ma penso proprio che valga molto di più. Con quello che ci ricavo mi compro un bell'appartamento da qualche parte e me ne resta per vivere di rendita." Anche le sue pupille hanno acquisito la forma del simbolo del dollaro e puoi quasi sentire il rumore - ding, ding! - del registratore di cassa.

Una mia parente ha comprato casa per il figlio. Un bell'appartamento in zona bene; non tanto grande, ma - insomma - sono almeno 90 metri quadri. Non è bello chiederle quanto lo ha pagato, ma il tam-tam ci dice che è costato 380.000 euro. "Ma tuo figlio ci abita?" le chiedono. "No, per ora no." risponde, "Fa ancora l'università, per ora sta in casa con noi. L'appartamento glie lo lascio libero per quando ne avrà bisogno. Poi, sai, è un investimento. La casa si rivaluta....." Ancora; pupille a forma di dollaro e - ding, ding! - rumore di registratore di cassa.

Proprio stamani ho visto un cartello scritto a mano appiccicato su un lampione vicino a casa mia. In un paese non molto lontano da Firenze, si vende una "Villetta su due piani, 90 metri quadri totale, in mezzo al verde, 85.000 euro, trattabili"



(Questi mini-racconti sono un po' riarrangiati per evitare di riconoscere i protagonisti, ma sono tutti basati su storie vere e le cifre sono quelle che ho sentito raccontare oppure - nell'ultimo caso - che ho visto con i miei occhi. )

domenica, settembre 06, 2009

L'assessore e la teiera cosmica


La teiera cosmica di Bertrand Russell. Se qualcuno sostiene che in mezzo alle galassie esiste una teiera impossibile da rilevare con qualsiasi telescopio, come si fa a dimostrare che ha torto?


Tempo fa, mi sono accorto con stupore che l'assessorato all'ambiente un comune di una certa importanza in toscana stava organizzando un convegno su un argomento molto controverso su cui potete leggere in dettaglio in questo post di Gianni Comoretto oppure a questa FAQ del CICAP. Scusate se evito di menzionare esplicitamente il concetto per evitare che questo blog venga invaso da spammers come succede spesso quando si parla di questa cosa ma, cliccando sui link, capirete subito a cosa mi riferisco. In ogni caso, non ha tanta importanza di quale argomento sto parlando - è solo un esempio di uno dei tanti concetti pseudo-scientifici che hanno invaso l'internet: dagli ufologi ai luna-complottisti. Il punto di cui volevo discutere è se è opportuno e appropriato che le istituzioni avallino queste cose con il loro patrocinio.

Nel caso specifico, mi è parso il caso di telefonare all'assessore, che conosco da molti anni, per chiedergli gentilmente se pensava che fosse veramente il caso di impegnare ufficialmente il suo assessorato sul patrocinio di un argomento così controverso.

L'assessore mi ha risposto alquanto seccato che:

1. Lui il patrocinio lo da a chiunque la richieda in nome della libertà di espressione.

2. Nessuno ha finora dimostrato che l'argomento sul quale lui dava il patrocinio è una bufala.

3. Aveva già ricevuto molte telefonate e messaggi, anche da miei colleghi universitari, che lo invitavano a riconsiderare l'idea e che proprio per questo riteneva che ci fosse un complotto teso a nascondere qualcosa sul concetto che lui voleva patrocinare.

A volte, nella vita, ti si spalanca davanti l'abisso. La mente vacilla a pensare che uno che ti fa un discorso del genere è l'assessore all'ambiente di un importante comune toscano. Mi fa venire in mente il concetto di "teiera cosmica." Bertrand Russell, parecchi anni fa, ha parlato di questa teiera cosmica come un esempio di una cosa indimostrabile e inosservabile. Se uno sostiene che da qualche parte, in mezzo alle galassie, esiste una teiera impossibile da rilevare con qualunque telescopio, come fai a dire che non esiste? Con questo esempio, Russell voleva invitare scienziati e filosofi a limitare il dibattito a cose che sono osservabili e la cui esistenza/inesistenza sia dimostrabile, perlomeno in linea di principio.

L'atteggiamento dell'assessore, invece, è un classico esempio di uno che crede nella teiera cosmica. Infatti, translato in termini di teiera cosmica, quello che mi ha detto l'assessore è che:

1. Lui il patrocinio lo da anche ai sostenitori dell'esistenza della teiera cosmica in nome della libertà di espressione

2. Non spetta ai sostenitori della teiera cosmica dimostrare che esiste. Spetta agli scettici dimostrare che non esiste

3. Il fatto che ci siano molti scettici sull'esistenza della teiera cosmica implica la presenza di un complotto per non far sapere che la teiera esiste.

Questo tipo di cose sono particolarmente rilevanti per chi, come i membri di ASPO, sostengono una teoria sostanzialmente eterodossa; quella del picco del petrolio. Dove finisce l'eterodossia innovativa e dove comincia la pazzia furiosa? Probabilmente, non c'è una linea netta di demarcazione, ma si può discriminare fra follia totale e ragionevole ipotesi sulla base di un minimo di cultura scientifica. Non è detto che un politico abbia questo tipo di cultura, ma allora dovrebbe affidarsi alle istituzioni che la possono fornire; le università, per esempio. Il fatto che l'assessore stesso mi abbia detto che aveva ricevuto parecchi messaggi in proposito da esponenti del mondo universitario (incluso il mio) vuol dire che questo supporto lo aveva avuto. Ma non ne ha voluto sapere e il convegno lo ha fatto.

Alla fine dei conti è sempre il solito maledetto complottismo. E' una malattia infantile (o forse senile) che affligge in particolare la sinistra politica, dove possiamo sempre trovare gente che in buona fede rincorre le teorie più strambe, convinti che quello che succede sia colpa della CIA, dell'FBI, degli Gnomi di Zurigo, o di chissà chi altro. Riusciremo mai a liberarcene? Forse; ma per ora mi sembra che stiamo andando sempre peggio.

venerdì, settembre 04, 2009

Risorse e denari



Nell'immaginario collettivo si ritiene che aumentando il prezzo di un certo bene, esso sarà acquistato da un minor numero di persone, in modo tale per cui tale bene "scarso" risulterà soddisfare in modo "adeguato" la modificata richiesta.
Ad esempio, se andare in vacanza in qualche villaggio turistico messicano costa ad un Europeo (tra viaggio, hotel e spese varie sul posto) una cifra "elevata" rispetto al suo stipendio, il numero medio di persone che si concedono questo lusso tenderà a diminuire.

In termini generali, il ragionamento può sembrare corretto, ma suona un po' troppo semplicistico.

Da un punto di vista "primitivo" si potrebbe pensare di applicare questa leva al caso del consumo in senso lato. Acquisto di cibi al supermercato, di vestiario, di immobili, di autovetture; utilizzo di servizi vari, ad esempio i trasporti. A ciascuno di questi "bisogni" corrisponde un certo quantitativo di petrolio equivalente necessario in termini di materia prima e/o di energia di trasformazione.

Il fatto è che chi ha una "posizione economica" molto forte, con la crisi la vedrà sostanzialmente poco perturbata. La grande moltitudine di persone, invece, potrebbe essere sopraffatta da ondate inflattive, e si vedrà tagliate le entrate a causa della perdita o della precarietà del lavoro. Nel frattempo, chi ha un reddito elevato potrà mantenere inalterati i propri consumi, anzi, tenderà ad aumentarli * .

Incidentalemente, questo post mi era venuto in mente una sera di fine marzo: stavo andando a spegnere la fiammella pilota (orrore) della mia vecchia caldaia, quando ho visto il camino del mio benestante vicino fumare allegramente, con una temperatura esterna mite. Sul piano psicologico potrei dire: "Chi se ne frega di spegnere la fiammella? 100 € all'anno sono perfettamente alla mia portata". Il punto, però, non è psicologico ma fisico. Una questione di principio, di rifiuto dell'inutilità e degli sprechi.

In pratica il consumo energetico fossile mondiale può essere considerato grossomodo costante, se vogliamo a decrescita molto lenta (questo, a causa del fatto che siamo seduti sul picco-plataeau fisico della curva di produzione). La velocità di sottrazione delle risorse fossili dipende in modo congiunto dalla numerosità della popolazione mondiale e dal consumo medio pro capite. Non ha senso considerare queste variabili isolatamente. Non a caso le famiglie più energivore sono, per lo meno nella casistica occidentale media, le coppie senza figli, o i single: maggiore frequenza di sostituzione auto, elettrodomestici, beni di plus & lusso, n° di viaggi aerei ...

In assenza di una massiccia penetrazione delle rinnovabili, il flusso fossile avrà un andamento conservativo (modulato soltanto -meglio che niente- dall'inoppugnabile profilo a picco della risorsa) e sarà spartito tra un numero sempre minore di gruppi sociali a ricchezza (monetaria) crescente; l' aumentata popolazione "povera" diminuirà dopo il finale periodo di crescita inerziale (peak population) per cause di forza maggiore.

E' esattamente questa la spirale che dobbiamo evitare come la peste; risparmio energetico, rinnovabilità e migliore distribuzione energo-demografica, i migliori antidoti.



* Questo mio ragionamento naif è in realtà meglio formalizzato in quello che va sotto il nome di "paradosso di Jevons"

mercoledì, settembre 02, 2009

Petrolio: a che punto siamo?


La produzione mondiale di "tutti i liquidi" secondo Rembrandt Koppelaar (the oil drum). Gli ultimi mesi hanno mostrato qualche segno di ripresa, ma - nella media - continua il sostanziale stallo nella produzione che dura ormai da cinque anni buoni. E' difficile distinguere un vero e proprio "picco di produzione" in questo lungo altopiano petrolifero che ormai si può vedere come un vero e proprio picco molto slargato. Il picco "formale" potrebbe essere stato nel 2008, ma lo stallo potrebbe durare fino al 2010, con oscilazioni intorno al valore medio attuale che rimane intorno agli 84-85 milioni di barili al giorno. Il picco viaggia al rallentatore, ma non per questo lo si può ignorare.


In politica, ci sono molte persone che hanno fatto carriera con l'essere contro qualche idea o tendenza, definendosi anticomunisti, antifascisti, antinuclearisti, eccetera. Ma c'è al mondo un solo "antiCampbellista", Michael Lynch, che si è costruto una carriera e una notorietà quasi esclusivamente criticando Colin Campbell, presidente onorario e fondatore di ASPO (association for the study of peak oil).

E' difficile capire che gusto ci sia a passare la propria vita criticando un'altra persona, ma evidentemente è una cosa che rende. Recentemente, Lynch è riuscito a farsi pubblicare un articolo sul New York Times intitolato "il picco del petrolio è uno spreco di energia". Ci vuole poco a indovinare di cosa tratta: è tutto dedicato a criticare Campbell (!!).

Non vi sto a ragionare troppo su questa nuova opera di Lynch che, come al solito, è poco più che una sua versione della storia di Pierino e il lupo. Una buona critica fattuale la trovate nell'articolo di Kevin Rietmann su "The Oil Drum" dove si dimostra che Lynch usa sempre lo stesso trucco: confonde ad arte il concetto di "petrolio convenzionale" con quello di "tutti i liquidi".

I due concetti sono diversi: fino a non molti anni fa, quando si parlava di petrolio si intendeva soltanto il "convenzionale"; ovvero quello che viene fuori liquido dai pozzi. Negli ultimi anni, il tentativo disperato di continuare a far vedere curve in crescita, o perlomeno non in calo, ha portato le varie agenzie ad aggiungere al computo qualsiasi cosa sia liquida e bruci; incluso il "gas condensate", i biocombustibili, eccetera. Cambia poco, ma questo ha causato una certa confusione; che alcuni hanno sfruttato per i loro scopi.

Così, nell'articolo del NY times Lynch mostra un grafico che dovrebbe demolire le previsioni di Campbell, facendo vedere che nel 1997 Campbell aveva previsto una produzione di circa 69 milioni di barili/giorno per il 2009. Se guardate il rapporto di Koppelaar che ho citato prima, vedrete che la produzione effettiva di petrolio convenzionale è stata di poco più di 70 Mb/giorno. Un buon risultato quello di Campbell, considerando che era una previsione a oltre 10 anni fa. Invece, Lynch stesso ci fa vedere la sua previsione totalmente sballata di quasi 90 Mb/giorno. Lynch su queste cose ci marcia sopra soltanto perchè riesce a confondere le idee dei lettori mischiando i dati per il petrolio convenzionale e per tutti i liquidi.

A parte Lynch, che è sempre il solito, curiosamente questo 2009 sta vedendo un buon numero di contestazioni al concetto di "picco del petrolio", nonostante l'evidenza che la produzione non aumenta più da anni. Alcuni, semplicemente, non hanno capito il concetto di "picco di produzione" e hanno pensato che in qualche modo il picco era correlato ai prezzi. Avendoli visti abbassarsi, hanno pensato nelle loro testoline piccoline che in qualche modo il picco non c'era più. Altri continuano a dire "che problema c'è? Basta scavare" e alcuni si sono impadroniti del concetto di picco ma, molto ottimisticamente, lo hanno spostato molto avanti nel futuro, come in alcune recenti dichiarazioni di Claudio Bertoli (CNR) che non lo vede prima del 2030.

Insomma, c'è chi crede in una ripresa produttiva. Chissà, magari si riuscirà ancora a tirar fuori qualcosa in più di robaccia nera, liquida e infiammabile da questo povero pianeta. Ma ci si dimentica spesso che si parla di quanto petrolio si può produrre, ma quello che conta è quanto petrolio possiamo utilizzare. E qui, le cose si fanno veramente magre.

Il picco di produzione per persona è stato addirittura negli anni 1970, secondo i dati di Richard Duncan. Questo vuol dire che, anche se da allora la produzione petrolifera ha continuato ad aumentare debolmente (fino al 2004), nella media c'è stato meno petrolio disponibile per ognuno di noi. Certo, vivendo nei paesi "sviluppati", di questo declino non ce ne siamo accorti molto dato che è avvenuto principalmente nei paesi poveri. Ma negli ultimi anni, c'è stato anche il "picco delle esportazioni", ovvero il fatto che i paesi produttori consumano sempre più petrolio e ne esportano di meno. Questo riduce ulteriormente le disponibilità di petrolio per noi, e i risultati si vedono con il calo dei consumi.

In sostanza, è inutile continuare a sognare un'impossibile ritorno dell'abbondanza e nemmeno perdere il nostro tempo a disquisire su se e quanto le previsioni di dieci anni fa erano giuste o sbagliate. I dati sono chiari: la disponibilità di petrolio è ormai in declino da anni e non ha senso impiegare risorse preziose per cercare di strizzare ulteriormente un limone ormai spremuto. Usiamo ancora il petrolio che rimane, dato che non ne possiamo fare a meno, ma cerchiamo di dirigerci il prima possibile verso altre fonti.