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sabato, maggio 26, 2012

Quando la domanda supera l'offerta: ragioni strutturali degli alti prezzi del petrolio

Da “The Oil Crash” del 14 settembre 2011. Traduzione di Massimiliano Rupalti



Guest post di Antonio Turiel


Cari lettori,

Mentre preparavo la conferenza che devo tenere questo sabato all'Espai La Caixa di Girona ho avuto modo di provare ad elaborare alcuni argomenti circa la carenza di petrolio, soprattutto a causa del divario osservato per oltre un anno fra l'offerta e la domanda di petrolio; alla fine le mie analisi sono risultate essere troppo complesse per presentarle nel contesto di una chiacchierata su aspetti più generali, ma il materiale risultante credo sia utile e illustrativo per fare un post. Eccolo.

venerdì, marzo 30, 2012

I brufoli e la gobba

Ovvero "nucleare e molto altro" - Settembre 2011


Di Mirco Rossi

già pubblicato su
O LA BORSA O LA PACE? TRA CRISI RIVOLUZIONI E ATTESE 
Annuario geopolitico della pace 2011 
della Fondazione Venezia per la Ricerca sulla Pace 
Altreconomia Edizioni www. Altreconomia.it/libri 19,90 euro


Sino a qualche mese fa si parlava in continuazione di brufoli: uno era in pericolosa suppurazione e alcuni nuovi stavano per nascere in luoghi molto più fastidiosi di altri. La particolare attenzione con cui si è reagito ha bloccato i nascituri (almeno per ora) ma non ha potuto guarire l’infezione che sta proseguendo, solo un po’ circoscritta da bende precarie ma in un posto lontano, che a noi non dà molto fastidio. Molti altri foruncoli rischiano di maturare e iniziare a spargere i loro germi patogeni tutt’intorno; ce dovremmo preoccupare, ma come al solito sinché non succede non ce ne curiamo.

Abbiamo salvaguardato il nostro giardino, il resto ci appassiona poco; ci rimane indifferente quasi come quella gigantesca gobba, da cui i brufoli si alimentano e sono cresciuti. Nemmeno la notiamo, quasi sia un’entità trasparente, invisibile, inconsistente. Eppure sotto di essa gemono, sempre più compressi e sofferenti, l’economia, lo sviluppo, l’occupazione, le crisi che attanagliano questa civiltà globale, dei consumi e della crescita.

Nel delirio dell’illusione di onnipotenza, maturata sui progressi della scienza e della tecnologia, si procede senza sosta a sfruttare la natura e le sue risorse, dimentichi dei limiti che caratterizzano la realtà. Una realtà che investe anche la dimensione numerica della presenza umana su questo pianeta.

La terra non è una cornucopia che, come racconta la mitologia, rigurgita frumento o frutta all’infinito. Le risorse non rinnovabili (minerali, metalli, combustibili) sono state già in larga parte estratte e distrutte; alcune hanno iniziato un lento inarrestabile declino, per altre gli scenari non escludono a breve l’esaurimento o una presenza residuale.

Quelle rinnovabili spesso non risultano più disponibili a sufficienza in quanto sfruttate ad una velocità superiore a quella del naturale ciclo di rinnovamento e conservazione (pesci, foreste, acqua potabile, territorio fertile).

Particolarissima importanza assume la sfera dell’energia fossile (petrolio, gas, carbone) e nucleare in quanto garantisce oggi circa il 90% del fabbisogno energetico del pianeta.

E dovrebbe far riflettere il fatto che nulla, che non sia totalmente naturale, possa essere prodotto, fatto, trasformato, trasportato, lavorato senza l’apporto di un certo quantitativo di energia che, mentre viene impiegata, si degrada e non risulterà mai più disponibile.

Ogni manufatto, di qualunque tipo, “assorbe” una quota di energia, sostanzialmente irrecuperabile, per sempre.

Stiamo tirando fuori dalla crosta terrestre, per distruggerle definitivamente in circa due secoli, enormi quantità di risorse formatesi poco dopo il big-bang (uranio) o nelle ultime centinaia di milioni di anni (carboni e idrocarburi). E mentre da qualche anno si sta evidenziando una certa sensibilità per i tragici omaggi che i processi di trasformazione di queste energie primarie rilasciano nell’ambiente (inquinamento, riscaldamento globale, mutazioni climatiche), quasi nessuna attenzione viene posta al fatto che una tale ricchezza “di base” non può durare in eterno. I quantitativi presenti in natura sono quasi sempre imponenti, ma per forza di cose limitati (in misura diversa caso per caso) e quando costruiamo qualcosa rimane sempre meno energia per il futuro.




Segnali critici di declino per qualche risorsa sono ormai evidenti e dovrebbero allarmare tutti coloro (e sono tantissimi, a destra, a sinistra, in alto e in basso della scala sociale) che rincorrono la crescita continua di beni, di oggetti, di prodotti.

L’idea di crescita si è installata nell’immaginario collettivo, sia nella frazione ricca che in quella povera del mondo (qui almeno in parte giustificata!), ed è vissuta come un diritto naturale, con l’aggravante che sempre più spesso essa genera una “ricchezza” effimera, superficiale, frivola, incapace di rispondere al bisogno di reale benessere insito in ogni persona.

Lo sviluppo fondato sulla crescita quantitativa (in progressione geometrica) viene ostinatamente perseguito come unica risposta all’aumento della popolazione mondiale, al problema del lavoro, dell’occupazione; viene letto come sinonimo di prosperità e miglioramento sociale, proposto come medicina taumaturgica capace di “risolvere” (con artificio matematico) da sola la questione del debito pubblico. Dimentichi che l’abitudine di chiudere i bilanci statali “in rosso”, ormai consolidata in quasi tutti i paesi del mondo, si configura in realtà come un vivere “a credito” (non autorizzato) delle generazioni future, lasciando loro un mondo sempre più caldo, inquinato, indebitato e con i magazzini di risorse naturali pressoché esauriti.

Eppure l’irrazionalità dell’idea che risorse limitate per definizione possano garantire una crescita senza fine, emerge in tutta evidenza. Con una semplicità che appare persino offensiva.

In parecchie decine di conferenze, dibattiti, tavole rotonde, prima del referendum di giugno ho parlato a lungo di brufoli-nucleari chiarendo già alle prime parole che, pur rappresentando essi un problema con i fiocchi, la questione gigantesca che abbiamo davanti è altra. All’inizio mi si guardava sempre con un certo sospetto ma al termine una nuova consapevolezza serpeggiava tra il pubblico. Fuor di metafora, l’energia nucleare per uso pacifico rappresenta solo l’aspetto più epidermico, minoritario e non certo risolutivo del desiderio insensato che l’umanità ha di garantire a sé stessa la disponibilità di energia necessaria a continuare sulla strada della costante crescita, dell’incremento anno su anno del PIL.

Dopo Fukushima, ampi strati di cittadini hanno dato vita a una forte opposizione contro l’energia elettronucleare, in gran parte originata dall’emozione degli eventi e dalla paura che un disastro di tali dimensioni ha risvegliato. Pochi tuttavia conoscono i motivi che, oltre ai ben noti e gravi pericoli per la salute (soprattutto in caso d’incidente) e ai problemi relativi alle scorie, giustificano una tale contrarietà. Alcuni emergono chiaramente se si allarga lo sguardo al panorama completo delle fonti energetiche primarie (idrocarburi, carboni, idroelettrico, nuove rinnovabili, geotermico):

1) L’energia nucleare (oltre 430 reattori, teoricamente attivi) produce un quantitativo di elettricità che a livello mondiale rappresenta solo poco più del 5% dell’energia primaria e del 12 % dell’energia elettrica.

2) L’elettricità rappresenta meno del 40% dei consumi energetici mondiali. Se anche, come ormai risulta opportuno, possibile e necessario, si riuscisse ad aumentare questa quota (convertendo per esempio i sistemi di trasporto da combustione interna a elettrico) una larghissima parte dei nostri fabbisogni energetici resterebbe “scoperta”, non potrebbe mai essere soddisfatta con la fonte elettrica (servirà carbone per ridurre i minerali di ferro a ghisa, petrolio e gas per tutte le plastiche, i fertilizzanti, i lubrificanti, i carburanti, i tessuti sintetici, la gomma, gli asfalti, i medicinali, i colori, le colle ecc).



3) L’uranio, unico elemento in grado oggi (ma probabilmente anche in futuro) di mantenere attiva autonomamente nel tempo una reazione di fissione nucleare, è un metallo ricavabile da particolari minerali, che solo in quantità limitata lo contengono in percentuali sfruttabili. Le stime sulle riserve ancora esistenti variano parecchio, tanto che quelle ottimistiche parlano di poco meno di un secolo di durata mentre quelle pessimistiche di meno di un trentennio. Si sta iniziando a lavorare minerale con tenori di uranio sempre più bassi, scontando un progressivo aumento dei costi. Già da tempo è più conveniente recuperare nuovo combustibile dalle cariche delle bombe dismesse con gli accordi SALT e rilavorando il cosiddetto “uranio impoverito”.

4) Nessuno è in grado di definire oggi, in particolare dopo quanto accaduto a Fukushima, il costo della costruzione di una centrale nucleare. Per la centrale di Olkiluoto (quasi terminata sulla base di un progetto approvato nel 2002), la sola di cui siano disponibili in termini accettabili i costi, si parla ormai di oltre 6,5 miliardi di euro. Alla messa in servizio dell’impianto mancano parecchi mesi, se non anni, e non è escluso che il disastro giapponese obblighi a nuove misure di sicurezza che complicherebbero il quadro. Non casualmente dalla fine degli anni '70 i privati si sono tenuti ben lontani dall’industria nucleare, rimasta appannaggio delle strutture statali, spesso interessate a questa tecnologia particolarmente onerosa per scopi non propriamente pacifici.

5) Nessuno ha mai realmente implementato nei costi della centrale il prezzo del suo smantellamento a fine vita. Si tratta di una cifra molto elevata ma in realtà sconosciuta, relativa a un’operazione affatto risolutiva dei problemi legati alla radioattività residua e che dura da alcuni decenni, a secoli o millenni. Le esperienze sinora fatte sono poche e parziali e non permettono di esprimere standard di costi affidabili. Nella fase iniziale dell’epoca nucleare la questione non veniva presa in considerazione; da qualche tempo alcuni paesi (Francia e USA) hanno deciso di implementare nel prezzo del kWh una quota da accantonare per finanziare lo smantellamento dell’impianto. Alcuni stimano che l’ordine di grandezza complessivo di questo onere non sia molto lontano da quello di costruzione dell’impianto.

6) Gradualmente negli ultimi 30 anni quasi un centinaio di reattori sono stati spenti per “vecchiaia” e sono in attesa che si creino le condizioni per iniziare le attività di smantellamento. Le risorse a questo scopo non sono facilmente reperibili, come non lo sono quelle necessarie a mantenere in efficienza molti altri impianti nucleari ormai “anziani”. Inghilterra e Francia ne hanno diversi “in grave difficoltà”, per carenza di risorse manutentive. Negli USA aumentano le denunce di scarsa manutenzione degli impianti più vecchi. Gli stress-test a cui dopo Fukushima si è deciso di sottoporre tutti gli impianti, se fatti seriamente aumenteranno di sicuro il numero di casi bisognosi di significativi interventi se non di anticipata chiusura.

7) Nessuno ha mai potuto o può definire i costi reali della messa in sicurezza e conservazione nel tempo delle scorie e dei materiali radioattivi provenienti dallo smantellamento. Lo stoccaggio oggi non può far riferimento a nessun deposito definitivo funzionante. Asse II° nella Bassa Sassonia sembrava sigillato per sempre dagli anni ’80 ma a causa di impreviste e pericolose infiltrazioni d’acqua molto probabilmente dovrà essere aperto e svuotato dei suoi 126.000 fusti. Yucca Mountain nel Nevada era prossimo a iniziare l’attività quando, a seguito di nuove valutazioni geologiche, il sito è stato bocciato: dopo quasi 30 anni di lavori (e decine e decine di milioni di dollari spesi) il progetto ora è completamente abbandonato. Inoltre il mantenimento in sicurezza di un sito non ha tempi prevedibili e quindi risulta pressoché impossibile definirne l’onere.

8) Come indefinibile a priori (e anche a posteriori) è il costo economico di un incidente grave. Seppure le vittime della fase critica iniziale degli incidenti nucleari, almeno sinora, siano state inferiori a quelle di altri incidenti ritenuti pressoché “normali” in questa epoca, l’impossibilità di eliminare la radioattività e le sue tragiche conseguenze sul biosistema, per tempi molto lunghi, rende “non valutabile” (quindi non accettabile) il danno inferto a intere regioni; dal punto di vista materiale ma ancor più etico e sociale. Per “default” di questi problemi è costretta a farsi carico la società nel suo insieme, per generazioni.

Se, in uno scenario di persistente crisi economica mondiale, si considera il modesto ruolo quantitativo e temporale che la fonte nucleare può svolgere nel panorama energetico globale e si sommano le criticità relative al mantenimento in funzione degli impianti che invecchiano, la crescita dei costi di costruzione di nuovi impianti rispondenti a più elevati livelli di sicurezza, i limiti relativi alle risorse di uranio, l’incognita degli oneri di smantellamento, gli insoluti problemi di stoccaggio delle scorie e il crescente rifiuto sociale, diventa completamente irrazionale immaginare una fase espansiva per l’energia nucleare.

Eppure qui da noi c’era anche chi aveva il coraggio di sostenere che la costruzione di impianti nucleari avrebbe sostituito buona parte delle importazioni di greggio e sarebbe stata la risposta più opportuna al prezzo, troppo elevato, del petrolio; dimenticando – tra l’altro! - che in Italia solo il 4% dell’energia termoelettrica viene generata bruciando prodotti di raffineria, che l’energia termoelettrica nel suo insieme rappresenta il 66% dell’offerta nazionale di elettricità e che tutta l’elettricità italiana equivale a un terzo (34%) dell’energia totale consumata nel paese.




Si dimostrava così la palese incompetenza nel cogliere il segnale che l’inversione di tendenza della “gobba” era iniziata, l’incapacità di fronteggiare il progressivo declino della risorsa “principe”, il petrolio: la fonte che quasi da sola ha garantito lo straordinario sviluppo del pianeta per tutta la seconda metà del secolo scorso.

Nessuna altra fonte conosciuta è così prolifica di energia e di sostanze come il petrolio che, ormai dal lontano 1980, ogni anno scopriamo sempre in quantità inferiore a quella che consumiamo. Leggendo i dati statistici sembra che le riserve esistenti non diminuiscano ma il fenomeno è in buona parte dovuto a rivalutazioni, a volte collegate a più moderne tecnologie di estrazione ma spesso originate da “nuove stime” (non meglio giustificate) dei giacimenti già conosciuti. Tanto che diversi studiosi ritengono scarsamente affidabili i dati ufficiali forniti dai paesi produttori, come, per esempio, quelli dell’Arabia Saudita.

In ogni caso le quantità di petrolio sono ancora molto consistenti; probabilmente è stata estratta circa la metà di quello esistente. Quindi il problema non va enunciato con “il petrolio è terminato” (ce ne sarà almeno per parecchi decenni ancora, si spera anche più) bensì con “cresce progressivamente la difficoltà a soddisfare la domanda globale”, in relazione ai problemi nel trovarlo, alla possibilità di estrarlo e ai risultati dell’estrazione.

Infatti, pur accettando per veri i dati sulle riserve, la questione va oltre le stime dei quantitativi ancora esistenti, o ipotizzati: aspetto determinante è il ritorno utile dell’attività di ricerca ed estrazione. Cioè il rapporto tra l’energia ottenuta e quella investita per trovare ed estrarre, per esempio, nuovo petrolio.

Nelle varie analisi riferite agli scenari energetici inspiegabilmente non si tiene conto dell’energia che si consuma con le attività organizzative, gestionali, di ricerca, di esplorazione marina e terrestre, di sondaggio, di perforazione, di prove, di messa a punto e coltivazione del giacimento, di lavorazione e trasporto della risorsa. E questo rapporto, mediamente, non può che diminuire nel tempo: le ferree leggi dell’economia costringono inevitabilmente a sfruttare per prime le riserve “più buone e più facili”, quelle che garantiscono profitti immediati e consistenti, lasciando per ultime le più complicate, di peggiore qualità, quelle meno vantaggiose.




In termini tecnici si parla di ERoEI (Energy Returned On Energy Invested), un indice che per buona parte della prima metà del secolo scorso per il petrolio si attestava attorno a 100. Cioè, con l’energia di un barile di petrolio, si portavano a casa 100 barili di petrolio. Un risultato che oggi, quando va bene, arriva a 15 e sempre più spesso non supera 10, 12, destinato a ridursi ulteriormente.

La logica di questo approccio appare estranea al mondo dei combustibili, anche se normalmente accettata in altri campi. Non suscita meraviglia se lo sfruttamento di una miniera d’oro, o di carbone o di mercurio, viene interrotto quando la risorsa risulta troppo poco concentrata nel terreno. L’estrazione non è più conveniente ma ciò non significa che il metallo o il minerale in quel luogo sia completamente esaurito (anzi se ne può stimare facilmente il quantitativo): semplicemente l’estrazione risulta eccessivamente “costosa” dal punto di vista dello scavo, del trasporto, della lavorazione e quindi non più vantaggiosa.

Questa prassi vale per tutte le sostanze che preleviamo dall’ambiente naturale; nel caso dei combustibili (tutti) la riduzione dell’ERoEI individua con grande precisione la validità della coltivazione di un giacimento mentre il valore monetario riconosciuto alla risorsa ha scarsa influenza sui benefici reali (diversi da quello economico) derivanti dall’estrazione.

L’aumento del prezzo di un barile di greggio sul mercato permette di sfruttare giacimenti più “difficili” e quindi estrarre altro olio, ma sino a un certo limite. Per assurdo, se il prezzo arrivasse a 1.000 $/barile qualcuno potrebbe per un po’ ricavarne enormi profitti economici ma appena l’estrazione offrisse un ERoEI attorno a 3 o 4, risulterebbe appena in grado di garantire alla collettività un livello di pura sussistenza e potrebbe risultare più conveniente indirizzare risorse e lavoro alla coltivazione di terreni e produzione di cibo.






Infatti, l’ERoEI individua anche il livello al quale la comunità può continuare a mantenersi o svilupparsi accumulando e usando “vera ricchezza”, cioè energia, materiali, elementi, in aggiunta a quelli di cui disponeva.

Più basso è l’ERoEI minore sarà il vero “guadagno” socialmente fruibile. Inoltre il basso ERoEI e le difficoltà nel soddisfare la domanda, influenzano direttamente il prezzo del greggio trascinandolo su livelli che l’economia (questa economia!) non è in grado di sopportare a lungo.

Sono elementi che condizionano profondamente le possibilità di sviluppo (quello vero, non fittizio) e che una parte degli economisti considera tra i principali fattori da porre alla base delle crisi economico-finanziarie globali cui assistiamo dal 2008.

La possibilità di produrre nuovi beni e nuovi servizi in un determinato paese può essere attivata e sostenuta (in parte e momentaneamente) da un flusso monetario creato ad hoc, ma ciò comporta indebitamento con l’estero o con le future generazioni di cittadini o inflazione. Un paese che non dispone di reali risorse interne (o di lavoro e impianti adeguati, per poter rivendere poi all’estero le risorse importate trasformate in beni) non può realizzare nessuna crescita o sviluppo.

Se, invece di uno stato, si prende in considerazione l’insieme del pianeta, la possibilità complessiva di produrre nuova ricchezza per l’umanità dipende anzitutto dalla disponibilità di nuove risorse. Contano anche altri elementi importanti e indubbiamente incisivi (scienza, tecnologia, cultura, organizzazione) che tuttavia non possono che applicarsi alla disponibilità di nuovi flussi di risorse lavorabili, sfruttabili, impiegabili. Per un certo periodo può risultare utile e percorribile il riequilibrio tra sacche di agiatezza e di povertà, ma alla fine l’umanità deve attestare la propria consistenza, i propri consumi complessivi e adeguare il proprio stile di vita medio al livello del flusso di risorse disponibile.

In sostanza, ci si può illudere per un po’ stampando denaro, magari spostandolo da un punto all’altro, ma non si possono stampare barili di petrolio. E nemmeno cibo, per produrre il quale oggi serve molto petrolio e molta energia.

In alternativa, ricorrendo alla fantascienza, si può pensare di importare risorse dai marziani e pagarle con parte dei prodotti lavorati da noi umani.

In concreto però si sta evidenziando in questo periodo l’accentuarsi dei conflitti (politici e armati) attraverso i quali chi riesce a mettere in campo una maggiore forza impone la sua autorità e si accaparra quante più risorse riesce a raggiungere. Poco importa se così si uccide, si distruggono territori, ambienti, equilibri sociali: l’imperativo è recuperare risorse primarie per continuare la crescita e aumentare la produzione. Chi può, chi è in grado, continua a perseguirlo, a qualunque prezzo, indifferente ai costi sociali ed ambientali che ne conseguono.

E’ storia vecchia quella di accumulare più ricchezza possibile, caratteristica preminente dell’uomo almeno dalla fase in cui ritenne non più indispensabile organizzare i propri gruppi sociali a livello solidaristico.

Considerate le peculiarità del petrolio, si capisce facilmente perché da qualche decina d’anni l’interesse si concentri in particolare su questa risorsa. Non si trascurano affatto molte altre sostanze, acqua e terreno agricolo compresi, ma il petrolio è al centro degli interessi di tutti i paesi del mondo; in particolare quello ancora relativamente facile da estrarre e di buona qualità. Anche se da qualche anno non si disdegna di grattare il fondo degli oceani con pozzi che superano i 9 km di profondità; si perfora tra i ghiacci perenni, si accendono fuochi a migliaia di metri sotto terra per riscaldare e spingere fuori greggio ostinato, si lavorano ad elevate temperature sabbie oleose scarsamente produttive e altamente inquinanti.







Ma più gravemente si registrano comportamenti sempre più chiari ed espliciti legati in alcuni casi al progressivo esaurirsi di giacimenti, in altri dalla necessità di garantirsi in ogni modo nuove e maggiori disponibilità.

I pozzi del Mare del Nord dal 2000 producono sempre meno e stanno per esaurirsi; ecco allora che l’Inghilterra ritrova l’interesse per le miniere di carbone nazionale, chiuse nei primi anni ’80 e, assieme alla Francia, improvvisamente scopre di condividere gli aneliti di democrazia del popolo libico. La Cina sta accaparrando giacimenti in ogni dove, Africa soprattutto, anticipando enormi quantità di denaro in cambio di promesse di fornitura. Gli USA, da tempo presenti in tutti gli scacchieri petroliferi mondiali, puntano a convincere i nuovi fornitori portandoli a sedere sotto l’ombra del dollaro e dei propri cannoni. La Russia ha esplicitamente rivendicato i fondali sotto i ghiacci del polo nord, a costo di scontrarsi – per ora a livello di diplomazie – con il Canada e gli USA.

Ho fatto cenno solo al petrolio cercando di chiarire che il tempo del greggio facile a basso costo è definitivamente tramontato; ma scenari simili (con alcune importanti varianti temporali e quantitative) sono riferibili al metano e ai carboni. Inoltre quasi nulla ho scritto sulle molteplici e gravissime conseguenze che l’impiego sempre più massiccio di queste fonti determina sul clima e sulla biosfera.







Volutamente ho scelto di circoscrivere queste considerazioni agli aspetti delle fonti d’energia meno avvertiti e meno dibattuti, anche tra coloro che possono essere considerati sensibili a problematiche di questo tipo.

Nel momento in cui – e molti lo considerano prossimo – la domanda di energia globale non potrà essere più garantita dalle possibilità e dalle capacità estrattive, il conflitto non potrà che esplodere. Lo scontro globale per il petrolio resta oggi ancora occultato sotto la foglia di fico della democrazia da esportare, dello sviluppo locale da favorire, ma la situazione sta peggiorando velocemente e con ogni probabilità tra non molto dovremo assistere a guerre guerreggiate esplicitamente per il dominio sui pozzi.

Quasi certamente saranno anticipate da disordini interni alle nazioni socialmente più esposte e fragili, da ricorrenti, profonde e complesse crisi economico-finanziarie (l’attualità ci sta offrendo esempi evidenti) ma dobbiamo anche aspettarci che si verifichino fenomeni di collasso della rappresentatività democratica: quanti cittadini, all’evidenziarsi di una prima sostanziale carenza, privi della benchè minima consapevolezza della situazione, sapranno comprendere l’ineluttabilità di un improvviso razionamento dei carburanti, o dell’elettricità o delle forniture di gas? Quale livello di rappresentatività della volontà popolare potrà vantare un qualsiasi governo costretto dalla mancanza di alternative a simili non rinviabili decisioni?

Assisteremo anche al liquefarsi delle alleanze tra stati, già ora così incerte e fragili.

Per esempio, se dovesse mancare una significativa percentuale di greggio o di metano in Europa, è ipotizzabile un tavolo in cui ciascuno degli stati rinunci di buon grado in proporzione ai propri consumi? Sembra perlomeno arduo, se non inverosimile.

Su questi aspetti oltre un anno fa lo JOE (Joint Operating Environment – United States Joint Forces Command) e il DOE (Department Of Energy) negli USA e, in Europa, un think-tank dell’esercito tedesco (ZtransfBw-Zentrum für Transformation der Bundeswerh), hanno pubblicato dei lavori e presentato attente considerazioni, ma anche se proposte da organismi di questo livello quasi nessuno le ha raccolte e sviluppate.

Gli avvertimenti sugli effetti collegati all’esistenza della “gobba” non mancano certo, ma la crescita resta comunque il feticcio a cui tutto sembra sacrificabile. Trovare soluzioni non è certo facile ma per iniziare è indispensabile almeno essere consapevoli della situazione.

Ci si è mobilitati per il nucleare ma si resta pressoché immobili di fronte alla questione energetica globale: il declino del petrolio e la limitatezza delle fonti di energia fossile. Come paralizzati, dimentichi che nessun pericolo di guerra concreto (fatte salve questioni particolari, tipo Israele-Iran) era ed è ipotizzabile in ordine allo sviluppo della fonte elettronucleare, mentre invece le guerre per il petrolio vengono agite surrettiziamente da decenni e rischiano di diventare esplicite entro breve coinvolgendo ambiti privi di confini.

E’ urgente quindi attivare velocemente i rimedi possibili: riduzione dei consumi e sviluppo di tutte le energie rinnovabili, avvertiti però che difficilmente si riuscirà a coprire il gap che si determinerà a causa del declino dei fossili. Si pone quindi come indispensabile la costruzione di un vero e proprio nuovo sistema di pensiero, orientato a perseguire un diverso benessere sganciato dallo sviluppo materiale e in grado di rigettare il paradigma di un’impossibile costante crescita della produzione e dei consumi. Ben consci che in questo caso nessun referendum potrà salvarci.

mercoledì, gennaio 11, 2012

mercoledì, dicembre 28, 2011

Pane e Petrolio

Di Massimo Nicolazzi


Tratto da Limes 6/2011

Sommario: Le rivolte arabe segnalano la crisi dello Stato rentier, in cui la rendita sostituisce il reddito. L'esempio saudita. Alla radice, la crescita demografica. Più consumi interni e meno export producono instabilità. Una lezione per Occidente e Cina.

1. Dici arabo e magari pensi al pane. Però anche, e forse più spesso, al petrolio. Il prezzo del pane che aumenta ti fa partire la rivolta tunisina. In Arabia Felix e possibilmente altrove il prezzo del petrolio che sale o almeno tiene la rivolta dovrebbe impedirla, o almeno attenuarla. Il pane arabo è fatto col petrolio, o quasi.
In qualche caso oltre al pane ci fanno anche il companatico. In Medio Oriente è palmare. L’Arabia Saudita, anzitutto. L’80% delle entrate fiscali è generato dal settore idrocarburi, che vale da solo il 45% del PIL, e che vale anche il 90% del valore totale delle esportazioni. In Iran (che non saranno arabi, ma con buona pace di Huntington arabi e ariani sono almeno a qualche effetto assimilabili; e a fini di pane e petrolio li terrò assimilati) gli idrocarburi contano per oltre il 50% del budget statale; in Iraq per il 90%; e così a seguire via Kuwait ed Emirati.
Qualcuno la definisce maledizione del petrolio. Curse of oil. E’ l’equivalente macroeconomico del vincere la lotteria. Difficile che chi vince il superenalotto sia preso da un’irrefrenabile bisogno di lavorare sodo e subito. Difficile che chi scopre il dono di Natura di una cornucopia di risorse sia colto dall’ansia di produrre altro. Inutile ironizzare sul clima o teorizzare di civiltà (magari usando il termine come sinonimo inconfessato di “razza”). Capita ovunque e a chiunque. Quando in Olanda scoprirono Groeningen, che poi è uno dei più grandi giacimenti di gas d’Europa e produce ormai da cinquant’anni, gli successe la stessa cosa. Monocultura dell’idrocarburo, e il resto dell’economia tra chiusura e recessione. L’economista politically correct da allora evita curse of oil. Dutch disease è piu’ educato. Financo gentile.
Chiamatelo come preferite. Il fenomeno, se pur con varianti infinite, è abbastanza semplice. Madre Natura, dopo gravidanze in media di qualche milione di anni, ha generato varie discendenze di idrocarburi. Dopo averle generate se le è tenute in pancia; o meglio, per transire dall’anatomia all’economia, ce le ha tenute in deposito. Il petrolio non si “produce”, ma giusto lo si “estrae” dal suo magazzino naturale. La “produzione” in senso proprio e qualche milione di anni di stoccaggio sono economicamente un regalo (le esternalità, if any, sono qui intenzionalmente omesse).
Chi trova petrolio riceve in regalo una “merce”; o comunque un prodotto che gli è trasferito senza costi di produzione e/o magazzino. Svuota, appunto, il magazzino; e vende quello che ci trova. Nessuna meraviglia che il petrolio possa insieme costare pochissimo (fino all’inizio degli anni Settanta dell’altro secolo poco più di un dollaro a barile) e garantire rendite imponenti a chi ne ha e/o produce.
La rendita. Una fonte di energia fossile è un mezzo per produrre energia, o comunque (in senso lato) uno “strumento” di produzione, più che un” prodotto”. Nelle storia è pure successo che ad uso medicinale te ne prescrivessero anche “three teaspoons three times a day”, e pure per via orale; ma di regola il petrolio non si beve, siccome il carbone non si mangia. Il petrolio lo si raffina e si trasforma per farne prodotti che servono a produrre. Carburante per le nostre gomme, o fertilizzante per l’agricoltura, o materia prima per plastiche, o quanto e tanto altro.
Trovi il petrolio dentro un territorio altrimenti dotato dei rudimenti di un’economia e un assetto sociale “moderni” (nel significato corrente dell’Occidente, e absit giudizio di valore), e sai cosa farne. Se hai un apparato produttivo (fabbriche e mercati collegabili con infrastrutture di trasporto e agricoltura meccanizzabile e quant’altro) e ti abbonda un mezzo (straordinariamente efficiente) di produzione sai come impiegarlo. La rendita del Dono fossile la reimpieghi direttamente nel processo produttivo. Elettricità per produrre merci e servizi; e carburante per muoverli; e fertilizzanti e trattori per alimentare quell’altro fattore di produzione (il lavoro) con sempre più pane prodotto da sempre meno uomini. La rendita si trasforma in un minore costo di produzione del prodotto finale. E il produttore ne fa leva per candidarsi a leadership internazionale (non solo commerciale e/o industriale). Per riferimenti, rivolgetevi all’Inghilterra carbonifera del XIX secolo o alla leadership petrolifera americana del XX (nell’immediato dopoguerra, il 60% del petrolio prodotto al mondo era ancora estratto negli Stati Uniti).
La rendita puoi però anche usarla semplicemente come rendita, e tale ti resta. In terminologia moderna significa di regola “convertirla” in spesa pubblica. Improduttiva. Vendo il petrolio e uso il ricavato per sussidi, pensioni e indennità varie. La tentazione può prenderti anche se sei “moderno”. Dutch disease. O se serve un altro esempio, la politica laburista inglese ai tempi delle grandi scoperte nel Mare del Nord. Tassazione dei profitti petroliferi oltre il 90% di aliquota e social welfare senza limiti. Il petrolio usato quasi per ironia per sussidiare anche i minatori del carbone. Da chiedersi quasi se senza il petrolio laburista la Thatcher avrebbe mai trionfato.

2. La tentazione è forte se il petrolio lo trovi in un tessuto connettivo “moderno”. Irresistibile se lo trovi nel deserto. Inevitabile se nel deserto lo trova qualcun altro. Per decenni e quasi un secolo, la storia del petrolio fuori d’America è (al netto della Russia) una storia dell’espansione petrolifera occidentale. Pochissimo inglese e tantissimo americana. Dalla prima concessione iraniana del 1901 alla trasformazione nel dopoguerra dei giacimenti sauditi nella cinquantunesima stella americana lo schema è lo stesso. Il petrolio è tutto per me e per il mio apparato economico (e militare). E con lui mi porto via la sua rendita; al netto di una qualche royalty (nel 1901 si comincia con il 16% neanche delle revenues ma dei profitti) che lascio nel paese a titolo poco più che di disturbo. La rendita del produttore confluisce quasi per intero, riducendolo, nel costo di produzione del consumatore. Affitto il terreno a prezzi di pascolo; lo coltivo intensivo a frumento; e sul posto non lascio neanche una spiga, che da me il pane bianco si vende caro. Costa meno di un’occupazione militare; e rende infinitamente di più.
Per anni, il tema per i produttori arabi non è perciò come impiegare la rendita, ma (analogamente all’esperienza precedente dei produttori centro e sudamericani) come trattenerla. E poi, in progresso di tempo, come trattenerne sempre di più. Escludendo l’Occidente dal produrre o quantomeno convertendo la rendita sua e delle sue imprese entro i limiti di un normale profitto industriale.
Missione compiuta (o quasi) negli anni Settanta del Novecento. Tra le crisi (o presunte tali) del 1973 e del 1980. In parte per via di nazionalizzazioni. Il terreno non lo affitto più e me lo coltivo io. In parte per revisione radicale dei rapporti con le società petrolifere d’Occidente. La vecchia royalty si converte in strumenti di controllo e programmazione del ritorno sul capitale investito. Il che ad ammortamento avvenuto può consentire al paese di trattenersi anche più del 90% del profit. Via nazionalizzazioni o revisioni, la rendita resta infine laddove si produce.
Insieme succede altro, e forse di più importante. Si appropriano della rendita. Ma anche e in parallelo revisioni e nazionalizzazioni li mettono in grado di controllare la produzione. Come si sviluppa un giacimento, insomma i tempi della semina e del raccolto, diventa decisione del paese produttore e non più dell’impresa. Sono in grado di controllare i volumi; e quindi potendo modulare l’offerta sono o quantomeno si sentono in grado di modulare anche i prezzi. Si sono impadroniti della rendita (quasi) per intero; e adesso potrebbero essere anche in grado di programmarne il valore. Se davvero si può agire su volumi e prezzi, una politica diventa possibile.
Volumi o prezzi. Massimizzare la rendita ricavabile nell’immediato, producendo il più possibile il più velocemente possibile. O distribuire nel tempo, riservando una quota del producibile al futuro. Una politica delle risorse è in ultima istanza la scelta politica di un tasso di sconto. Il tasso di sconto come misura di quanto petrolio mi conviene produrre subito e quanto lasciare in sottosuolo. Se sconto basso, ne salvaguarderò per le generazioni future; e se sconto alto mi converrà produrre tutto il producibile. Se sconto alto difendo i volumi; e se sconto basso col deprimere l’offerta difendo i prezzi.
Tra il 1973 e l’inizio degli anni Ottanta fare politica, e dunque scegliere, gli pare possibile. Però si dimenticano che esiste anche la domanda, e che non è scontato che la domanda sia sempre crescente. E dunque si mettono a difendere insieme volumi e prezzi. La cavalcata è straordinaria e apparentemente inarrestabile. Un barile di petrolio nel 1971 aveva un posted price di un dollaro e ottanta, e buona parte della sua rendita finiva a occidente. Nel 1980 siamo a trentaquattro dollari; e la rendita è trattenuta laddove si produce. La domanda però reagisce. Il consumatore si mette a giocare con i volumi. Non solo nuovi giacimenti altrove (dal Mare del Nord all’Alaska), ma anche cambio di fonti energetiche e inizio del risparmio. I consumi non crescono più. E nel 1988 il prezzo è tornato sotto i 13 dollari e mezzo. E’ la prima lezione. Il petrolio è difficilmente rimpiazzabile con altro. Ma difficile non vuole dire impossibile. Più il prezzo corre, e più il produttore rischia di scoprire che il petrolio è un bene fungibile. Qualunque sia la politica, gli andamenti del prezzo non possono rendersi estranei alla logica di domanda e offerta.
Succede in parallelo un’altra cosa. A provarsi a fare politica non sono i produttori, ma in realtà solo uno. Lo swing producer. L’Arabia Saudita. E’ l’unica all’inizio degli anni Ottanta a tagliare davvero i volumi per difendere i prezzi. Da 12 milioni giorno scende sino a 2,5; e poi, stanca di essere l’unica a tagliare in un’Opec dove tutti gli altri tendono invece a pompare in eccesso, decide di mollare i prezzi e far cassa con i volumi. Passa a 6 milioni di barili giorno in pochissimo. Il prezzo arriva temporaneamente sotto i dieci dollari, ma giusto o sbagliato il messaggio fa la storia. L’Arabia Saudita è l’unico elemento di bilanciamento del sistema. L’unico produttore “indispensabile”.

3. Tra il 1973 ed il 1980 si compie la conquista della rendita. Adesso la si può usare. La scelta è unanime. La rendita resta rendita. Il dibattito in ipotesi virtuoso su tasso di sconto e salvaguardia delle generazioni future non può nemmeno incominciare. Il produttore arabo ha priorità diverse. C’è da pensare all’immediato della stabilità politica e dell’ordine sociale.
La rendita non confluisce in un costo di produzione, lasciando poi alla produzione di generare reddito. La rendita non alimenta il reddito. La rendita lo sostituisce. Sostituendo il gettito petrolifero alla tassazione ordinaria come forma e fonte principale delle revenues statali; ed alimentando direttamente élite e masse.
E’ il modello dello Stato rentier. O se preferite dell’economia del sussidio. La ricchezza petrolifera redistribuita direttamente in forma di aiuto anzichè trasformata in fonte (mediata dal processo economico) di salario. Col risultato di soffocare l’incentivo allo sviluppo di altro, e di rendere la sussistenza interna sempre più dipendente dal fluire regolare della rendita. E’ la normalità della stagnazione.
Il circolo élite/masse ne è interamente e viziosamente alimentato. In un modello politico dove è men che netta la distinzione tra risorse statali e risorse delle famiglie o tribù o individui che lo Stato governano la rendita è alimento diretto della ricchezza delle élite. E però è anzitutto anche fonte della loro legittimazione. E base del loro consenso. Nell’economia del sussidio le élite giustificano la propria ricchezza elargendo sussistenza (di cui l’ipertrofia del pubblico impiego è elemento comunque compresente). E però al contempo dipendono dalla possibilità di continuare a garantire la sussistenza per la loro stessa sopravvivenza in quanto leadership, quando non anche per la propria sopravvivenza fisica.
La stabilità del regime è predicata sulla stabilità della rendita. Il petrolio è la priorità della politica interna. Ex bitumine imperium. Ex bitumine panem. Se preferite, curse of oil.
Sembra brutto. Però ha retto. Dal 1980 a questa primavera per far saltare un regime c’era voluta un’invasione. Gli altri, con poche eccezioni, belli e stabili; e con l’eccezione confessionale iraniana anche tendenzialmente quando non istituzionalmente ereditari. Se la distinzione tra bilancio statale e ricchezza familiare si fa labile, e sei il più potente solo se sei anche il più ricco, l’esito ereditario è quasi fisiologico.
Poi da primavera scossoni dappertutto. Regimi che saltano e altri che restano, ma anche loro un poco scossi. Le forme nazionali sono diverse. E coinvolgono anche paesi che hanno mutuato l’economia del sussidio pur non essendo grandi produttori in proprio. Magari percepisco male. Ma per come ce la raccontano e vista da lontano sembrerebbe comunque che quelli che non ne hanno (Giordania e Marocco, per non fare nomi) siano stati attraversati da minor sconquasso sociale. Meno Dono, meno maledizione. E però anche altra conferma che tra i motori della rivolta araba c’è anche la crisi del modello rentier. Negli ultimi trenta/quarant’anni qualcosa deve essere cambiato. E forse non è giusto il crescere di fame di democrazia e libertà.

4. Un primo e trascurato cambiamento degli ultimi quarant’anni è che adesso le masse sono cresciute. Proprio in senso demografico. I cittadini del produttore nel crescere si sono moltiplicati. L’alimento rendita ha alimentato tanto la fertilità che l’aspettativa di vita.
I sauditi vi paiono comunque spopolati, che è tutto deserto. Però una cosa è la densità per metro quadro e un’altra il ritmo riproduttivo. Nel 1970 i sauditi erano 5,7 milioni; nel 1980 9,6; e quest’anno più che 27. In Iran erano 28,5; poi 39 e adesso più di 75 milioni. In Iraq poco più di 10, e poi di 14, e adesso di 31. Non ti cambia di molto in Nordafrica. In quarant’anni l’Algeria è passata da 13 a quasi 37 milioni di abitanti; la Libia da meno di due a quasi sette; l’Egitto (che è stato un esportatore magari solo marginale, ma ha comunque sviluppato una sua variante dell’economia del sussidio e si ritrova ora aggravato dall’essere avviato a diventare strutturalmente importatore) è passato da 35 milioni di persone a più di 80.
La progressione non è costante, ed anzi ha decelerato bruscamente nell’ultimo decennio. I numeri dei tassi di fertilità sono evidenti. La leadership è ormai saldamente africana. I produttori, non appena la rendita ha consentito di sussidiare altro che non fossero le calorie necessarie alla sopravvivenza, hanno abbattuto i ritmi. Su scala magari in alcuni luoghi minore, ma anche qui si è andata confermando la lex aurea dell’Occidente. La crescita demografica come funzione inversa del benessere economico (non a caso, il primo paese non africano oggi in classifica per tasso di fertilità è l’Afghanistan, 13° assoluto con un tasso del 5,9%). Però sino ad una decina di anni or sono ci andavano spediti. Tassi di crescita della popolazione che superavano il 3% all’anno. E tassi di fertilità elevatissimi. Nel 1970 in molti Paesi (Libia, Algeria, Arabia Saudita...) il tasso di fertilità era sopra il 7%. E vent’anni dopo (Arabia Saudita e Iraq su tutti) era ancora sopra il 5%. Oggi siamo qualche volta addirittura in decrescita (1,75 in Algeria e 1,88 in Iran) e generalmente verso crescita zero. Il che è di regola anche un indice positivo di evoluzione della condizione femminile; però non modifica nell’immediato l’emergenza demografica. Chi è nato nel 1990 ha vent’anni adesso.
L’età media della popolazione italiana è di oltre 43 anni. A casa dei produttori siamo di regola tra i 25 ed i 27, con l’Iraq che fa addirittura 18,2 (e mantiene il primato regionale del tasso di fertilità, con il 3,67). Una volta avresti potuto dire che era tutta questione di aspettativa di vita; insomma che l’età media era molto più bassa giusto perchè morivano molto prima. Adesso la forbice dell’aspettativa di vita si è molto ridotta e la differenza di età media è marcatamente inflenzata dall’andamento demografico.
I baby boomers della rendita hanno dai venti (e anche meno) ai quarant’anni. E adesso vanno e contemporaneamente tutti in scena, a sgomitare per pane e lavoro e un’idea di futuro per sé e per i propri figli. Fuor di sussidio non trovano nulla, o molto poco.
Prima della rendita e del boom in qualche pezzo di Nordafrica si riusciva a sussistere di agricoltura. Adesso è esplosa la popolazione e sono crollati gli addetti. La terra coltivabile si restringe e il cibo passa a sua volta sulla bolletta delle importazioni. L’Algeria, che una qualche tradizione agricola ce l’aveva, importa la maggior parte del cibo che consuma; e gli altri anche peggio. Si esporta petrolio anche per pagare il frumento che si importa. Il resto è grande conurbazione. Le braccia si sono moltiplicate, e fuor di pubblico gli impieghi tradizionali si sono ristretti e quelli nuovi sembrerebbero di là da venire. Se spendi la rendita anzichè usarla puoi giusto convertirla nelle sue istituzioni. Urbanizzazione, impiego pubblico e sussidio.
Nell’altro secolo questo pianeta, nonostante il contributo di due guerre mondiali e di qualche migliaio di conflitti, è passato ad ospitare da poco più di uno a oltre sei miliardi di abitanti umani, e in parallelo il reddito pro capite individuale, l’aspettativa di vita e il cibo individualmente disponibile sono aumentati. Senza le applicazioni dei combustibili fossili (dall’energia elettrica ai fertilizzanti agricoli alla locomozione a quant’altro) questo ritmo di sviluppo non ce lo saremmo neppure immaginato. E’ stato possibile perchè il Dono è stato utilizzato, ed utilizzato come motore anche di innovazione e strumento di creazione di valore aggiunto. Come strumento che ha reso possibile aumentare la ricchezza del mondo più che proporzionalmente all’aumento della popolazione (in maniera poi non esattamente egualitaria, ma non è questo qui il punto).
Lo Stato rentier non usa il Dono. Lo consuma. Se gli aumentano i sussidiati non può sperare nell’innovazione o in qualche altra diavoleria per moltiplicare produzione e revenues. Può solo sperare che siano rimasti sotto l’albero dei doni non (ancora) visti; o che una qualche congiuntura gli faccia schizzare il prezzo. Sapendo che produzione e prezzi non aumentano di regola come funzione della popolazione, e che se non è saudita non ha margini per giocare in proprio con volumi e prezzi. L’esplosione demografica ti revoca in dubbio la capacità di poter garantire il pane; e con ciò anche la sopravvivenza dello Stato rentier nella sua forma corrente.

5. Non solo sono diventati tanti. Si sono pure messi a consumarlo a casa loro. Più la popolazione cresce e più bisognerebbe esportare per sussidiarla. Però anche più cresce e più ne abbisogna per sé e a casa propria. E a volte l’economia del sussidio persino te lo incentiva, il consumo interno (un esempio al limite del paradosso è il sussidio iraniano ai consumi privati di benzina per autotrazione). Metti insieme il bisogno di esportazione con quello di consumo interno, e la crescita della domanda te la puoi raffigurare esponenziale. L’offerta, ovvero la produzione, in molti casi non può crescere neanche linearmente; ed è tanto se non declina già nel breve. Lo Stato rentier si infila in una sorta di variante energetica della trappola malthusiana. In alcuni casi persino con entusiasmo.
Forse non bisognerebbe usare l’Arabia Saudita come paradigma. Sono troppo ricchi e troppo pochi e troppo pieni di petrolio. Magari. Però non sono più pochissimi. E non hanno alcuna certezza (al di là dei proclami) di poter aumentare la capacità di produzione corrente. Non saranno un paradigma; però sono un esempio.
Nel 2000 consumavano internamente circa un milione e mezzo di barili/giorno. Noi in Italia quasi due milioni. In teoria il dato mi direbbe che già nel 2000 il consumo saudita pro capite era almeno del 300% superiore al nostro. Nel 2010, noi siamo scesi a 1,5 milioni di barili/giorno. Loro nel frattempo da 1,5 sono saliti a 2,8. Caveat. Il dato è meno che omogeneo. Loro hanno pochissimo gas naturale (almeno in relazione ai liquidi che producono) e dunque usano il petrolio per fare tante cose diverse dal trasporto (elettricità inclusa) che qui sono invece fatte con altre fonti, gas sempre più precipuamente incluso. Proviamo con un dato più omogeneo. L’energia primaria. Il consumo italiano del 2000 è stato di 176,5 milioni di tonnellate di petrolio equivalente. Quello saudita di 117,9. Nel 2010 noi eravamo a 172; e i sauditi erano arrivati a 201. C’è chi (leggermente) contrae; e chi (quasi) raddoppia.
Proviamo ad applicare a questa progressione un modello business as usual (quelli che per definizione non ci azzeccano mai, perchè l’unica certezza del futuro è che nulla o quasi sarà as usual; ma che comunque ti danno una qualche base per ragionarci sopra). Di questo passo entro il 2030 il consumo interno saudita potrebbe arrivare a 8 milioni di barili/giorno, grosso modo l’80% della produzione del 2010. Se non raddoppiano la produzione (auguri), l’aumento del consumo interno finisce che li erode ben oltre l’aumento della popolazione. Gli tocca cambiare qualcosa nel modello; che sennò c’è rischio che non ci siano più revenues per loro. E neanche petrolio per noi.
Il saudita magari esagera. Ma il trend è piuttosto generalizzato. Se il resto dell’area non ha a sua volta raddoppiato, un balzo in avanti lo ha comunque fatto. Il dato aggregato del Medio Oriente (7,8 milioni di barili/giorno consumati nel 2010) indica un aumento dei consumi pari a circa il 50% in un decennio. Un tasso non troppo lontano da quello indiano; e nettamente secondo solo a quello cinese. In Africa del Nord la cifra assoluta di partenza è molto più bassa. Ma il trend trova perfetta replica, seppure su volumi assai più contenuti (il consumo primario algerino nel decennio passa da 26,8 a 41,1 milioni di tonnellate di petrolio equivalente/anno; quello egiziano da 49,8 a 81; e così in parallelo gli altri).
Dovrei per finanziare il modello esportare di più. E al netto del fisiologico declino produttivo dei giacimenti che ho e della difficoltà crescente di rimpiazzare il vecchio col nuovo, mi capita comunque che per crescita del consumo interno me ne avanzi sempre meno da esportare. Sempre meno margine per manovrare (in aumento) sui volumi. Sempre più speranza che i prezzi si adeguino nel tempo ai bisogni (del produttore). E sempre più certezza, come la recessione post-Lehman ha ricordato a tutti, che il prezzo dipende (anche?) dalla domanda. Il produttore può permettersi una stagnazione, e senza sommosse, solo se l’economia del consumatore cresce.

6. Si sono moltiplicati i consumatori. Anche di petrolio. Bisognerebbe cambiare modello. Ma non ci si riesce. La dipendenza dal suo generare rendita ha creato assuefazione. E comunque dal modello monoentrata non si evolve in una notte. E la rivolta è adesso.
Alla crisi dello Stato rentier viene così naturale cercare di rispondere con gli strumenti dello Stato rentier. Più sussidio. Più consenso. Solo che per farlo ci vorrebbe un qualche surplus. Il saudita può. E non esita. 36 miliardi di dollari di spesa aggiunti al budget statale a fine febbraio. A marzo re Abdullah ne aggiunge altri 130. E a aprile ritocca i salari di esercito e forze di polizia. I 166 miliardi sono un campionario dell’economia del sussidio. Edilizia popolare, salario minimo garantito, sussidio di disoccupazione, bonus aggiuntivi per studenti ed impiegati pubblici. Loro possono ancora permetterselo. Gli altri molto meno.
La stabilità sociale dipende anche dal prezzo del pane. Ma per certo e per tutti il bilancio statale sta per intero appeso al prezzo del petrolio. Pensioni e sanità e scuola e prezzo del pane appesi ad un’esogena. Imprevedibile, incontrollabile, e soprattutto volatile. Se il prezzo non cresce, la stabilità interna va in pezzi. Già oggi la stima è che il budget saudita stia in piedi se la media del barile non scende sotto gli 88 dollari. E la stima al 2015 è che ce ne vorranno 105. Se vogliono garantire un qualche reddito di sussistenza alla disoccupazione di massa gli altri, dall’Algeria all’Iran all’Iraq, non se la possono certo cavare con meno.
Appesi al prezzo. E sotto la spinta dei baby boomers ormai senza margini di manovra. La stessa Arabia Saudita non potrebbe più permettersi lo swing degli anni Ottanta. E gli altri non possono che produrre tutto, maledetto e subito. La dipendenza ha fatto evaporare la possibilità stessa di una qualche politica. E’ di nuovo volumi e prezzi. Negli anni Settanta magari era anche hybris. Adesso è solo necessità (e istinto) di sopravvivenza.
Guardando alle proiezioni, e alla possibilità che i consumi d’Occidente finiscano per stagnare, viene forte il dubbio che la stabilità mediorientale possa ritrovarsi in questo decennio a dipendere soprattutto dallo sviluppo che viene dall’Asia. L’unica realtà geografica in cui riporre speranza di una crescita di domanda che sostenga i volumi, e perciò anche i prezzi. Se di questi tempi sei appeso al prezzo, finisce (quasi) inesorabilmente che ti ritrovi appeso anche alla Cina.

7. Essere appesi al prezzo gli fa anche promuovere nuovi concorrenti. Voci d’America, e sempre più energeticamente autorevoli (da ultimo Yergin), gli stanno sbrigativamente annunciando che il baricentro sta per cambiare. Non più Medio Oriente e Nordafrica. La cittadella/epicentro della produzione mondiale trasloca. Da domani, o al massimo dopodomani, il nuovo regno del petrolio si installa nelle Americhe. Il Venezuela ha già messo a libro più riserve dell’Arabia Saudita; and more to follow.
Strana minaccia competitiva, quella delle Americhe. L’esercito che mette assieme, schierandolo da Nord a Sud, non è propriamente d’élite.
Prima le sabbie canadesi. Ovvero catrame. Petroliaccio biodegradato. In open pit devi tirare su con la ruspa due tonnellate di sabbie per tirarne fuori un barile di petrolio equivalente. E poi devi rimetter via le sabbie. O se lo vuoi separare sottoterra e lasciare lì le sabbie ci devi pompare dentro tanto vapore da non immaginartelo. Comunque il prodotto poi lo mandi in raffineria, e prima di infilarlo nel barile ne devi fare petrolio sintetico.
Poi lo shale nordamericano. Quello che è rimasto prigioniero in argille impermeabili. Buchi e non esce niente. Perchè, appunto, è prigioniero. Gli devi fare a pezzi la prigione. Triturare l’argilla. Ad ogni buco che fai, deve pompare ad altissima pressione qualche milione di litri d’acqua per fare a pezzi (“frac”) la roccia.
A seguire. Il bitume del Venezuela. Heavy Oil e Extra Heavy Oil, per essere più professionali. Le riserve che toglierebbero la leadership ai sauditi. Qualche barile si muove persino da solo, che sono quelli che hanno estratto fino ad adesso. Il grosso è talmente pesante e di viscosità tale da avere bisogno di assistenza. O lo diluisci o lo riscaldi; sennò ti giusto ottura il tubo, e non si muove.
Il Deep Offshore del Brasile, infine. O, meglio, Ultradeep. Petrolio di eccellente qualità. Tanto gas, ma i liquidi in prevalenza condensati. Leggerissimi e a quanto si capisce virtualmente privi di zolfo. Il problema è andarli a prendere. Piazzare un mezzo di perforazione sopra 5000 metri di profondità oceanica di acqua; e dal fondo del mare scavare altri 5000 metri di buco per arrivare al giacimento. Costoso, se non altro.
Questa è l’armata che sfida la leadership. Parrebbe Brancaleone, e invece è un campionario (quasi) completo di quel che la vulgata chiama unconventional oil. Schierata contro l’armata d’Arabia. Tutta di truppe scelte. O, se preferite, conventional.
Giacimenti a terra, profondità mai ultradeep, nessuna necessità di trasformarli prima di poterli vendere. E’ vero, per prolungargli la vita adesso anche ai conventional applicano diavolerie assortite che vanno dalla reiniezione di gas o fluidi per tenergli su la pressione alla perforazione di pozzi orizzontali per aumentare l’area utile di contatto col giacimento. Diavolerie che costano; ma nulla in confronto al costo di (ri)fare petrolio da catrame e bitume.
Aumentano i costi di trasporto e di imballaggio del Dono. Però (assai) differenzialmente. L’unconventional ti fa sempre più labile la differenza tra l’estrarre ed il produrre. Il conventional di un grande giacimento tenuto su di pressione o raggiunto in orizzontale è giusto petrolio preso in un magazzino più remoto.
La differenza di costo è evidente. Il costo di produzione del conventional è mediamente una frazione del costo di produzione di quell’altro. No match, verrebbe da dire. Se scoppia un’altro Lehman e il petrolio va sotto i quaranta dollari produrre conventional continua ad essere (mediamente) economico e produrre unconventional (mediamente) no. Se la domanda contrae, il petrolio arabo si salva.
Forse il petrolio sì, ma l’arabo no. Il break even del produttore non è basato sul costo di produzione, ma sul costo sociale. Insomma sulle esigenze del budget statale (chi volesse vedervi una qualche analogia tra meccanismi di costo dello Stato rentier e meccanismi di costo del kombinat sovietico è libero di sbizzarrirsi). La tensione sul prezzo rimette in gioco chi economicamente ne sarebbe fuori. L’unconventional delle Americhe si è sviluppato anche quando la domanda si contraeva. E’ la ripetizione della lezione degli anni Ottanta. A 1,80 dollari a barile nessuno si sarebbe sognato di produrre off-shore dal Mare del Nord (tranne marginalissimi casi). A 10 erano già in fila; e a 34 l’Alaska era diventata Bonanza. La frontiera dell’unconventional, per le modalità che la rendono economicamente accessibile, è il Mare del Nord di adesso; però con riserve di una qualche potenza più grandi.
Sono diventati troppi per riuscire a sussidiarsi. E hanno cominciato a usarne troppo per essere sicuri di avanzarne abbastanza per il sussidio. Tutti a fare il tifo per il prezzo. Per poi accorgersi che il prezzo che sale stimola pensieri e produzioni unconventional (per non dire di quelle alternative). Donde il dilemma prossimo venturo del rentier. Se tira il prezzo stimola la sostituzione del Dono; se non lo tira stimola la sostituzione di se stesso. Abituiamoci, se ancora non l’abbiamo fatto, alla volatilità. E anche all’idea che per il rentier i 100 dollari a barile non sono ricchezza. Sino a quando non gli sarà riuscito di assorbire il baby boom, i 100 dollari rischiano di essere giusto la condizione della sopravvivenza. Poi magari se il prezzo funziona e la crescita demografica va in negativo finisce pure che un qualche rentier ti sopravvive. Arrivederci al prossimo decennio.


8. La parabola dello Stato rentier. E tre idee che potrebbe farti frullare per la testa.
La prima è che se il produttore è un rentier la sicurezza energetica è anzitutto un suo problema di politica interna. Chi smette di vendere muore. E se smettono di vendere è di regola perchè guerra o rivolta sociale gli hanno bloccato (temporaneamente) i terminali.
La seconda è che (con la grandissima eccezione degli Stati Uniti) sedere sul petrolio fino ad oggi ha portato fortune più che fortuna. O per dirla diversa (e reiterando l’eccezione) che sino ad oggi conosciamo un unico modello di sviluppo basato sul petrolio che abbia avuto successo. Quello dei consumatori.
L’ultima è la più scontata. La rivolta araba è anche il segnale che il modello è consunto. Le sue dinamiche interne di evoluzione e l’evoluzione stessa del mercato energetico sembrano segnalare una fine vicina (seppure magari non imminente). Bisognerebbe trovare per tempo un modo per riavviare la possibilità di una politica. Della scelta di un tasso di sconto e progressivamente di un diverso modello di sviluppo. Facile, ed ecumenico. Però già aiuterebbe se intanto l’Occidente o la Cina investissero sull’idea che il migliore modo per sedare la propria dipendenza dal petrolio consiste nel diminuire la loro.

lunedì, dicembre 05, 2011

Dinamiche divergenti dei prezzi petroliferi

Come molti di voi sapranno, i due principali greggi di riferimento per il mercato mondiale delle transazioni petrolifere sono il WTI (West Texas Intermediate) scambiato prevalentemente nei mercati americani e il Brent, commercializzato soprattutto in Europa.

Per un lungo periodo i prezzi dei futures WTI erano stati superiori a quelli del Brent. Poi, circa un anno fa c'era stato uno storico sorpasso, che avevo commentato in quest'articolo, insinuando il dubbio che la causa potesse essere il rapido calo del petolio proveniente dai giacimenti del Mare del Nord.

Da qualche mese invece, come possiamo osservare dai due grafici dei prezzi allegati, sembra verificarsi un fenomeno opposto. Il prezzo del Brent, dopo aver raggiunto un picco di circa 125 dollari al barile, ha iniziato una chiara e costante tendenza al ribasso, oggi siamo a poco meno di 110 dollari al barile. Invece, il WTI, con un differenziale di prezzo rispetto al Brent che ha raggiunto anche i 20 dollari, ha invertito da settembre la tendenza ribassista, per risalire agli attuali 101 dollari al barile ed avvicinarsi di nuovo ai prezzi del Brent.

Naturalmente, anche in questo caso, ci sarà sempre qualcuno che attribuisce questi movimenti dei prezzi alla speculazione e si metterà la coscienza a posto. Ma noi picchisti non crediamo alle teorie del complotto e preferiamo interpretare questi fenomeni analizzando i cosiddetti fondamentali del mercato, cioè la dinamica della domanda e dell'offerta. Cosa può aver bilanciato la difficoltà di produzione del Brent, in modo da indurre una calo delle quotazioni?

A mio parere il principale indiziato è la tendenza recessiva delle economie europee, in concomitanza con la crisi dei debiti sovrani e le conseguenti tensioni che rischiano di affossare l'euro. In particolare, il nostro paese è in una evidente fase pre - recessiva, testimoniata dal calo di uno dei parametri maggiormente sensibili all'evoluzione dell'economia, i consumi elettrici: ad ottobre, per la prima volta dopo molti mesi, la richiesta di energia elettrica in Italia ha subito una riduzione rispetto allo stesso mese dell'anno precedente.
Allo stesso modo, una maggiore tenuta delle economie che costituiscono il bacino di riferimento per il WTI, potrebbe spiegare la tendenza inversa che si rileva dai grafici.

A parte queste speculazioni, una cosa è certa: il prezzo del petrolio è comunque a livelli molto elevati, non lontanissimi dai valori precedenti alla crisi economica del 2008, e costituisce uno dei fattori limitanti sempre più in futuro la crescita economica.

domenica, novembre 20, 2011

Petrolio e complessità (quasi una recensione)



Scritto da Luca Pardi

A well from the hell (un pozzo dall'inferno). Con queste parole una delle undici vittime dell'esplosione del 20 aprile 2010, definiva il pozzo della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon (fig1) nel Golfo del Messico. Un oggetto costato 1 miliardo di dollari il cui uso gravava la British Petroleum per 500.000 dollari al giorno


Drilling Down, un libro scritto da Joseph A. Tainter e Tadeusz W. Patzek riporta anche alcuni passi delle deposizioni alla commissione di inchiesta federale sull'incidente. La moglie di Shane Roshto, questo è il nome del giovane di 22 anni il cui corpo non è mai stato ritrovato, continua affermando che suo marito diceva anche: “Madre Natura non vuole essere trivellata quì”. Può sembrare la solita ingenua personificazione della Natura, buona o matrigna, ma in realtà rende il senso della difficoltà estrema che incontrano gli uomini impegnati nell'impresa di estrarre petrolio da giacimenti off shore, per raggiungere i quali si deve operare a migliaia di metri sotto il livello del mare e a migliaia di metri nella roccia. Come si dice: in ambiente ostile. Un'impresa che, secondo gli autori di Drilling Down, supera in difficoltà le imprese di esplorazione spaziale.


La storia dell'incidente e del susseguente disastro ecologico del Golfo del Messico è il simbolo della fine del petrolio facile ed è un evento paradigmatico della legge dei ritorni marginali decrescenti della complessità. Tainter e Patzek forniscono una descrizione dettagliata del pozzo della British Petroleum denominato Macondo, trivellato in mare aperto a 130 miglia a sud est di New Orleans a circa 1600 metri di profondità per andare a succhiare idrocarburi in un giacimento a migliaia di metri sotto le rocce del fondo del mare, e, partendo da questo, mostrano come la questione petrolifera rientri nel generale processo di complessificazione della nostra società che rimanda appunto alla legge di Tainter.

Ugo Bardi ha parlato più volte di complessità e, proprio in relazione alla legge di Tainter, ha proposto un semplice modello che ne offre un'interpretazione fisica (leggi qui).

Nelle parole di Tainter la complessità di un sistema, che può essere un'intera civiltà come una sua parte: le sue infrastrutture industriali, l'infrastruttura dei trasporti, il sistema della ricerca scientifica, o le istituzioni politiche e sociali, è caratterizzata da due componenti: la differenziazione strutturale (il numero di parti e i tipi di parti che la compongono) e l'organizzazione (cioè il modo di far funzionare quelle parti in modo efficace). La crescita della complessità è una modalità di soluzione dei problemi, dei quali in questo mondo c'è sempre abbondanza, che viene adottato ad un certo costo energetico. Infatti in ultima analisi il costo della complessità è riducibile ad un costo energetico

Il grafico che descrive questa evoluzione dei sistemi è una tipica curva che riporta i Benefici in funzione del Costo cumulativo come quella riportata in Figura in blu. Il livello di complessità aumenta nel tempo insieme al costo cumulativo del processo di complessificazione. In una curva come questa si possono individuare tre punti critici e tre regimi distinti. Quando il processo di complessificazione inizia la curva blu è concava, ciò significa che la sua tangente in ogni punto giace in ciascun punto al di sotto della curva stessa, in queste condizioni il beneficio per unità di costo (o per aumento unitario del livello di complessità) è crescente. Tale grandezza, al limite di costo tendente a zero, in Analisi matematica, si definisce derivata prima della funzione che descrive la curva, e la derivata della curva blu è la curva in rosso, e corrisponde anche al famoso Ritorno Marginale secondo cui è definita la legge di Tainter. Il primo punto critico si incontra quando la derivata raggiunge il suo massimo in corrispondenza dei valori C1, B1. Quest'ultimo è un punto di flesso della curva blu, da questo punto in poi la curva è convessa e la tangente alla curva giace in ciascun punto al di sopra della curva stessa e la sua derivata prima è decrescente. Cioè è dal livello di costi cumulativi (o di livello di complessità) C1, che si comincia ad osservare la diminuzione dei benefici per unità di costo o cioè i citati ritorni marginali decrescenti. Qui si innesta il secondo regime. La derivata continua scendere (curva rossa) finché nel punto (C2, B2) essa si annulla in corrispondenza del massimo della curva blu. Da qui in poi la derivata è negativa, cioè un aumento di complessità porta benefici negativi, cioè un ulteriore aumento del livello di complessità è un male invece di un bene. La prima fase fino al punto C1 possiamo chiamarla: Era dell'Entusiasmo Tecnologico, includendo nella tecnologia non solo le applicazioni scientifiche innovative, ma anche l'ingegneria sociale ed istituzionale, oltre il punto C1 ma prima di C2 si vive nell'Era della Delusione Tecnologica con ritorni marginali decrescenti. Raggiunto il massimo si va incontro a un periodo in cui non è più possibile, per risolvere i problemi, continuare ad aumentare la complessità del sistema senza causare danni superiori a quelli che si cercano di riparare o problemi più gravi di quelli che si intende risolvere. La fase intorno al massimo, è una fase di transizione, è piuttosto breve e conduce ad una risposta, i tentativi di aumentare ulteriormente la complessità portano al collasso dell'intero sistema cioè ad una semplificazione traumatica, l'unica strada non, o meno, traumatica è la semplificazione volontaria che è tanto più difficile quanto più a lungo e in profondità il sistema ha accresciuto la propria complessità. Tainter e Patzek riconoscono un unico caso di semplificazione volontaria di una società complessa: quella dell'Impero Bizantino.

Nella società moderna la fase dell'entusiasmo è quella che ha portato all'attuale religione dell'ottimismo tecnologico. In questa fase i costi sociali ed economici sono superati dai benefici. Purtroppo questa fase lascia uno strascico di vera e propria superstizione filo-tecnologica che non ha nulla di razionale. L'atteggiamento razionale sarebbe infatti fermarsi in C1 o appena dopo. Cioè non appena si iniziano a sperimentare i ritorni marginali decrescenti. Ma che l'uomo sia un animale razionale è un'altra delle molte e persistenti illusioni filosofiche.

Va detto a questo punto che la forma della curva rossa non è l'unica possibile, ad esempio potremmo immaginare che la curva sia sempre convessa, cioè che la legge dei ritorni marginali decrescenti valga fin dall'inizio, ma io di questo non sono convinto e credo anzi che nella fase iniziale di qualsiasi ciclo di civilizzazione i ritorni siano crescenti e che questo crei quella fiducia incrollabile nei meccanismi di soluzione dei problemi che più tardi porterà ad una vera e propria corsa al collasso. Vi sono ragioni fisiche che mi fanno pensare questo che saranno esaminate in un altro contesto, ma che sostanzialmente rimandano ai limiti delle sorgenti di energia e risorse da cui le società traggono linfa vitale.

Il processo di semplificazione che “salvò” l'Impero Bizantino nel VII secolo di fronte all'avanzata dell'Islam si riduce ad un abbandono della catena organizzativa che rendeva l'esercito non sostenibile. Invece di far coltivare il grano ai contadini per poi tassarli e attraverso il governo centrale dare la paga ai soldati si decise di dare la terra ai soldati, o, il che è lo stesso, far fare la guerra ai contadini (sembra che difendendo la propria terra fossero anche più motivati). Rinunciarono a difendere l'intero territorio in modo rigido e si ritirarono nelle città fortificate e/o nascoste. Misero in pratica i consigli del saggio Forresterius di cui potete leggere qui. Anche l'Impero Romano d'occidente rimandò la propria caduta con una semplificazione militare che portò all'abbandono delle costose fortificazioni difensive ai limiti dell'Impero.

Naturalmente stiamo parlando di società relativamente semplici rispetto alla nostra. Nel caso della civilizzazione contemporanea, industriale, globalizzata ed altamente energivora semplificare non è una cosa semplice.

La difficoltà dipende dalla natura cumulativa del processo di aumento della complessità. Tale processo si realizza in piccoli passi successivi e raramente per salti significativi. Semplificare significativamente un sistema che si è evoluto in questo modo è comunque traumatico.

Prendiamo, ad esempio, il caso dei telefoni cellulari. Oggi ognuno di noi ne ha almeno uno e lo usa tutti i giorni della settimana, per ragioni di lavoro, familiari e di svago. Supponiamo che sia essenziale tornare indietro e rinunciare ai cellulari. Se questa decisione fosse stata presa nel 1985 sarebbe stata di scarso impatto. Il salto dal telefono fisso al cellulare era recente, tornare indietro relativamente facile. Da allora i cellulari sono diventati non solo la forma prevalente della telefonia, ma sono anche sempre più complessi cioè sono costituiti di un numero maggiori di parti che forniscono funzioni diverse di cui la comunicazione telefonica è soltanto una. E' ovvio che potremmo tornare al telefono fisso, ma ciò comporterebbe la rinuncia a molte comodità e funzioni e sarebbe anche una spesa ingente, ad esempio per ricreare la rete di telefoni pubblici oggi quasi completamente sparita. E' quindi molto più difficile ripercorrere un processo di complessificazione in senso inverso.

L'incidente del pozzo petrolifero denominato Macondo, nel quale è esplosa e successivamente naufragata la piattaforma petrolifera della BP, causando il più grande incidente ecologico della storia dell'estrazione petrolifera, serve da pretesto a Tainter e Patzek per riesaminare il tema della complessità dei sistemi sociali e della loro vulnerabilità. La prima conclusione, forse prevedibile, è che sistemi così straordinariamente complessi, cioè strutturalmente differenziati e gestiti da una intricata organizzazione che prevede decine di diverse figure professionali e gerarchie incrociate, è estremamente soggetto ad incidenti imprevedibili. L'imprevedibilità è proprio data dal numero di componenti tecniche, naturali e umane che interagiscono fra loro. La seconda conclusione è che benché una semplificazione sia inevitabile, non abbiamo la più pallida idea di come realizzarla in modo non traumatico e organizzato.

Gli autori di Drilling Down promuovono l'idea di un dibattito onesto e “adulto” sulla questione energetica, cioè razionale (per esempio basato sull'EROEI) e interessato al mantenimento di pianeta vivibile per i nostri figli e nipoti (quindi basato su considerazioni etiche). E' leggermente irritante il manifesto scetticismo degli autori nei confronti delle fonti rinnovabili di energia, ma più che altro Tainter e Patzek sembrano rivolgersi a coloro che pensano (in buona o cattiva fede) di poter continuare con il livello di flussi energetici attuali semplicemente sostituendo le fonti fossili con quelle rinnovabili, lasciando tutto il resto immutato. Ma la cosa più apprezzabile di tutto il libro è l'atteggiamento non prescrittivo con cui gli autori si pongono nelle premesse del dibattito adulto che promuovono.