Di Massimo Nicolazzi
Questo articolo fa parte del "Dossier Petrolio" dell'Ispi, di prossima pubblicazione.
Se aumenta il prezzo di barile di oro nero, non è facile stabilire chi ci guadagna. Si sa invece con certezza chi ci perde.
(Carta di Laura Canali tratta da Limes 2/06 "L'Italia presa sul serio")
Aumenta il prezzo del petrolio e ti chiedi chi ci guadagna. A prima vista verrebbe da dire quello che vende. Se però ci guardi meglio, la realtà ti si riflette un po’ più sfumata.
Quello che vende, spesso, più che guadagnarci ne ha bisogno. Chi ha il petrolio spesso si dimentica, o quasi, di produrre altro. E con il petrolio ci paga tutto, o quasi; inclusa la propria stabilità politica. L’Institute of International Finance vi spiega che nel 2011 il budget saudita per stare in piedi aveva bisogno che il petrolio non scendesse sotto gli 88 dollari, e che presto ce ne vorranno almeno 110. Citigroup stima che per mantenere il programma elettorale Putin non possa permettersi un barile di petrolio che ne costi meno di 150.
Quello che vende, spesso, più che guadagnarci ne ha bisogno. Chi ha il petrolio spesso si dimentica, o quasi, di produrre altro. E con il petrolio ci paga tutto, o quasi; inclusa la propria stabilità politica. L’Institute of International Finance vi spiega che nel 2011 il budget saudita per stare in piedi aveva bisogno che il petrolio non scendesse sotto gli 88 dollari, e che presto ce ne vorranno almeno 110. Citigroup stima che per mantenere il programma elettorale Putin non possa permettersi un barile di petrolio che ne costi meno di 150.
L’uno è forse prudente e l’altro probabilmente esagerato (stima mia);
però entrambi ti stanno a dire che il petrolio sopra i 100 dollari è
ormai, indipendentemente dal costo di produzione, una necessità sociale
del produttore. Con un prezzo più basso per pagare sanità e pensioni c’è
qualche problema. Il petrolio è welfare.
Dunque più sale e più il produttore è contento? Caveat.
Se sale troppo, il consumatore è tentato di fare con altro. Le crisi
del 1973 e del 1980 hanno stimolato efficienza energetica, nucleare e
rinnovabili. Poi il prezzo è sprofondato e per vent’anni delle
rinnovabili e un po’ anche dell’efficienza energetica ci siamo (quasi)
dimenticati. Adesso l’alternativa la nutriamo di riscaldamento globale;
ma non v’è dubbio che il prezzo del petrolio che cresce possa solo e
ulteriormente stimolarla. Se non cresce non pago le pensioni; e se
cresce troppo finisce che ne vendo meno, e in prospettiva non
abbastanza. Da giovane l’avrei definita la dialettica del prezzo del
petrolio; senilmente, giusto un problema di suo equilibrio.
E noi consumatori? Gemiti e lai per l’insostenibilità economica
dell’aumento del greggio e l’intollerabilità della bolletta
petrolifera. Però anche qui guardiamoci meglio. Caso Italia. Nel 2012 lo
Stato dovrebbe incassare dalla tassazione sugli oli minerali poco meno
di 25 miliardi di euro. Se ci aggiungete l’Iva ( che è calcolata anche
sulle accise, generando così un fenomeno inspiegabile in natura di
tassazione della tassazione) vi avvicinate (complessivamente) a 35. Ci
si finanzia grosso modo il 5% della spesa pubblica corrente (al netto
degli interessi).
Con il solo petrolio ci finanziamo quasi la metà del costo dello Stato minimo
(giustizia, sicurezza pubblica e difesa nazionale); o in alternativa,
se preferite,una quota comunque sensibile di quel che ci resta dello
Stato sociale. L’importo della “bolletta petrolifera” è comparabile alle
entrate fiscali che riusciamo a spremerne. Il petrolio è welfare.
Anche ad Occidente.
Il rovescio della medaglia è che se il prezzo cresce, l’economia, si dice, ci rallenta. Sul di quanto, e quanto sopportabile, siamo peraltro alla libertà di opinione. L’anno scorso Reuters
ha messo online un indicatore fai da te che cavalcando una tendenza
(forse) maggioritaria tra gli economisti assumeva una perdita di pil
mondiale dello 0,5% per ogni stabile aumento del barile di 10 dollari.
Il modello Economist (con qualche ispirazione da Goldman Sachs)
predicava lo 0,25% per ogni aumento del barile del 10%, il che con base
100 dollari farebbe la metà di Reuters. Altri hanno chiuso sopra (fino all’1%) o sotto, secondo modello.
Piccola ulteriore avvertenza. Mondiale non è nazionale.
Il differenziale nazionale ti dipende da vari fattori, e precipuamente
dall’intensità energetica (e dunque dalle unità di energia spese per
unità di pil) e dal paniere di fonti di energia che utilizzi. L’Italia,
per quanto vale, si è vista tra l’altro (Ubs) attribuire un impatto
negativo potenziale sul pil 2013 inferiore allo 0,4 % per ogni 10
dollari di aumento del barile (insomma grosso modo un punto di pil ogni 3
anni).
Poco? Tanto? Sostenibile? Insostenibile? Il dibattito è benvenuto.
Qui solo due chiose. La prima è che l’impatto è storicamente
variato, e per il petrolio preso da solo (al netto cioè dell’influenza
che il suo prezzo ha su quello di altre fonti energetiche) in misura
costantemente decrescente. Nel 2000 il nostro pil era (in euro correnti)
grosso modo di un 25% inferiore a quello odierno; e i nostri consumi
di petrolio di un 25% invece superiori (92,5 milioni di tonnellate
contro le poco più di 70 cui ci dovremmo attestare nel 2012). In termini
di “intensità petrolifera” viaggiamo decisamente e costantemente più
leggeri.
La seconda chiosa è che per ogni litro di benzina che acquistiamo
compriamo più tasse che petrolio. Il governo italiano con l’ultimo
aumento delle accise ha in definitiva compensato fiscalmente la
diminuzione dei consumi. Potersi ancora permettere questa fiscalità e
insieme angosciarsi perchè il petrolio sta diventando troppo caro più
che una considerazione sul “prezzo” del petrolio è una rappresentazione
al contrario dell’incomprimibilità della pressione fiscale che ci
carichiamo sopra.
E dunque tutto bene, e grazie signor Petrolio per il welfare che distribuisce
a chi La produce e a chi La consuma? Non proprio. Quando gli cresce il
prezzo c’è comunque qualcuno che ci perde e basta. Uno studio
dell'International Energy Agency di qualche anno fa ha provato a
scomporre compiutamente il dato globale in dati regionali. Ne è uscita
una proporzionalità inversa quasi lineare dell’impatto in funzione della
ricchezza delle economie di riferimento.
Fatto 1 l’impatto dell’aumento del prezzo del petrolio nei paesi Ocse,
lo stesso saliva fino a 4 nei paesi in via di sviluppo; ed era
superiore a 8 nei paesi dell’Africa sub sahariana. Il petrolio
distribuisce welfare ovunque, meno che dove ce ne è più bisogno.
La risposta alla domanda su chi ci guadagna può
essere per molti versi dialettica, e forse persino equilibrata. Quella
su chi ci perde è semplicissima. Ci perdono quelli che non hanno i soldi
per comprarlo. L’aumento di prezzo di una commodity discrimina sempre
verso il basso. It is the economy, stupid.
1 commento:
mi sembra molto chiaro chi ci perde: la maggioranza della gente prima nei paesi poveri e man mano che il prezzo del barile cresce anche nei paesi ricchi. Chi ci guadagna sono ovviamente i manovratori della forbice che si allarga, i furbi sostenitori dell'economia stupida. Attenzione però che questa forbice non potrà estendersi ancora per molto e quando si richiuderà lo farà in modo inatteso e repentino, tagliando tutto quello che vi è in mezzo.
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