Di Mirco Rossi
già pubblicato su
O LA BORSA O LA PACE? TRA CRISI RIVOLUZIONI E ATTESE
Annuario geopolitico della pace 2011
della Fondazione Venezia per la Ricerca sulla Pace
Altreconomia Edizioni www. Altreconomia.it/libri 19,90 euroSino a qualche mese fa si parlava in continuazione di brufoli: uno era in pericolosa suppurazione e alcuni nuovi stavano per nascere in luoghi molto più fastidiosi di altri. La particolare attenzione con cui si è reagito ha bloccato i nascituri (almeno per ora) ma non ha potuto guarire l’infezione che sta proseguendo, solo un po’ circoscritta da bende precarie ma in un posto lontano, che a noi non dà molto fastidio. Molti altri foruncoli rischiano di maturare e iniziare a spargere i loro germi patogeni tutt’intorno; ce dovremmo preoccupare, ma come al solito sinché non succede non ce ne curiamo.
Abbiamo salvaguardato il nostro giardino, il resto ci appassiona poco; ci rimane indifferente quasi come quella gigantesca gobba, da cui i brufoli si alimentano e sono cresciuti. Nemmeno la notiamo, quasi sia un’entità trasparente, invisibile, inconsistente. Eppure sotto di essa gemono, sempre più compressi e sofferenti, l’economia, lo sviluppo, l’occupazione, le crisi che attanagliano questa civiltà globale, dei consumi e della crescita.
Nel delirio dell’illusione di onnipotenza, maturata sui progressi della scienza e della tecnologia, si procede senza sosta a sfruttare la natura e le sue risorse, dimentichi dei limiti che caratterizzano la realtà. Una realtà che investe anche la dimensione numerica della presenza umana su questo pianeta.
La terra non è una cornucopia che, come racconta la mitologia, rigurgita frumento o frutta all’infinito. Le risorse non rinnovabili (minerali, metalli, combustibili) sono state già in larga parte estratte e distrutte; alcune hanno iniziato un lento inarrestabile declino, per altre gli scenari non escludono a breve l’esaurimento o una presenza residuale.
Quelle rinnovabili spesso non risultano più disponibili a sufficienza in quanto sfruttate ad una velocità superiore a quella del naturale ciclo di rinnovamento e conservazione (pesci, foreste, acqua potabile, territorio fertile).
Particolarissima importanza assume la sfera dell’energia fossile (petrolio, gas, carbone) e nucleare in quanto garantisce oggi circa il 90% del fabbisogno energetico del pianeta.
E dovrebbe far riflettere il fatto che nulla, che non sia totalmente naturale, possa essere prodotto, fatto, trasformato, trasportato, lavorato senza l’apporto di un certo quantitativo di energia che, mentre viene impiegata, si degrada e non risulterà mai più disponibile.
Ogni manufatto, di qualunque tipo, “assorbe” una quota di energia, sostanzialmente irrecuperabile, per sempre.
Stiamo tirando fuori dalla crosta terrestre, per distruggerle definitivamente in circa due secoli, enormi quantità di risorse formatesi poco dopo il big-bang (uranio) o nelle ultime centinaia di milioni di anni (carboni e idrocarburi). E mentre da qualche anno si sta evidenziando una certa sensibilità per i tragici omaggi che i processi di trasformazione di queste energie primarie rilasciano nell’ambiente (inquinamento, riscaldamento globale, mutazioni climatiche), quasi nessuna attenzione viene posta al fatto che una tale ricchezza “di base” non può durare in eterno. I quantitativi presenti in natura sono quasi sempre imponenti, ma per forza di cose limitati (in misura diversa caso per caso) e quando costruiamo qualcosa rimane sempre meno energia per il futuro.
Segnali critici di declino per qualche risorsa sono ormai evidenti e dovrebbero allarmare tutti coloro (e sono tantissimi, a destra, a sinistra, in alto e in basso della scala sociale) che rincorrono la crescita continua di beni, di oggetti, di prodotti.
L’idea di crescita si è installata nell’immaginario collettivo, sia nella frazione ricca che in quella povera del mondo (qui almeno in parte giustificata!), ed è vissuta come un diritto naturale, con l’aggravante che sempre più spesso essa genera una “ricchezza” effimera, superficiale, frivola, incapace di rispondere al bisogno di reale benessere insito in ogni persona.
Lo sviluppo fondato sulla crescita quantitativa (in progressione geometrica) viene ostinatamente perseguito come unica risposta all’aumento della popolazione mondiale, al problema del lavoro, dell’occupazione; viene letto come sinonimo di prosperità e miglioramento sociale, proposto come medicina taumaturgica capace di “risolvere” (con artificio matematico) da sola la questione del debito pubblico. Dimentichi che l’abitudine di chiudere i bilanci statali “in rosso”, ormai consolidata in quasi tutti i paesi del mondo, si configura in realtà come un vivere “a credito” (non autorizzato) delle generazioni future, lasciando loro un mondo sempre più caldo, inquinato, indebitato e con i magazzini di risorse naturali pressoché esauriti.
Eppure l’irrazionalità dell’idea che risorse limitate per definizione possano garantire una crescita senza fine, emerge in tutta evidenza. Con una semplicità che appare persino offensiva.
In parecchie decine di conferenze, dibattiti, tavole rotonde, prima del referendum di giugno ho parlato a lungo di brufoli-nucleari chiarendo già alle prime parole che, pur rappresentando essi un problema con i fiocchi, la questione gigantesca che abbiamo davanti è altra. All’inizio mi si guardava sempre con un certo sospetto ma al termine una nuova consapevolezza serpeggiava tra il pubblico. Fuor di metafora, l’energia nucleare per uso pacifico rappresenta solo l’aspetto più epidermico, minoritario e non certo risolutivo del desiderio insensato che l’umanità ha di garantire a sé stessa la disponibilità di energia necessaria a continuare sulla strada della costante crescita, dell’incremento anno su anno del PIL.
Dopo Fukushima, ampi strati di cittadini hanno dato vita a una forte opposizione contro l’energia elettronucleare, in gran parte originata dall’emozione degli eventi e dalla paura che un disastro di tali dimensioni ha risvegliato. Pochi tuttavia conoscono i motivi che, oltre ai ben noti e gravi pericoli per la salute (soprattutto in caso d’incidente) e ai problemi relativi alle scorie, giustificano una tale contrarietà. Alcuni emergono chiaramente se si allarga lo sguardo al panorama completo delle fonti energetiche primarie (idrocarburi, carboni, idroelettrico, nuove rinnovabili, geotermico):
1) L’energia nucleare (oltre 430 reattori, teoricamente attivi) produce un quantitativo di elettricità che a livello mondiale rappresenta solo poco più del 5% dell’energia primaria e del 12 % dell’energia elettrica.
2) L’elettricità rappresenta meno del 40% dei consumi energetici mondiali. Se anche, come ormai risulta opportuno, possibile e necessario, si riuscisse ad aumentare questa quota (convertendo per esempio i sistemi di trasporto da combustione interna a elettrico) una larghissima parte dei nostri fabbisogni energetici resterebbe “scoperta”, non potrebbe mai essere soddisfatta con la fonte elettrica (servirà carbone per ridurre i minerali di ferro a ghisa, petrolio e gas per tutte le plastiche, i fertilizzanti, i lubrificanti, i carburanti, i tessuti sintetici, la gomma, gli asfalti, i medicinali, i colori, le colle ecc).
3) L’uranio, unico elemento in grado oggi (ma probabilmente anche in futuro) di mantenere attiva autonomamente nel tempo una reazione di fissione nucleare, è un metallo ricavabile da particolari minerali, che solo in quantità limitata lo contengono in percentuali sfruttabili. Le stime sulle riserve ancora esistenti variano parecchio, tanto che quelle ottimistiche parlano di poco meno di un secolo di durata mentre quelle pessimistiche di meno di un trentennio. Si sta iniziando a lavorare minerale con tenori di uranio sempre più bassi, scontando un progressivo aumento dei costi. Già da tempo è più conveniente recuperare nuovo combustibile dalle cariche delle bombe dismesse con gli accordi SALT e rilavorando il cosiddetto “uranio impoverito”.
4) Nessuno è in grado di definire oggi, in particolare dopo quanto accaduto a Fukushima, il costo della costruzione di una centrale nucleare. Per la centrale di Olkiluoto (quasi terminata sulla base di un progetto approvato nel 2002), la sola di cui siano disponibili in termini accettabili i costi, si parla ormai di oltre 6,5 miliardi di euro. Alla messa in servizio dell’impianto mancano parecchi mesi, se non anni, e non è escluso che il disastro giapponese obblighi a nuove misure di sicurezza che complicherebbero il quadro. Non casualmente dalla fine degli anni '70 i privati si sono tenuti ben lontani dall’industria nucleare, rimasta appannaggio delle strutture statali, spesso interessate a questa tecnologia particolarmente onerosa per scopi non propriamente pacifici.
5) Nessuno ha mai realmente implementato nei costi della centrale il prezzo del suo smantellamento a fine vita. Si tratta di una cifra molto elevata ma in realtà sconosciuta, relativa a un’operazione affatto risolutiva dei problemi legati alla radioattività residua e che dura da alcuni decenni, a secoli o millenni. Le esperienze sinora fatte sono poche e parziali e non permettono di esprimere standard di costi affidabili. Nella fase iniziale dell’epoca nucleare la questione non veniva presa in considerazione; da qualche tempo alcuni paesi (Francia e USA) hanno deciso di implementare nel prezzo del kWh una quota da accantonare per finanziare lo smantellamento dell’impianto. Alcuni stimano che l’ordine di grandezza complessivo di questo onere non sia molto lontano da quello di costruzione dell’impianto.
6) Gradualmente negli ultimi 30 anni quasi un centinaio di reattori sono stati spenti per “vecchiaia” e sono in attesa che si creino le condizioni per iniziare le attività di smantellamento. Le risorse a questo scopo non sono facilmente reperibili, come non lo sono quelle necessarie a mantenere in efficienza molti altri impianti nucleari ormai “anziani”. Inghilterra e Francia ne hanno diversi “in grave difficoltà”, per carenza di risorse manutentive. Negli USA aumentano le denunce di scarsa manutenzione degli impianti più vecchi. Gli stress-test a cui dopo Fukushima si è deciso di sottoporre tutti gli impianti, se fatti seriamente aumenteranno di sicuro il numero di casi bisognosi di significativi interventi se non di anticipata chiusura.
7) Nessuno ha mai potuto o può definire i costi reali della messa in sicurezza e conservazione nel tempo delle scorie e dei materiali radioattivi provenienti dallo smantellamento. Lo stoccaggio oggi non può far riferimento a nessun deposito definitivo funzionante. Asse II° nella Bassa Sassonia sembrava sigillato per sempre dagli anni ’80 ma a causa di impreviste e pericolose infiltrazioni d’acqua molto probabilmente dovrà essere aperto e svuotato dei suoi 126.000 fusti. Yucca Mountain nel Nevada era prossimo a iniziare l’attività quando, a seguito di nuove valutazioni geologiche, il sito è stato bocciato: dopo quasi 30 anni di lavori (e decine e decine di milioni di dollari spesi) il progetto ora è completamente abbandonato. Inoltre il mantenimento in sicurezza di un sito non ha tempi prevedibili e quindi risulta pressoché impossibile definirne l’onere.
8) Come indefinibile a priori (e anche a posteriori) è il costo economico di un incidente grave. Seppure le vittime della fase critica iniziale degli incidenti nucleari, almeno sinora, siano state inferiori a quelle di altri incidenti ritenuti pressoché “normali” in questa epoca, l’impossibilità di eliminare la radioattività e le sue tragiche conseguenze sul biosistema, per tempi molto lunghi, rende “non valutabile” (quindi non accettabile) il danno inferto a intere regioni; dal punto di vista materiale ma ancor più etico e sociale. Per “default” di questi problemi è costretta a farsi carico la società nel suo insieme, per generazioni.
Se, in uno scenario di persistente crisi economica mondiale, si considera il modesto ruolo quantitativo e temporale che la fonte nucleare può svolgere nel panorama energetico globale e si sommano le criticità relative al mantenimento in funzione degli impianti che invecchiano, la crescita dei costi di costruzione di nuovi impianti rispondenti a più elevati livelli di sicurezza, i limiti relativi alle risorse di uranio, l’incognita degli oneri di smantellamento, gli insoluti problemi di stoccaggio delle scorie e il crescente rifiuto sociale, diventa completamente irrazionale immaginare una fase espansiva per l’energia nucleare.
Eppure qui da noi c’era anche chi aveva il coraggio di sostenere che la costruzione di impianti nucleari avrebbe sostituito buona parte delle importazioni di greggio e sarebbe stata la risposta più opportuna al prezzo, troppo elevato, del petrolio; dimenticando – tra l’altro! - che in Italia solo il 4% dell’energia termoelettrica viene generata bruciando prodotti di raffineria, che l’energia termoelettrica nel suo insieme rappresenta il 66% dell’offerta nazionale di elettricità e che tutta l’elettricità italiana equivale a un terzo (34%) dell’energia totale consumata nel paese.
Si dimostrava così la palese incompetenza nel cogliere il segnale che l’inversione di tendenza della “gobba” era iniziata, l’incapacità di fronteggiare il progressivo declino della risorsa “principe”, il petrolio: la fonte che quasi da sola ha garantito lo straordinario sviluppo del pianeta per tutta la seconda metà del secolo scorso.
Nessuna altra fonte conosciuta è così prolifica di energia e di sostanze come il petrolio che, ormai dal lontano 1980, ogni anno scopriamo sempre in quantità inferiore a quella che consumiamo. Leggendo i dati statistici sembra che le riserve esistenti non diminuiscano ma il fenomeno è in buona parte dovuto a rivalutazioni, a volte collegate a più moderne tecnologie di estrazione ma spesso originate da “nuove stime” (non meglio giustificate) dei giacimenti già conosciuti. Tanto che diversi studiosi ritengono scarsamente affidabili i dati ufficiali forniti dai paesi produttori, come, per esempio, quelli dell’Arabia Saudita.
In ogni caso le quantità di petrolio sono ancora molto consistenti; probabilmente è stata estratta circa la metà di quello esistente. Quindi il problema non va enunciato con “il petrolio è terminato” (ce ne sarà almeno per parecchi decenni ancora, si spera anche più) bensì con “cresce progressivamente la difficoltà a soddisfare la domanda globale”, in relazione ai problemi nel trovarlo, alla possibilità di estrarlo e ai risultati dell’estrazione.
Infatti, pur accettando per veri i dati sulle riserve, la questione va oltre le stime dei quantitativi ancora esistenti, o ipotizzati: aspetto determinante è il ritorno utile dell’attività di ricerca ed estrazione. Cioè il rapporto tra l’energia ottenuta e quella investita per trovare ed estrarre, per esempio, nuovo petrolio.
Nelle varie analisi riferite agli scenari energetici inspiegabilmente non si tiene conto dell’energia che si consuma con le attività organizzative, gestionali, di ricerca, di esplorazione marina e terrestre, di sondaggio, di perforazione, di prove, di messa a punto e coltivazione del giacimento, di lavorazione e trasporto della risorsa. E questo rapporto, mediamente, non può che diminuire nel tempo: le ferree leggi dell’economia costringono inevitabilmente a sfruttare per prime le riserve “più buone e più facili”, quelle che garantiscono profitti immediati e consistenti, lasciando per ultime le più complicate, di peggiore qualità, quelle meno vantaggiose.
In termini tecnici si parla di ERoEI (Energy Returned On Energy Invested), un indice che per buona parte della prima metà del secolo scorso per il petrolio si attestava attorno a 100. Cioè, con l’energia di un barile di petrolio, si portavano a casa 100 barili di petrolio. Un risultato che oggi, quando va bene, arriva a 15 e sempre più spesso non supera 10, 12, destinato a ridursi ulteriormente.
La logica di questo approccio appare estranea al mondo dei combustibili, anche se normalmente accettata in altri campi. Non suscita meraviglia se lo sfruttamento di una miniera d’oro, o di carbone o di mercurio, viene interrotto quando la risorsa risulta troppo poco concentrata nel terreno. L’estrazione non è più conveniente ma ciò non significa che il metallo o il minerale in quel luogo sia completamente esaurito (anzi se ne può stimare facilmente il quantitativo): semplicemente l’estrazione risulta eccessivamente “costosa” dal punto di vista dello scavo, del trasporto, della lavorazione e quindi non più vantaggiosa.
Questa prassi vale per tutte le sostanze che preleviamo dall’ambiente naturale; nel caso dei combustibili (tutti) la riduzione dell’ERoEI individua con grande precisione la validità della coltivazione di un giacimento mentre il valore monetario riconosciuto alla risorsa ha scarsa influenza sui benefici reali (diversi da quello economico) derivanti dall’estrazione.
L’aumento del prezzo di un barile di greggio sul mercato permette di sfruttare giacimenti più “difficili” e quindi estrarre altro olio, ma sino a un certo limite. Per assurdo, se il prezzo arrivasse a 1.000 $/barile qualcuno potrebbe per un po’ ricavarne enormi profitti economici ma appena l’estrazione offrisse un ERoEI attorno a 3 o 4, risulterebbe appena in grado di garantire alla collettività un livello di pura sussistenza e potrebbe risultare più conveniente indirizzare risorse e lavoro alla coltivazione di terreni e produzione di cibo.
Infatti, l’ERoEI individua anche il livello al quale la comunità può continuare a mantenersi o svilupparsi accumulando e usando “vera ricchezza”, cioè energia, materiali, elementi, in aggiunta a quelli di cui disponeva.
Più basso è l’ERoEI minore sarà il vero “guadagno” socialmente fruibile. Inoltre il basso ERoEI e le difficoltà nel soddisfare la domanda, influenzano direttamente il prezzo del greggio trascinandolo su livelli che l’economia (questa economia!) non è in grado di sopportare a lungo.
Sono elementi che condizionano profondamente le possibilità di sviluppo (quello vero, non fittizio) e che una parte degli economisti considera tra i principali fattori da porre alla base delle crisi economico-finanziarie globali cui assistiamo dal 2008.
La possibilità di produrre nuovi beni e nuovi servizi in un determinato paese può essere attivata e sostenuta (in parte e momentaneamente) da un flusso monetario creato ad hoc, ma ciò comporta indebitamento con l’estero o con le future generazioni di cittadini o inflazione. Un paese che non dispone di reali risorse interne (o di lavoro e impianti adeguati, per poter rivendere poi all’estero le risorse importate trasformate in beni) non può realizzare nessuna crescita o sviluppo.
Se, invece di uno stato, si prende in considerazione l’insieme del pianeta, la possibilità complessiva di produrre nuova ricchezza per l’umanità dipende anzitutto dalla disponibilità di nuove risorse. Contano anche altri elementi importanti e indubbiamente incisivi (scienza, tecnologia, cultura, organizzazione) che tuttavia non possono che applicarsi alla disponibilità di nuovi flussi di risorse lavorabili, sfruttabili, impiegabili. Per un certo periodo può risultare utile e percorribile il riequilibrio tra sacche di agiatezza e di povertà, ma alla fine l’umanità deve attestare la propria consistenza, i propri consumi complessivi e adeguare il proprio stile di vita medio al livello del flusso di risorse disponibile.
In sostanza, ci si può illudere per un po’ stampando denaro, magari spostandolo da un punto all’altro, ma non si possono stampare barili di petrolio. E nemmeno cibo, per produrre il quale oggi serve molto petrolio e molta energia.
In alternativa, ricorrendo alla fantascienza, si può pensare di importare risorse dai marziani e pagarle con parte dei prodotti lavorati da noi umani.
In concreto però si sta evidenziando in questo periodo l’accentuarsi dei conflitti (politici e armati) attraverso i quali chi riesce a mettere in campo una maggiore forza impone la sua autorità e si accaparra quante più risorse riesce a raggiungere. Poco importa se così si uccide, si distruggono territori, ambienti, equilibri sociali: l’imperativo è recuperare risorse primarie per continuare la crescita e aumentare la produzione. Chi può, chi è in grado, continua a perseguirlo, a qualunque prezzo, indifferente ai costi sociali ed ambientali che ne conseguono.
E’ storia vecchia quella di accumulare più ricchezza possibile, caratteristica preminente dell’uomo almeno dalla fase in cui ritenne non più indispensabile organizzare i propri gruppi sociali a livello solidaristico.
Considerate le peculiarità del petrolio, si capisce facilmente perché da qualche decina d’anni l’interesse si concentri in particolare su questa risorsa. Non si trascurano affatto molte altre sostanze, acqua e terreno agricolo compresi, ma il petrolio è al centro degli interessi di tutti i paesi del mondo; in particolare quello ancora relativamente facile da estrarre e di buona qualità. Anche se da qualche anno non si disdegna di grattare il fondo degli oceani con pozzi che superano i 9 km di profondità; si perfora tra i ghiacci perenni, si accendono fuochi a migliaia di metri sotto terra per riscaldare e spingere fuori greggio ostinato, si lavorano ad elevate temperature sabbie oleose scarsamente produttive e altamente inquinanti.
Ma più gravemente si registrano comportamenti sempre più chiari ed espliciti legati in alcuni casi al progressivo esaurirsi di giacimenti, in altri dalla necessità di garantirsi in ogni modo nuove e maggiori disponibilità.
I pozzi del Mare del Nord dal 2000 producono sempre meno e stanno per esaurirsi; ecco allora che l’Inghilterra ritrova l’interesse per le miniere di carbone nazionale, chiuse nei primi anni ’80 e, assieme alla Francia, improvvisamente scopre di condividere gli aneliti di democrazia del popolo libico. La Cina sta accaparrando giacimenti in ogni dove, Africa soprattutto, anticipando enormi quantità di denaro in cambio di promesse di fornitura. Gli USA, da tempo presenti in tutti gli scacchieri petroliferi mondiali, puntano a convincere i nuovi fornitori portandoli a sedere sotto l’ombra del dollaro e dei propri cannoni. La Russia ha esplicitamente rivendicato i fondali sotto i ghiacci del polo nord, a costo di scontrarsi – per ora a livello di diplomazie – con il Canada e gli USA.
Ho fatto cenno solo al petrolio cercando di chiarire che il tempo del greggio facile a basso costo è definitivamente tramontato; ma scenari simili (con alcune importanti varianti temporali e quantitative) sono riferibili al metano e ai carboni. Inoltre quasi nulla ho scritto sulle molteplici e gravissime conseguenze che l’impiego sempre più massiccio di queste fonti determina sul clima e sulla biosfera.
Volutamente ho scelto di circoscrivere queste considerazioni agli aspetti delle fonti d’energia meno avvertiti e meno dibattuti, anche tra coloro che possono essere considerati sensibili a problematiche di questo tipo.
Nel momento in cui – e molti lo considerano prossimo – la domanda di energia globale non potrà essere più garantita dalle possibilità e dalle capacità estrattive, il conflitto non potrà che esplodere. Lo scontro globale per il petrolio resta oggi ancora occultato sotto la foglia di fico della democrazia da esportare, dello sviluppo locale da favorire, ma la situazione sta peggiorando velocemente e con ogni probabilità tra non molto dovremo assistere a guerre guerreggiate esplicitamente per il dominio sui pozzi.
Quasi certamente saranno anticipate da disordini interni alle nazioni socialmente più esposte e fragili, da ricorrenti, profonde e complesse crisi economico-finanziarie (l’attualità ci sta offrendo esempi evidenti) ma dobbiamo anche aspettarci che si verifichino fenomeni di collasso della rappresentatività democratica: quanti cittadini, all’evidenziarsi di una prima sostanziale carenza, privi della benchè minima consapevolezza della situazione, sapranno comprendere l’ineluttabilità di un improvviso razionamento dei carburanti, o dell’elettricità o delle forniture di gas? Quale livello di rappresentatività della volontà popolare potrà vantare un qualsiasi governo costretto dalla mancanza di alternative a simili non rinviabili decisioni?
Assisteremo anche al liquefarsi delle alleanze tra stati, già ora così incerte e fragili.
Per esempio, se dovesse mancare una significativa percentuale di greggio o di metano in Europa, è ipotizzabile un tavolo in cui ciascuno degli stati rinunci di buon grado in proporzione ai propri consumi? Sembra perlomeno arduo, se non inverosimile.
Su questi aspetti oltre un anno fa lo JOE (Joint Operating Environment – United States Joint Forces Command) e il DOE (Department Of Energy) negli USA e, in Europa, un think-tank dell’esercito tedesco (ZtransfBw-Zentrum für Transformation der Bundeswerh), hanno pubblicato dei lavori e presentato attente considerazioni, ma anche se proposte da organismi di questo livello quasi nessuno le ha raccolte e sviluppate.
Gli avvertimenti sugli effetti collegati all’esistenza della “gobba” non mancano certo, ma la crescita resta comunque il feticcio a cui tutto sembra sacrificabile. Trovare soluzioni non è certo facile ma per iniziare è indispensabile almeno essere consapevoli della situazione.
Ci si è mobilitati per il nucleare ma si resta pressoché immobili di fronte alla questione energetica globale: il declino del petrolio e la limitatezza delle fonti di energia fossile. Come paralizzati, dimentichi che nessun pericolo di guerra concreto (fatte salve questioni particolari, tipo Israele-Iran) era ed è ipotizzabile in ordine allo sviluppo della fonte elettronucleare, mentre invece le guerre per il petrolio vengono agite surrettiziamente da decenni e rischiano di diventare esplicite entro breve coinvolgendo ambiti privi di confini.
E’ urgente quindi attivare velocemente i rimedi possibili: riduzione dei consumi e sviluppo di tutte le energie rinnovabili, avvertiti però che difficilmente si riuscirà a coprire il gap che si determinerà a causa del declino dei fossili. Si pone quindi come indispensabile la costruzione di un vero e proprio nuovo sistema di pensiero, orientato a perseguire un diverso benessere sganciato dallo sviluppo materiale e in grado di rigettare il paradigma di un’impossibile costante crescita della produzione e dei consumi. Ben consci che in questo caso nessun referendum potrà salvarci.