Gli esodi di massa in corso, dai paesi africani in crisi alle coste italiane, hanno riproposto il tema della insufficiente integrazione delle politiche europee.
In effetti, pur considerando i gravi errori nella gestione dell’emergenza e la scarsa autorevolezza politica a livello internazionale dell’attuale governo italiano, è riemersa, riacutizzandosi, la tendenza degli stati europei a privilegiare la tutela degli interessi nazionali a scapito delle politiche comuni. In particolare, appare inaccettabile il comportamento della Francia, destinataria dei principali flussi di migranti provenienti da ex colonie di lingua e tradizioni francofone, che tenta di trasferire all’Italia compiti di gestione dell’emergenza che sono anche e soprattutto suoi.
Ma non c’è da illudersi che in futuro la situazione migliori. Infatti, il recente "Patto per l'euro" del Consiglio europeo ha definito vincoli sempre più stringenti in materia di disavanzo e debito pubblico e quindi di contenimento della spesa pubblica e ciò non favorirà certo un’inversione di tendenza, in particolare nelle politiche di accoglienza dei migranti.
Occorre pertanto affrontare una profonda riflessione sul futuro dell’Europa, senza baloccarsi con luoghi comuni e banalizzazioni del problema che si sentono echeggiare anche in questi giorni, quando si prospetta l’unione politica europea, come soluzione delle contraddizioni che stiamo vivendo e si glorificano i vantaggi del libero scambio di persone e cose.
Gli “Stati Uniti d’Europa” sono a mio parere poco più di una chimera. Troppe sono le differenze storiche, economiche, culturali, tra i membri dell’Unione europea. In particolare, la mancanza di una lingua comune, mi appare un ostacolo quasi insormontabile alla creazione di una nazione europea. L’inglese rappresenta sicuramente uno strumento di comunicazione efficace tra i popoli europei, ma è confinato prevalentemente dentro esigenze specialistiche o professionali e non ha le potenzialità per diventare una lingua nazionale. Né possono essere destinati al successo i tentativi artificiali di creare un nuovo idioma nazionale, come quello dell’esperanto proposto anni fa e naufragato miseramente.
Anche il regime del libero scambio difeso da molti economisti per affrontare a livello globale i problemi di integrazione economica, senza adeguate politiche regolatrici, rischia di aggravare da una parte i problemi politici e sociali e dall’altra di vanificare le politiche di sostenibilità ambientale delle produzioni, a causa del basso livello degli standard ecologici e sociali delle economie emergenti. A tale proposito, illuminanti sono le argomentazioni contro il libero scambio e per la difesa delle economie locali e nazionali nel libro “Un’economia per il bene comune” di Herman Daly e John Cobb.
A mio parere, la crisi delle risorse e la dinamica dei prezzi dei prodotti energetici imporranno sempre più la rivalutazione degli Stati nazionali come soggetti ottimali per la gestione della sostenibilità, attraverso politiche di riduzione dei consumi energetici e di autosufficienza alimentare. In questo quadro, il ruolo fondamentale dell’Unione europea potrà continuare ad operare nell’ambito dell’integrazione e coordinamento delle politiche economiche e sociali, come garanzia di cooperazione e stabilità politica e sociale.
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