Di Massimo Nicolazzi
Tratto da Limes 6/2011
Sommario:
Le rivolte arabe segnalano la crisi dello Stato rentier,
in cui la rendita sostituisce il reddito. L'esempio saudita. Alla
radice, la crescita demografica. Più consumi interni e meno export
producono instabilità. Una lezione per Occidente e Cina.
1. Dici
arabo e magari pensi al pane. Però anche, e forse più spesso, al
petrolio. Il prezzo del pane che aumenta ti fa partire la rivolta
tunisina. In Arabia Felix e possibilmente altrove il prezzo del
petrolio che sale o almeno tiene la rivolta dovrebbe impedirla, o
almeno attenuarla. Il pane arabo è fatto col petrolio, o quasi.
In
qualche caso oltre al pane ci fanno anche il companatico. In Medio
Oriente è palmare. L’Arabia Saudita, anzitutto. L’80% delle
entrate fiscali è generato dal settore idrocarburi, che vale da solo
il 45% del PIL, e che vale anche il 90% del valore totale delle
esportazioni. In Iran (che non saranno arabi, ma con buona pace di
Huntington arabi e ariani sono almeno a qualche effetto assimilabili;
e a fini di pane e petrolio li terrò assimilati) gli idrocarburi
contano per oltre il 50% del budget statale; in Iraq per il 90%; e
così a seguire via Kuwait ed Emirati.
Qualcuno
la definisce maledizione del petrolio. Curse
of oil.
E’ l’equivalente macroeconomico del vincere la lotteria.
Difficile che chi vince il superenalotto sia preso da
un’irrefrenabile bisogno di lavorare sodo e subito. Difficile che
chi scopre il dono di Natura di una cornucopia di risorse sia colto
dall’ansia di produrre altro. Inutile ironizzare sul clima o
teorizzare di civiltà (magari usando il termine come sinonimo
inconfessato di “razza”). Capita ovunque e a chiunque. Quando in
Olanda scoprirono Groeningen, che poi è uno dei più grandi
giacimenti di gas d’Europa e produce ormai da cinquant’anni, gli
successe la stessa cosa. Monocultura dell’idrocarburo, e il resto
dell’economia tra chiusura e recessione. L’economista
politically correct
da allora evita curse
of oil.
Dutch
disease
è piu’ educato. Financo gentile.
Chiamatelo
come preferite. Il fenomeno, se pur con varianti infinite, è
abbastanza semplice. Madre Natura, dopo gravidanze in media di
qualche milione di anni, ha generato varie discendenze di
idrocarburi. Dopo averle generate se le è tenute in pancia; o
meglio, per transire dall’anatomia all’economia, ce le ha
tenute in deposito. Il petrolio non si “produce”, ma giusto lo si
“estrae” dal suo magazzino naturale. La “produzione” in senso
proprio e qualche milione di anni di stoccaggio sono economicamente
un regalo (le esternalità, if
any,
sono qui intenzionalmente omesse).
Chi
trova petrolio riceve in regalo una “merce”; o comunque un
prodotto che gli è trasferito senza costi di produzione e/o
magazzino. Svuota, appunto, il magazzino; e vende quello che ci
trova. Nessuna meraviglia che il petrolio possa insieme costare
pochissimo (fino all’inizio degli anni Settanta dell’altro secolo
poco più di un dollaro a barile) e garantire rendite imponenti a chi
ne ha e/o produce.
La
rendita. Una fonte di energia fossile è un mezzo per produrre
energia, o comunque (in senso lato) uno “strumento” di
produzione, più che un” prodotto”. Nelle storia è pure
successo che ad uso medicinale te ne prescrivessero anche “three
teaspoons three times a day”,
e pure per via orale; ma di regola il petrolio non si beve, siccome
il carbone non si mangia. Il petrolio lo si raffina e si trasforma
per farne prodotti che servono a produrre. Carburante per le nostre
gomme, o fertilizzante per l’agricoltura, o materia prima per
plastiche, o quanto e tanto altro.
Trovi
il petrolio dentro un territorio altrimenti dotato dei rudimenti di
un’economia e un assetto sociale “moderni” (nel significato
corrente dell’Occidente, e absit
giudizio
di valore), e sai cosa farne. Se hai un apparato produttivo
(fabbriche e mercati collegabili con infrastrutture di trasporto e
agricoltura meccanizzabile e quant’altro) e ti abbonda un mezzo (straordinariamente efficiente) di produzione sai come impiegarlo. La
rendita del Dono fossile la reimpieghi direttamente nel processo
produttivo. Elettricità per produrre merci e servizi; e carburante
per muoverli; e fertilizzanti e trattori per alimentare quell’altro
fattore di produzione (il lavoro) con sempre più pane prodotto da
sempre meno uomini. La rendita si trasforma in un minore costo di
produzione del prodotto finale. E il produttore ne fa leva per
candidarsi a leadership internazionale (non solo commerciale e/o
industriale). Per riferimenti, rivolgetevi all’Inghilterra
carbonifera del XIX secolo o alla leadership petrolifera americana
del XX (nell’immediato dopoguerra, il 60% del petrolio prodotto al
mondo era ancora estratto negli Stati Uniti).
La
rendita puoi però anche usarla semplicemente come rendita, e tale ti
resta. In terminologia moderna significa di regola “convertirla”
in spesa pubblica. Improduttiva. Vendo il petrolio e uso il ricavato
per sussidi, pensioni e indennità varie. La tentazione può
prenderti anche se sei “moderno”. Dutch
disease.
O se serve un altro esempio, la politica laburista inglese ai tempi
delle grandi scoperte nel Mare del Nord. Tassazione dei profitti
petroliferi oltre il 90% di aliquota e social
welfare
senza limiti. Il petrolio usato quasi per ironia per sussidiare anche
i minatori del carbone. Da chiedersi quasi se senza il petrolio
laburista la Thatcher avrebbe mai trionfato.
2.
La tentazione è forte se il petrolio lo trovi in un tessuto
connettivo “moderno”. Irresistibile se lo trovi nel deserto.
Inevitabile se nel deserto lo trova qualcun altro. Per decenni e
quasi un secolo, la storia del petrolio fuori d’America è (al
netto della Russia) una storia dell’espansione petrolifera
occidentale. Pochissimo inglese e tantissimo americana. Dalla prima
concessione iraniana del 1901 alla trasformazione nel dopoguerra dei
giacimenti sauditi nella cinquantunesima stella americana lo schema è
lo stesso. Il petrolio è tutto per me e per il mio apparato
economico (e militare). E con lui mi porto via la sua rendita; al
netto di una qualche royalty (nel 1901 si comincia con il 16% neanche
delle revenues
ma dei profitti) che lascio nel paese a titolo poco più che di
disturbo. La rendita del produttore confluisce quasi per intero,
riducendolo, nel costo di produzione del consumatore. Affitto il
terreno a prezzi di pascolo; lo coltivo intensivo a frumento; e sul
posto non lascio neanche una spiga, che da me il pane bianco si vende
caro. Costa meno di un’occupazione militare; e rende infinitamente
di più.
Per
anni, il tema per i produttori arabi non è perciò come impiegare la
rendita, ma (analogamente all’esperienza precedente dei produttori
centro e sudamericani) come trattenerla. E poi, in progresso di
tempo, come trattenerne sempre di più. Escludendo l’Occidente dal
produrre o quantomeno convertendo la rendita sua e delle sue imprese
entro i limiti di un normale profitto industriale.
Missione
compiuta (o quasi) negli anni Settanta del Novecento. Tra le crisi (o
presunte tali) del 1973 e del 1980. In parte per via di
nazionalizzazioni. Il terreno non lo affitto più e me lo coltivo io.
In parte per revisione radicale dei rapporti con le società
petrolifere d’Occidente. La vecchia royalty si converte in
strumenti di controllo e programmazione del ritorno sul capitale
investito. Il che ad ammortamento avvenuto può consentire al paese
di trattenersi anche più del 90% del profit.
Via nazionalizzazioni o revisioni, la rendita resta infine laddove si
produce.
Insieme
succede altro, e forse di più importante. Si appropriano della
rendita. Ma anche e in parallelo revisioni e nazionalizzazioni li
mettono in grado di controllare la produzione. Come si sviluppa un
giacimento, insomma i tempi della semina e del raccolto, diventa
decisione del paese produttore e non più dell’impresa. Sono in
grado di controllare i volumi; e quindi potendo modulare l’offerta
sono o quantomeno si sentono in grado di modulare anche i prezzi. Si
sono impadroniti della rendita (quasi) per intero; e adesso
potrebbero essere anche in grado di programmarne il valore. Se
davvero si può agire su volumi e prezzi, una politica
diventa
possibile.
Volumi
o
prezzi. Massimizzare la rendita ricavabile nell’immediato,
producendo il più possibile il più velocemente possibile. O
distribuire nel tempo, riservando una quota del producibile al
futuro. Una politica delle risorse è in ultima istanza la scelta
politica di un tasso di sconto. Il tasso di sconto come misura di
quanto petrolio mi conviene produrre subito e quanto lasciare in
sottosuolo. Se sconto basso, ne salvaguarderò per le generazioni
future; e se sconto alto mi converrà produrre tutto il producibile.
Se sconto alto difendo i volumi; e se sconto basso col deprimere
l’offerta difendo i prezzi.
Tra
il 1973 e l’inizio degli anni Ottanta fare politica, e dunque
scegliere, gli pare possibile. Però si dimenticano che esiste anche
la domanda, e che non è scontato che la domanda sia sempre
crescente. E dunque si mettono a difendere insieme volumi
e
prezzi. La cavalcata è straordinaria e apparentemente inarrestabile.
Un barile di petrolio nel 1971 aveva un posted
price
di un dollaro e ottanta, e buona parte della sua rendita finiva a
occidente. Nel 1980 siamo a trentaquattro dollari; e la rendita è
trattenuta laddove si produce. La domanda però reagisce. Il
consumatore si mette a giocare con i volumi. Non solo nuovi
giacimenti altrove (dal Mare del Nord all’Alaska), ma anche cambio
di fonti energetiche e inizio del risparmio. I consumi non crescono
più. E nel 1988 il prezzo è tornato sotto i 13 dollari e mezzo. E’
la prima lezione. Il petrolio è difficilmente rimpiazzabile con
altro. Ma difficile non vuole dire impossibile. Più il prezzo corre,
e più il produttore rischia di scoprire che il petrolio è un bene
fungibile. Qualunque sia la politica, gli andamenti del prezzo non
possono rendersi estranei alla logica di domanda e offerta.
Succede
in parallelo un’altra cosa. A provarsi a fare politica non sono i
produttori, ma in realtà solo uno. Lo swing
producer.
L’Arabia Saudita. E’ l’unica all’inizio degli anni Ottanta a
tagliare davvero i volumi per difendere i prezzi. Da 12 milioni
giorno scende sino a 2,5; e poi, stanca di essere l’unica a
tagliare in un’Opec dove tutti gli altri tendono invece a pompare
in eccesso, decide di mollare i prezzi e far cassa con i volumi.
Passa a 6 milioni di barili giorno in pochissimo. Il prezzo arriva
temporaneamente sotto i dieci dollari, ma giusto o sbagliato il
messaggio fa la storia. L’Arabia Saudita è l’unico elemento di
bilanciamento del sistema. L’unico produttore “indispensabile”.
3.
Tra il 1973 ed il 1980 si compie la conquista della rendita. Adesso
la si può usare. La scelta è unanime. La rendita resta rendita. Il
dibattito in ipotesi virtuoso su tasso di sconto e salvaguardia delle
generazioni future non può nemmeno incominciare. Il produttore arabo
ha priorità diverse. C’è da pensare all’immediato della
stabilità politica e dell’ordine sociale.
La
rendita non confluisce in un costo di produzione, lasciando poi alla
produzione di generare reddito. La rendita non alimenta il reddito.
La rendita lo sostituisce. Sostituendo il gettito petrolifero alla
tassazione ordinaria come forma e fonte principale delle revenues
statali; ed alimentando direttamente élite e masse.
E’
il modello dello Stato
rentier.
O se preferite dell’economia del sussidio. La ricchezza petrolifera
redistribuita direttamente in forma di aiuto anzichè trasformata in
fonte (mediata dal processo economico) di salario. Col risultato di
soffocare l’incentivo allo sviluppo di altro, e di rendere la
sussistenza interna sempre più dipendente dal fluire regolare della
rendita. E’ la normalità della stagnazione.
Il
circolo élite/masse ne è interamente e viziosamente alimentato. In
un modello politico dove è men che netta la distinzione tra risorse
statali e risorse delle famiglie o tribù o individui che lo Stato
governano la rendita è alimento diretto della ricchezza delle élite.
E però è anzitutto anche fonte della loro legittimazione. E base
del loro consenso. Nell’economia del sussidio le
élite
giustificano la propria ricchezza elargendo sussistenza (di cui
l’ipertrofia del pubblico impiego è elemento comunque
compresente). E però al contempo dipendono dalla possibilità di
continuare a garantire la sussistenza per la loro stessa
sopravvivenza in quanto leadership, quando non anche per la propria
sopravvivenza fisica.
La
stabilità del regime è predicata sulla stabilità della rendita.
Il petrolio è la priorità della politica interna. Ex
bitumine imperium.
Ex
bitumine panem.
Se preferite, curse
of oil.
Sembra
brutto. Però ha retto. Dal 1980 a questa primavera per far saltare
un regime c’era voluta un’invasione. Gli altri, con poche
eccezioni, belli e stabili; e con l’eccezione confessionale
iraniana anche tendenzialmente quando non istituzionalmente
ereditari. Se la distinzione tra bilancio statale e ricchezza
familiare si fa labile, e sei il più potente solo se sei anche il
più ricco, l’esito ereditario è quasi fisiologico.
Poi
da primavera scossoni dappertutto. Regimi che saltano e altri che
restano, ma anche loro un poco scossi. Le forme nazionali sono
diverse. E coinvolgono anche paesi che hanno mutuato l’economia del
sussidio pur non essendo grandi produttori in proprio. Magari
percepisco male. Ma per come ce la raccontano e vista da lontano
sembrerebbe comunque che quelli che non ne hanno (Giordania e
Marocco, per non fare nomi) siano stati attraversati da minor
sconquasso sociale. Meno Dono, meno maledizione. E però anche altra
conferma che tra i motori della rivolta araba c’è anche la crisi del modello rentier.
Negli ultimi trenta/quarant’anni qualcosa deve essere cambiato. E
forse non è giusto il crescere di fame di democrazia e libertà.
4.
Un primo e trascurato cambiamento degli ultimi quarant’anni è che
adesso le masse sono cresciute. Proprio in senso demografico. I
cittadini del produttore nel crescere si sono moltiplicati.
L’alimento rendita ha alimentato tanto la fertilità che
l’aspettativa di vita.
I
sauditi vi paiono comunque spopolati, che è tutto deserto. Però una
cosa è la densità per metro quadro e un’altra il ritmo
riproduttivo. Nel 1970 i sauditi erano 5,7 milioni; nel 1980 9,6; e
quest’anno più che 27. In Iran erano 28,5; poi 39 e adesso più di
75 milioni. In Iraq poco più di 10, e poi di 14, e adesso di 31. Non
ti cambia di molto in Nordafrica. In quarant’anni l’Algeria è
passata da 13 a quasi 37 milioni di abitanti; la Libia da meno di due
a quasi sette; l’Egitto (che è stato un esportatore magari solo
marginale, ma ha comunque sviluppato una sua variante dell’economia
del sussidio e si ritrova ora aggravato dall’essere avviato a
diventare strutturalmente importatore) è passato da 35 milioni di
persone a più di 80.
La
progressione non è costante, ed anzi ha decelerato bruscamente
nell’ultimo decennio. I numeri dei tassi di fertilità sono
evidenti. La leadership è ormai saldamente africana. I produttori,
non appena la rendita ha consentito di sussidiare altro che non
fossero le calorie necessarie alla sopravvivenza, hanno abbattuto i
ritmi. Su scala magari in alcuni luoghi minore, ma anche qui si è
andata confermando la lex
aurea dell’Occidente.
La crescita demografica come funzione inversa del benessere economico
(non a caso, il primo paese non africano oggi in classifica per tasso
di fertilità è l’Afghanistan, 13° assoluto con un tasso del
5,9%). Però sino ad una decina di anni or sono ci andavano spediti.
Tassi di crescita della popolazione che superavano il 3% all’anno.
E tassi di fertilità elevatissimi. Nel 1970 in molti Paesi (Libia,
Algeria, Arabia Saudita...) il tasso di fertilità era sopra il 7%. E
vent’anni dopo (Arabia Saudita e Iraq su tutti) era ancora sopra
il 5%. Oggi siamo qualche volta addirittura in decrescita (1,75 in
Algeria e 1,88 in Iran) e generalmente verso crescita zero. Il che è
di regola anche un indice positivo di evoluzione della condizione
femminile; però non modifica nell’immediato l’emergenza
demografica. Chi è nato nel 1990 ha vent’anni adesso.
L’età
media della popolazione italiana è di oltre 43 anni. A casa dei
produttori siamo di regola tra i 25 ed i 27, con l’Iraq che fa
addirittura 18,2 (e mantiene il primato regionale del tasso di
fertilità, con il 3,67). Una volta avresti potuto dire che era tutta
questione di aspettativa di vita; insomma che l’età media era
molto più bassa giusto perchè morivano molto prima. Adesso la
forbice dell’aspettativa di vita si è molto ridotta e la
differenza di età media è marcatamente inflenzata dall’andamento
demografico.
I
baby
boomers
della rendita hanno dai venti (e anche meno) ai quarant’anni. E
adesso vanno e contemporaneamente tutti in scena, a sgomitare per
pane e lavoro e un’idea di futuro per sé e per i propri figli.
Fuor di sussidio non trovano nulla, o molto poco.
Prima
della rendita e del boom in qualche pezzo di Nordafrica si riusciva a
sussistere di agricoltura. Adesso è esplosa la popolazione e sono
crollati gli addetti. La terra coltivabile si restringe e il cibo
passa a sua volta sulla bolletta delle importazioni. L’Algeria, che
una qualche tradizione agricola ce l’aveva, importa la maggior
parte del cibo che consuma; e gli altri anche peggio. Si esporta
petrolio anche per pagare il frumento che si importa. Il resto è
grande conurbazione. Le braccia si sono moltiplicate, e fuor di
pubblico gli impieghi tradizionali si sono ristretti e quelli nuovi
sembrerebbero di là da venire. Se spendi la rendita anzichè usarla
puoi giusto convertirla nelle sue istituzioni. Urbanizzazione,
impiego pubblico e sussidio.
Nell’altro
secolo questo pianeta, nonostante il contributo di due guerre
mondiali e di qualche migliaio di conflitti, è passato ad ospitare
da poco più di uno a oltre sei miliardi di abitanti umani, e in
parallelo il reddito pro capite individuale, l’aspettativa di vita
e il cibo individualmente disponibile sono aumentati. Senza le
applicazioni dei combustibili fossili (dall’energia elettrica ai
fertilizzanti agricoli alla locomozione a quant’altro) questo ritmo
di sviluppo non ce lo saremmo neppure immaginato. E’ stato
possibile perchè il Dono è stato utilizzato, ed utilizzato come
motore anche di innovazione e strumento di creazione di valore
aggiunto. Come strumento che ha reso possibile aumentare la ricchezza
del mondo più che proporzionalmente all’aumento della popolazione
(in maniera poi non esattamente egualitaria, ma non è questo qui il
punto).
Lo
Stato rentier
non
usa il Dono. Lo consuma. Se gli aumentano i sussidiati non può
sperare nell’innovazione o in qualche altra diavoleria per
moltiplicare produzione e revenues.
Può solo sperare che siano rimasti sotto l’albero dei doni non
(ancora) visti; o che una qualche congiuntura gli faccia schizzare il
prezzo. Sapendo che produzione e prezzi non aumentano di regola come
funzione della popolazione, e che se non è saudita non ha margini
per giocare in proprio con volumi e prezzi. L’esplosione
demografica ti revoca in dubbio la capacità di poter garantire il
pane; e con ciò anche la sopravvivenza dello Stato
rentier
nella sua forma corrente.
5.
Non solo sono diventati tanti. Si sono pure messi a consumarlo a casa
loro. Più la popolazione cresce e più bisognerebbe esportare per
sussidiarla. Però anche più cresce e più ne abbisogna per sé e a
casa propria. E a volte l’economia del sussidio persino te lo
incentiva, il consumo interno (un esempio al limite del paradosso è
il sussidio iraniano ai consumi privati di benzina per autotrazione).
Metti insieme il bisogno di esportazione con quello di consumo
interno, e la crescita della domanda te la puoi raffigurare
esponenziale. L’offerta, ovvero la produzione, in molti casi non
può crescere neanche linearmente; ed è tanto se non declina già
nel breve. Lo Stato
rentier
si infila in una sorta di variante energetica della trappola
malthusiana. In alcuni casi persino con entusiasmo.
Forse
non bisognerebbe usare l’Arabia Saudita come paradigma. Sono troppo
ricchi e troppo pochi e troppo pieni di petrolio. Magari. Però non
sono più pochissimi. E non hanno alcuna certezza (al di là dei
proclami) di poter aumentare la capacità di produzione corrente. Non
saranno un paradigma; però sono un esempio.
Nel
2000 consumavano internamente circa un milione e mezzo di
barili/giorno. Noi in Italia quasi due milioni. In teoria il dato mi
direbbe che già nel 2000 il consumo saudita pro capite era almeno
del 300% superiore al nostro. Nel 2010, noi siamo scesi a 1,5 milioni
di barili/giorno. Loro nel frattempo da 1,5 sono saliti a 2,8.
Caveat.
Il
dato è meno che omogeneo. Loro hanno pochissimo gas naturale (almeno
in relazione ai liquidi che producono) e dunque usano il petrolio per
fare tante cose diverse dal trasporto (elettricità inclusa) che qui
sono invece fatte con altre fonti, gas sempre più precipuamente
incluso. Proviamo con un dato più omogeneo. L’energia primaria. Il
consumo italiano del 2000 è stato di 176,5 milioni di tonnellate di
petrolio equivalente. Quello saudita di 117,9. Nel 2010 noi eravamo a
172; e i sauditi erano arrivati a 201. C’è chi (leggermente)
contrae; e chi (quasi) raddoppia.
Proviamo
ad applicare a questa progressione un modello business
as usual
(quelli che per definizione non ci azzeccano mai, perchè l’unica
certezza del futuro è che nulla o quasi sarà as
usual;
ma che comunque ti danno una qualche base per ragionarci sopra). Di
questo passo entro il 2030 il consumo interno saudita potrebbe
arrivare a 8 milioni di barili/giorno, grosso modo l’80% della
produzione del 2010. Se non raddoppiano la produzione (auguri),
l’aumento del consumo interno finisce che li erode ben oltre
l’aumento della popolazione. Gli tocca cambiare qualcosa nel
modello; che sennò c’è rischio che non ci siano più revenues
per loro. E neanche petrolio per noi.
Il
saudita magari esagera. Ma il trend è piuttosto generalizzato. Se il
resto dell’area non ha a sua volta raddoppiato, un balzo in avanti
lo ha comunque fatto. Il dato aggregato del Medio Oriente (7,8
milioni di barili/giorno consumati nel 2010) indica un aumento dei
consumi pari a circa il 50% in un decennio. Un tasso non troppo
lontano da quello indiano; e nettamente secondo solo a quello cinese.
In Africa del Nord la cifra assoluta di partenza è molto più bassa.
Ma il trend trova perfetta replica, seppure su volumi assai più
contenuti (il consumo primario algerino nel decennio passa da 26,8 a
41,1 milioni di tonnellate di petrolio equivalente/anno; quello
egiziano da 49,8 a 81; e così in parallelo gli altri).
Dovrei
per finanziare il modello esportare di più. E al netto del
fisiologico declino produttivo dei giacimenti che ho e della
difficoltà crescente di rimpiazzare il vecchio col nuovo, mi capita
comunque che per crescita del consumo interno me ne avanzi sempre
meno da esportare. Sempre meno margine per manovrare (in aumento) sui
volumi. Sempre più speranza che i prezzi si adeguino nel tempo ai
bisogni (del produttore). E sempre più certezza, come la recessione
post-Lehman ha ricordato a tutti, che il prezzo dipende (anche?)
dalla domanda. Il produttore può permettersi una stagnazione, e
senza sommosse, solo se l’economia del consumatore cresce.
6.
Si sono moltiplicati i consumatori. Anche di petrolio. Bisognerebbe
cambiare modello. Ma non ci si riesce. La dipendenza dal suo generare
rendita ha creato assuefazione. E comunque dal modello monoentrata
non si evolve in una notte. E la rivolta è adesso.
Alla
crisi dello Stato rentier
viene così naturale cercare di rispondere con gli strumenti dello
Stato rentier.
Più sussidio. Più consenso. Solo che per farlo ci vorrebbe un
qualche surplus. Il saudita può. E non esita. 36 miliardi di dollari
di spesa aggiunti al budget statale a fine febbraio. A marzo re
Abdullah ne aggiunge altri 130. E a aprile ritocca i salari di
esercito e forze di polizia. I 166 miliardi sono un campionario
dell’economia del sussidio. Edilizia popolare, salario minimo
garantito, sussidio di disoccupazione, bonus aggiuntivi per studenti
ed impiegati pubblici. Loro possono ancora permetterselo. Gli altri
molto meno.
La
stabilità sociale dipende anche dal prezzo del pane. Ma per certo e
per tutti il bilancio statale sta per intero appeso al prezzo del
petrolio. Pensioni e sanità e scuola e prezzo del pane appesi ad
un’esogena. Imprevedibile, incontrollabile, e soprattutto volatile.
Se il prezzo non cresce, la stabilità interna va in pezzi. Già oggi
la stima è che il budget saudita stia in piedi se la media del
barile non scende sotto gli 88 dollari. E la stima al 2015 è che ce
ne vorranno 105. Se vogliono garantire un qualche reddito di
sussistenza alla disoccupazione di massa gli altri, dall’Algeria
all’Iran all’Iraq, non se la possono certo cavare con meno.
Appesi
al prezzo. E sotto la spinta dei baby
boomers ormai
senza margini di manovra. La stessa Arabia Saudita non potrebbe più
permettersi lo swing
degli anni Ottanta. E gli altri non possono che produrre tutto,
maledetto e subito. La dipendenza ha fatto evaporare la possibilità
stessa di una qualche politica. E’ di nuovo volumi
e
prezzi. Negli anni Settanta magari era anche hybris.
Adesso è solo necessità (e istinto) di sopravvivenza.
Guardando
alle proiezioni, e alla possibilità che i consumi d’Occidente
finiscano per stagnare, viene forte il dubbio che la stabilità
mediorientale possa ritrovarsi in questo decennio a dipendere
soprattutto dallo sviluppo che viene dall’Asia. L’unica realtà
geografica in cui riporre speranza di una crescita di domanda che
sostenga i volumi, e perciò anche i prezzi. Se di questi tempi sei
appeso al prezzo, finisce (quasi) inesorabilmente che ti ritrovi
appeso anche alla Cina.
7.
Essere appesi al prezzo gli fa anche promuovere nuovi concorrenti.
Voci d’America, e sempre più energeticamente autorevoli (da ultimo
Yergin), gli stanno sbrigativamente annunciando che il baricentro sta
per cambiare. Non più Medio Oriente e Nordafrica. La
cittadella/epicentro della produzione mondiale trasloca. Da domani, o
al massimo dopodomani, il nuovo regno del petrolio si installa nelle
Americhe. Il Venezuela ha già messo a libro più riserve dell’Arabia
Saudita; and
more to follow.
Strana
minaccia competitiva, quella delle Americhe. L’esercito che mette
assieme, schierandolo da Nord a Sud, non è propriamente d’élite.
Prima
le sabbie canadesi. Ovvero catrame. Petroliaccio biodegradato. In
open
pit
devi tirare su con la ruspa due tonnellate di sabbie per tirarne
fuori un barile di petrolio equivalente. E poi devi rimetter via le
sabbie. O se lo vuoi separare sottoterra e lasciare lì le sabbie ci
devi pompare dentro tanto vapore da non immaginartelo. Comunque il
prodotto poi lo mandi in raffineria, e prima di infilarlo nel barile
ne devi fare petrolio sintetico.
Poi
lo shale
nordamericano. Quello che è rimasto prigioniero in argille
impermeabili. Buchi e non esce niente. Perchè, appunto, è
prigioniero. Gli devi fare a pezzi la prigione. Triturare l’argilla.
Ad ogni buco che fai, deve pompare ad altissima pressione qualche
milione di litri d’acqua per fare a pezzi (“frac”)
la roccia.
A
seguire. Il bitume del Venezuela. Heavy
Oil
e Extra
Heavy Oil,
per essere più professionali. Le riserve che toglierebbero la
leadership ai sauditi. Qualche barile si muove persino da solo, che
sono quelli che hanno estratto fino ad adesso. Il grosso è talmente
pesante e di viscosità tale da avere bisogno di assistenza. O lo
diluisci o lo riscaldi; sennò ti giusto ottura il tubo, e non si
muove.
Il
Deep
Offshore
del Brasile, infine. O, meglio,
Ultradeep.
Petrolio di eccellente qualità. Tanto gas, ma i liquidi in
prevalenza condensati. Leggerissimi e a quanto si capisce
virtualmente privi di zolfo. Il problema è andarli a prendere.
Piazzare un mezzo di perforazione sopra 5000 metri di profondità
oceanica di acqua; e dal fondo del mare scavare altri 5000 metri di
buco per arrivare al giacimento. Costoso, se non altro.
Questa
è l’armata che sfida la leadership. Parrebbe Brancaleone, e invece
è un campionario (quasi) completo di quel che la vulgata chiama
unconventional
oil.
Schierata contro l’armata d’Arabia. Tutta di truppe scelte. O, se
preferite, conventional.
Giacimenti
a terra, profondità mai ultradeep,
nessuna necessità di trasformarli prima di poterli vendere. E’
vero, per prolungargli la vita adesso anche ai conventional
applicano
diavolerie assortite che vanno dalla reiniezione di gas o fluidi per
tenergli su la pressione alla perforazione di pozzi orizzontali per
aumentare l’area utile di contatto col giacimento. Diavolerie che
costano; ma nulla in confronto al costo di (ri)fare petrolio da
catrame e bitume.
Aumentano
i costi di trasporto e di imballaggio del Dono. Però (assai)
differenzialmente. L’unconventional
ti fa sempre più labile la differenza tra l’estrarre ed il
produrre. Il conventional
di
un grande giacimento tenuto su di pressione o raggiunto in
orizzontale è giusto petrolio preso in un magazzino più remoto.
La
differenza di costo è evidente. Il costo di produzione del
conventional
è
mediamente una frazione del costo di produzione di quell’altro. No
match,
verrebbe da dire. Se scoppia un’altro Lehman e il petrolio va sotto
i quaranta dollari produrre conventional
continua
ad essere (mediamente) economico e produrre unconventional
(mediamente) no. Se la domanda contrae, il petrolio arabo si salva.
Forse
il petrolio sì, ma l’arabo no. Il break
even
del produttore non è basato sul costo di produzione, ma sul costo
sociale. Insomma sulle esigenze del budget statale (chi volesse
vedervi una qualche analogia tra meccanismi di costo dello Stato
rentier
e
meccanismi di costo del kombinat
sovietico è libero di sbizzarrirsi). La tensione sul prezzo rimette
in gioco chi economicamente ne sarebbe fuori. L’unconventional
delle
Americhe si è sviluppato anche quando la domanda si contraeva. E’
la ripetizione della lezione degli anni Ottanta. A 1,80 dollari a
barile nessuno si sarebbe sognato di produrre off-shore
dal Mare del Nord (tranne marginalissimi casi). A 10 erano già in
fila; e a 34 l’Alaska era diventata Bonanza. La frontiera
dell’unconventional,
per le modalità che la rendono economicamente accessibile, è il
Mare del Nord di adesso; però con riserve di una qualche potenza più
grandi.
Sono
diventati troppi per riuscire a sussidiarsi. E hanno cominciato a
usarne troppo per essere sicuri di avanzarne abbastanza per il
sussidio. Tutti a fare il tifo per il prezzo. Per poi accorgersi che
il prezzo che sale stimola pensieri e produzioni unconventional
(per non dire di quelle alternative). Donde il dilemma prossimo
venturo del
rentier.
Se tira il prezzo stimola la sostituzione del Dono; se non lo tira
stimola la sostituzione di se stesso. Abituiamoci, se ancora non
l’abbiamo fatto, alla volatilità. E anche all’idea che per il
rentier
i 100 dollari a barile non sono ricchezza. Sino a quando non gli sarà
riuscito di assorbire il baby
boom,
i 100 dollari rischiano di essere giusto la condizione della
sopravvivenza. Poi magari se il prezzo funziona e la crescita
demografica va in negativo finisce pure che un qualche rentier
ti sopravvive. Arrivederci al prossimo decennio.
8.
La parabola dello Stato
rentier.
E tre idee che potrebbe farti frullare per la testa.
La
prima è che se il produttore è un
rentier
la sicurezza energetica è anzitutto un suo problema di politica
interna. Chi smette di vendere muore. E se smettono di vendere è di
regola perchè guerra o rivolta sociale gli hanno bloccato
(temporaneamente) i terminali.
La
seconda è che (con la grandissima eccezione degli Stati Uniti)
sedere sul petrolio fino ad oggi ha portato fortune più che fortuna.
O per dirla diversa (e reiterando l’eccezione) che sino ad oggi
conosciamo un unico modello di sviluppo basato sul petrolio che abbia
avuto successo. Quello dei consumatori.
L’ultima
è la più scontata. La rivolta araba è anche il segnale che il
modello è consunto. Le sue dinamiche interne di evoluzione e
l’evoluzione stessa del mercato energetico sembrano segnalare una
fine vicina (seppure magari non imminente). Bisognerebbe trovare per
tempo un modo per riavviare la possibilità di una politica. Della
scelta di un tasso di sconto e progressivamente di un diverso modello
di sviluppo. Facile, ed ecumenico. Però già aiuterebbe se intanto
l’Occidente o la Cina investissero sull’idea che il migliore modo
per sedare la propria dipendenza dal petrolio consiste nel diminuire
la loro.