venerdì, dicembre 30, 2011

World Energy Outlook 2011: cosa c'è di nuovo?


Di Francesco Aliprandi


La IEA pubblica dal 1993 dei report annuali contenenti proiezioni a medio e lungo termine sull'andamento mondiale del mercato dell'energia; anche questa edizione come la precedente si sofferma su tre scenari, uno denominato standard ("BAU") e altri due definiti "nuove politiche" e "450"; il primo è in relazione a impegni politici - sebbene solo formali - presi dalle nazioni per affrontare i problemi energetici e ambientali, il secondo deve il nome alla concentrazione massima in ppm di CO2 atmosferico che dovrebbe permettere di non superare tramite opportune azioni volte a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Gli approfondimenti riguardano le prospettive energetiche in Russia, il mercato del carbone - domanda, offerta e investimenti - e alcuni argomenti speciali: le prospettive del nucleare nel dopo Fukushima  e i sussidi alle varie forme di energia.




"Se non cambi direzione, non puoi che finire dove sei diretto" 

La domanda di energia dopo un 2009 fiacco rimbalza nel 2010 di un 5% e l'intensità energetica peggiora per il secondo anno consecutivo, portando le emissioni di CO2 a un nuovo record; le incertezze a breve termine causate da una crisi economica perdurante non cambiano il quadro generale, che vede una crescita della domanda di energia, del GDP e della popolazione fino al 2035. L'aumento dei costi nell'upstream conferma la fine del petrolio a basso costo (il famoso cheap oil), mentre per il gas naturale è prevista una nuova età dell'oro e il destino del carbone dipende dalle scelte politiche che verranno (o non verranno) prese.




Se nel report 2010 il picco del petrolio si era meritato addirittura un intero riquadro in evidenza, questa edizione nemmeno lo cita: fino al 2035 la produzione "all liquids" cresce senza sosta, e l'estrazione di greggio raggiunge i 72 mbpd. Beninteso, ammesso che si scovino da qualche parte 47 mbpd per compensare il declino dei giacimenti esistenti.


Produzione mondiale nel 2035 secondo lo scenario "BAU" in mbpd. Errori di arrotondamento presenti nel testo.

Dato che anche indossando le più rosee delle lenti non si possono prevedere nuovi mari del Nord o Arabie Saudite comodamente trivellabili, altre fonti dovranno compensare: unconventional (non solo oil sands ma anche petrolio da kerogene, ultrapesante, Coal To Liquids e Gas To Liquids), liquidi derivati dall'estrazione di gas naturale e biocarburanti. Vale la pena notare che nello scenario "450" da questi ultimi dovrebbero arrivare addirittura 7.8 mbpd.

Un riquadro in evidenza informa sul nuovo arrivato, il "light tight oil" - corrispettivo geologico dello shale gas - che è divenuto economicamente attraente grazie ai miglioramenti tecnologici e all'innovazione industriale. Leggendo con attenzione si scopre che la produzione per pozzo è bassa e declina molto rapidamente, per cui basta un mese di maltempo che impedisca o rallenti i lavori di trivellazione di nuovi pozzi per avere un calo nell'output. Il prezzo di pareggio per questa attività estrattiva è attorno ai 50$ al barile.



A tutto gas

Indipendentemente dalle scelte future il gas naturale peserà sempre di più nella bilancia energetica dei vari paesi; la percentuale di produzione di tipo unconventional a livello mondiale (shale gas e coalbed methane) sale al 22% dal 13% del 2009, ma negli USA ad esempio arriva al 64%, non potendo più a quel punto essere definita "non convenzionale". Per il resto le proiezioni del WEO 2011 sono meno estreme di quelle presentate nello speciale di Giugno "Are we entering a golden age of gas?", nel quale si prospettava una crescita della domanda del 2% annuo, fermandosi ad un più contenuto +1.7% da qui al 2035.


1980200920152020202520302035Incremento annuo
Russian.d.5726796927798228581.6%
Cina14851351762122522904.8%
Iran41371371511651952251.9%
Qatar3891601741802052193.5%
Algeria13781071341471601713.1%
Australia947781201311441584.8%
Turkmenistann.d.387189981091204.5%
India2466378911051203.7%
Nigeria223405675911106.2%
Alcuni dei principali produttori mondiali di gas naturale; valori annui espressi in bcm.

La maggior parte della domanda futura proviene dal settore elettrico, grazie alla maggiore efficienza - e ora anche flessibilità - delle centrali a ciclo combinato, che permettono di seguire meglio la variabilità delle richieste dell'utenza e ampliano le possibilità di integrare l'energia generata da fonti rinnovabili; l'altro settore che vede un grosso aumento della richiesta di gas naturale è quello civile, per riscaldamento degli ambienti e dell'acqua: si pensi infatti che oggi solo il 10% delle abitazioni cinesi ha accesso alla rete del metano, e sono in atto politiche incentivanti per promuoverne l'uso in modo da diversificare il mix energetico e abbattere l'inquinamento atmosferico.


Elettricità e rinnovabili

Nel 2035, secondo lo scenario "BAU", il mondo avrà bisogno di 39368 TWh di energia elettrica; circa il 60% degli impianti oggi in funzione o in costruzione saranno ancora operativi per quella data, quindi anche le emissioni di CO2 sono già oggi determinate a meno di azioni politiche che impongano chiusure anticipate o retrofitting delle centrali esistenti (ad esempio con tecnologia CCS). Il documento WEO prevede per la potenza aggiuntiva che verrà allacciata alla rete nei prossimi anni una fortissima componente derivante da fonti rinnovabili: il 60% nei paesi OECD, circa la metà negli altri; il peso sulla produzione di energia elettrica è però molto inferiore a causa del basso fattore di capacità, problema testimoniato dall'ammissione che sarà necessario 1 MW da impianti flessibili ogni 5 MW di rinnovabili; i costi aggiuntivi per l'integrazione delle energie alternative sono notevoli, variando da 5 a 25 $/MWh, suddivisi in costi di integrazione della rete di trasporto e distribuzione, costi operativi di bilanciamento e costi dipendenti dalla capacità aggiuntiva necessaria per soddisfare la domanda anche in caso di mancata produzione da rinnovabili.



Cambiamenti climatici e scenario "450"

Un'analisi dettagliata rivela che l'80% delle emissioni di biossido di carbonio dello scenario "450" deriva da impianti già esistenti; in mancanza di azioni urgenti e incisive basteranno altri 6 anni al ritmo di crescita attuale per arrivare al limite superiore, e a quel punto per centrare l'obiettivo di contenimento ogni ulteriore impianto dovrebbe essere di tipo carbonio neutrale, una prospettiva costosissima e probabilmente impraticabile dal punto di vista politico.

Nel rapporto viene ipotizzato che diverse nazioni applichino delle misure atte a ridurre le emissioni; ordinando i risultati ottenibili si vede che le dieci misure più incisive comportano il 54% della riduzione, e le prime cinque il 42%. Va anche sottolineato che fra queste ultime ben tre sarebbero a carico della Cina e una dell'India.



L'energia che viene dall'est

Tre capitoli sono dedicati alla Russia: nel 2010 è stato il primo paese produttore di petrolio, il più grande estrattore ed esportatore di gas naturale e il quarto consumatore di energia (alle spalle di Cina, USA e India).

Possiede il 13% delle riserve di petrolio, il 26% del gas e il 18% del carbone, ma molti giacimenti si trovano in zone dal clima molto rigido: un esempio per tutti è il mega giacimento Shtokman, nel mare di Barents, che dovrebbe iniziare a produrre entro la fine del decennio in corso. La produzione di petrolio rimarrà quasi stabile scendendo a poco meno di 10 mbpd, mentre l'estrazione di gas naturale passerà dagli attuali 637 a 858 bcm; vale la pena notare che per quanto riguarda il gas riserve consistenti sono già note anche se non sfruttate, mentre circa un terzo della produzione di petrolio nel 2035 dovrebbe provenire da giacimenti ancora da scoprire.


Risorse provateURRProduzione cumulativa
Petrolio
(Miliardi di barili)
77480144
Gas
(Trillion cubic meters)
2612721
Riserve di petrolio e gas naturale in Russia; 1bcm = 0.001 tcm = 0.82 Mtoe


La competizione fra Europa e Cina è un argomento importante. Il gas russo continuerà a essere venduto con contratti a lungo termine e utilizzando gasdotti, per cui i problemi fisici di una eventuale diversione dei flussi si sommano a considerazioni economiche che rendono poco plausibili i cambiamenti in corsa; d'altra parte la maggior parte dei giacimenti destinati al mercato cinese si trova nella Siberia orientale, ma essendo costosi da mettere in produzione e separati dalle infrastrutture esistenti la Russia punta intanto sul gasdotto Altai, 2600 km colleganti entro il 2015 il cuore delle riserve russe (Urengoy, Yamburg, Zapolyarnoe) alla Cina, obbligandola così a pagare un prezzo simile a quello praticato sul mercato europeo.

Nel medio e lungo periodo è probabile che il confronto fra Cina ed Europa avverrà sul piano politico ed economico con azioni volte a promuovere lo sfruttamento di giacimenti e lo sviluppo infrastrutturale in alcune zone piuttosto che in altre.



Carbone: lascia o raddoppia?

Con circa mille miliardi di tonnellate in riserve accertate - equivalenti a circa 150 anni al consumo attuale - il carbone rappresenta di gran lunga l'idrocarburo più abbondante e allo stesso tempo quello al quale si rivolgono maggiormente le economie emergenti a causa del suo basso costo. Nell'ultimo decennio più dell'80% dell'aumento della domanda di carbone è venuto dalla Cina, che nel 2010 da sola ha rappresentato il 47% della richiesta mondiale, mentre nel medesimo periodo l'India si è confermata al terzo posto, alle spalle degli Stati Uniti, e per il futuro le previsioni vedono Cina e India coprire i due terzi dell'aumento di domanda fino al 2035; nei paesi OECD invece, anche nello scenario "BAU", si prevede al più un leggero aumento del consumo fino al 2020 per poi tornare ai livelli attuali dopo altri quindici anni.


I paesi con le maggiori riserve di carbone (fonte BP Statistical Review of World Energy 2011)
Le politiche ambientali ed energetiche possono decidere delle sorti del re carbone, tramite l'adesione a rigorosi protocolli internazionali di abbattimento delle emissioni di CO2 e l'utilizzo di centrali di ultima generazione ultra-supercritiche piuttosto che l'uso di sussidi per mantenere bassi i prezzi dell'elettricità e favorire le industrie nazionali.



Ridimensionamento nucleare

Il disastroso tsunami che ha colpito il Giappone in Marzo e danneggiato seriamente 4 reattori a Fukushima ha riaperto le discussioni sulla sicurezza delle centrali atomiche, arrestando i proclami di "rinascita nucleare" che da qualche tempo si udivano con sempre più frequenza: per questo motivo è stato inserito uno speciale scenario "450 Low Nuclear" che mantiene immutato l'obiettivo da centrare per il 2035 riguardo le emissioni, ma assegnando una percentuale inferiore all'energia elettrica proveniente da centrali termonucleari.

La trasformazione richiesta nel settore elettrico è ancora più ambiziosa di quella ipotizzata nello scenario "450": la produzione di elettricità da centrali alimentate a idrocarburi scende dal 67% nel 2009 al 38% nel 2035, per quelle nucleari si dimezza dal 13% al 7%, la potenza installata in fonti rinnovabili raggiunge i 6000 GW, la tecnologia Carbon Capture and Storage è applicata su larghissima scala (820 GW). Seguire questa strada sarebbe non solo costosissimo - 1500 miliardi di dollari in più rispetto allo scenario "450", che a sua volta ne prevede 15000 in più rispetto a quello "nuove politiche" - ma dipenderebbe anche dal raggiungimento di risultati eroici nell'impiego di tecnologie a basso tenore di carbonio che non sono ancora state dimostrate.



Un confronto col passato

Per concludere, nella tabella sottostante sono confrontate alcune grandezze degli ultimi tre rapporti.


Domanda di energia nel 2030 (Mtoe)Energia elettrica generata nel 2030 (TWh)Crescita annua del GDP fino al 2035Crescita annua della popolazione fino al 2035Prezzo del barile nel 2035 (attualizzato)Prezzo del barile nel 2035 (nominale)
WEO 200916790342923.1%1.0 %115189.65
WEO 201016941347163.2%0.9%113204.1
WEO 201117173354683.6%0.9%140247.2
Riferimento 200912132 (+42%)20043 (+77%)
Le caselle con fondo verde si riferiscono a proiezioni al 2030. (Sì, nel WEO 2009 c'erano veramente due cifre significative dopo la virgola nelle previsioni di prezzo al 2030.)

mercoledì, dicembre 28, 2011

Pane e Petrolio

Di Massimo Nicolazzi


Tratto da Limes 6/2011

Sommario: Le rivolte arabe segnalano la crisi dello Stato rentier, in cui la rendita sostituisce il reddito. L'esempio saudita. Alla radice, la crescita demografica. Più consumi interni e meno export producono instabilità. Una lezione per Occidente e Cina.

1. Dici arabo e magari pensi al pane. Però anche, e forse più spesso, al petrolio. Il prezzo del pane che aumenta ti fa partire la rivolta tunisina. In Arabia Felix e possibilmente altrove il prezzo del petrolio che sale o almeno tiene la rivolta dovrebbe impedirla, o almeno attenuarla. Il pane arabo è fatto col petrolio, o quasi.
In qualche caso oltre al pane ci fanno anche il companatico. In Medio Oriente è palmare. L’Arabia Saudita, anzitutto. L’80% delle entrate fiscali è generato dal settore idrocarburi, che vale da solo il 45% del PIL, e che vale anche il 90% del valore totale delle esportazioni. In Iran (che non saranno arabi, ma con buona pace di Huntington arabi e ariani sono almeno a qualche effetto assimilabili; e a fini di pane e petrolio li terrò assimilati) gli idrocarburi contano per oltre il 50% del budget statale; in Iraq per il 90%; e così a seguire via Kuwait ed Emirati.
Qualcuno la definisce maledizione del petrolio. Curse of oil. E’ l’equivalente macroeconomico del vincere la lotteria. Difficile che chi vince il superenalotto sia preso da un’irrefrenabile bisogno di lavorare sodo e subito. Difficile che chi scopre il dono di Natura di una cornucopia di risorse sia colto dall’ansia di produrre altro. Inutile ironizzare sul clima o teorizzare di civiltà (magari usando il termine come sinonimo inconfessato di “razza”). Capita ovunque e a chiunque. Quando in Olanda scoprirono Groeningen, che poi è uno dei più grandi giacimenti di gas d’Europa e produce ormai da cinquant’anni, gli successe la stessa cosa. Monocultura dell’idrocarburo, e il resto dell’economia tra chiusura e recessione. L’economista politically correct da allora evita curse of oil. Dutch disease è piu’ educato. Financo gentile.
Chiamatelo come preferite. Il fenomeno, se pur con varianti infinite, è abbastanza semplice. Madre Natura, dopo gravidanze in media di qualche milione di anni, ha generato varie discendenze di idrocarburi. Dopo averle generate se le è tenute in pancia; o meglio, per transire dall’anatomia all’economia, ce le ha tenute in deposito. Il petrolio non si “produce”, ma giusto lo si “estrae” dal suo magazzino naturale. La “produzione” in senso proprio e qualche milione di anni di stoccaggio sono economicamente un regalo (le esternalità, if any, sono qui intenzionalmente omesse).
Chi trova petrolio riceve in regalo una “merce”; o comunque un prodotto che gli è trasferito senza costi di produzione e/o magazzino. Svuota, appunto, il magazzino; e vende quello che ci trova. Nessuna meraviglia che il petrolio possa insieme costare pochissimo (fino all’inizio degli anni Settanta dell’altro secolo poco più di un dollaro a barile) e garantire rendite imponenti a chi ne ha e/o produce.
La rendita. Una fonte di energia fossile è un mezzo per produrre energia, o comunque (in senso lato) uno “strumento” di produzione, più che un” prodotto”. Nelle storia è pure successo che ad uso medicinale te ne prescrivessero anche “three teaspoons three times a day”, e pure per via orale; ma di regola il petrolio non si beve, siccome il carbone non si mangia. Il petrolio lo si raffina e si trasforma per farne prodotti che servono a produrre. Carburante per le nostre gomme, o fertilizzante per l’agricoltura, o materia prima per plastiche, o quanto e tanto altro.
Trovi il petrolio dentro un territorio altrimenti dotato dei rudimenti di un’economia e un assetto sociale “moderni” (nel significato corrente dell’Occidente, e absit giudizio di valore), e sai cosa farne. Se hai un apparato produttivo (fabbriche e mercati collegabili con infrastrutture di trasporto e agricoltura meccanizzabile e quant’altro) e ti abbonda un mezzo (straordinariamente efficiente) di produzione sai come impiegarlo. La rendita del Dono fossile la reimpieghi direttamente nel processo produttivo. Elettricità per produrre merci e servizi; e carburante per muoverli; e fertilizzanti e trattori per alimentare quell’altro fattore di produzione (il lavoro) con sempre più pane prodotto da sempre meno uomini. La rendita si trasforma in un minore costo di produzione del prodotto finale. E il produttore ne fa leva per candidarsi a leadership internazionale (non solo commerciale e/o industriale). Per riferimenti, rivolgetevi all’Inghilterra carbonifera del XIX secolo o alla leadership petrolifera americana del XX (nell’immediato dopoguerra, il 60% del petrolio prodotto al mondo era ancora estratto negli Stati Uniti).
La rendita puoi però anche usarla semplicemente come rendita, e tale ti resta. In terminologia moderna significa di regola “convertirla” in spesa pubblica. Improduttiva. Vendo il petrolio e uso il ricavato per sussidi, pensioni e indennità varie. La tentazione può prenderti anche se sei “moderno”. Dutch disease. O se serve un altro esempio, la politica laburista inglese ai tempi delle grandi scoperte nel Mare del Nord. Tassazione dei profitti petroliferi oltre il 90% di aliquota e social welfare senza limiti. Il petrolio usato quasi per ironia per sussidiare anche i minatori del carbone. Da chiedersi quasi se senza il petrolio laburista la Thatcher avrebbe mai trionfato.

2. La tentazione è forte se il petrolio lo trovi in un tessuto connettivo “moderno”. Irresistibile se lo trovi nel deserto. Inevitabile se nel deserto lo trova qualcun altro. Per decenni e quasi un secolo, la storia del petrolio fuori d’America è (al netto della Russia) una storia dell’espansione petrolifera occidentale. Pochissimo inglese e tantissimo americana. Dalla prima concessione iraniana del 1901 alla trasformazione nel dopoguerra dei giacimenti sauditi nella cinquantunesima stella americana lo schema è lo stesso. Il petrolio è tutto per me e per il mio apparato economico (e militare). E con lui mi porto via la sua rendita; al netto di una qualche royalty (nel 1901 si comincia con il 16% neanche delle revenues ma dei profitti) che lascio nel paese a titolo poco più che di disturbo. La rendita del produttore confluisce quasi per intero, riducendolo, nel costo di produzione del consumatore. Affitto il terreno a prezzi di pascolo; lo coltivo intensivo a frumento; e sul posto non lascio neanche una spiga, che da me il pane bianco si vende caro. Costa meno di un’occupazione militare; e rende infinitamente di più.
Per anni, il tema per i produttori arabi non è perciò come impiegare la rendita, ma (analogamente all’esperienza precedente dei produttori centro e sudamericani) come trattenerla. E poi, in progresso di tempo, come trattenerne sempre di più. Escludendo l’Occidente dal produrre o quantomeno convertendo la rendita sua e delle sue imprese entro i limiti di un normale profitto industriale.
Missione compiuta (o quasi) negli anni Settanta del Novecento. Tra le crisi (o presunte tali) del 1973 e del 1980. In parte per via di nazionalizzazioni. Il terreno non lo affitto più e me lo coltivo io. In parte per revisione radicale dei rapporti con le società petrolifere d’Occidente. La vecchia royalty si converte in strumenti di controllo e programmazione del ritorno sul capitale investito. Il che ad ammortamento avvenuto può consentire al paese di trattenersi anche più del 90% del profit. Via nazionalizzazioni o revisioni, la rendita resta infine laddove si produce.
Insieme succede altro, e forse di più importante. Si appropriano della rendita. Ma anche e in parallelo revisioni e nazionalizzazioni li mettono in grado di controllare la produzione. Come si sviluppa un giacimento, insomma i tempi della semina e del raccolto, diventa decisione del paese produttore e non più dell’impresa. Sono in grado di controllare i volumi; e quindi potendo modulare l’offerta sono o quantomeno si sentono in grado di modulare anche i prezzi. Si sono impadroniti della rendita (quasi) per intero; e adesso potrebbero essere anche in grado di programmarne il valore. Se davvero si può agire su volumi e prezzi, una politica diventa possibile.
Volumi o prezzi. Massimizzare la rendita ricavabile nell’immediato, producendo il più possibile il più velocemente possibile. O distribuire nel tempo, riservando una quota del producibile al futuro. Una politica delle risorse è in ultima istanza la scelta politica di un tasso di sconto. Il tasso di sconto come misura di quanto petrolio mi conviene produrre subito e quanto lasciare in sottosuolo. Se sconto basso, ne salvaguarderò per le generazioni future; e se sconto alto mi converrà produrre tutto il producibile. Se sconto alto difendo i volumi; e se sconto basso col deprimere l’offerta difendo i prezzi.
Tra il 1973 e l’inizio degli anni Ottanta fare politica, e dunque scegliere, gli pare possibile. Però si dimenticano che esiste anche la domanda, e che non è scontato che la domanda sia sempre crescente. E dunque si mettono a difendere insieme volumi e prezzi. La cavalcata è straordinaria e apparentemente inarrestabile. Un barile di petrolio nel 1971 aveva un posted price di un dollaro e ottanta, e buona parte della sua rendita finiva a occidente. Nel 1980 siamo a trentaquattro dollari; e la rendita è trattenuta laddove si produce. La domanda però reagisce. Il consumatore si mette a giocare con i volumi. Non solo nuovi giacimenti altrove (dal Mare del Nord all’Alaska), ma anche cambio di fonti energetiche e inizio del risparmio. I consumi non crescono più. E nel 1988 il prezzo è tornato sotto i 13 dollari e mezzo. E’ la prima lezione. Il petrolio è difficilmente rimpiazzabile con altro. Ma difficile non vuole dire impossibile. Più il prezzo corre, e più il produttore rischia di scoprire che il petrolio è un bene fungibile. Qualunque sia la politica, gli andamenti del prezzo non possono rendersi estranei alla logica di domanda e offerta.
Succede in parallelo un’altra cosa. A provarsi a fare politica non sono i produttori, ma in realtà solo uno. Lo swing producer. L’Arabia Saudita. E’ l’unica all’inizio degli anni Ottanta a tagliare davvero i volumi per difendere i prezzi. Da 12 milioni giorno scende sino a 2,5; e poi, stanca di essere l’unica a tagliare in un’Opec dove tutti gli altri tendono invece a pompare in eccesso, decide di mollare i prezzi e far cassa con i volumi. Passa a 6 milioni di barili giorno in pochissimo. Il prezzo arriva temporaneamente sotto i dieci dollari, ma giusto o sbagliato il messaggio fa la storia. L’Arabia Saudita è l’unico elemento di bilanciamento del sistema. L’unico produttore “indispensabile”.

3. Tra il 1973 ed il 1980 si compie la conquista della rendita. Adesso la si può usare. La scelta è unanime. La rendita resta rendita. Il dibattito in ipotesi virtuoso su tasso di sconto e salvaguardia delle generazioni future non può nemmeno incominciare. Il produttore arabo ha priorità diverse. C’è da pensare all’immediato della stabilità politica e dell’ordine sociale.
La rendita non confluisce in un costo di produzione, lasciando poi alla produzione di generare reddito. La rendita non alimenta il reddito. La rendita lo sostituisce. Sostituendo il gettito petrolifero alla tassazione ordinaria come forma e fonte principale delle revenues statali; ed alimentando direttamente élite e masse.
E’ il modello dello Stato rentier. O se preferite dell’economia del sussidio. La ricchezza petrolifera redistribuita direttamente in forma di aiuto anzichè trasformata in fonte (mediata dal processo economico) di salario. Col risultato di soffocare l’incentivo allo sviluppo di altro, e di rendere la sussistenza interna sempre più dipendente dal fluire regolare della rendita. E’ la normalità della stagnazione.
Il circolo élite/masse ne è interamente e viziosamente alimentato. In un modello politico dove è men che netta la distinzione tra risorse statali e risorse delle famiglie o tribù o individui che lo Stato governano la rendita è alimento diretto della ricchezza delle élite. E però è anzitutto anche fonte della loro legittimazione. E base del loro consenso. Nell’economia del sussidio le élite giustificano la propria ricchezza elargendo sussistenza (di cui l’ipertrofia del pubblico impiego è elemento comunque compresente). E però al contempo dipendono dalla possibilità di continuare a garantire la sussistenza per la loro stessa sopravvivenza in quanto leadership, quando non anche per la propria sopravvivenza fisica.
La stabilità del regime è predicata sulla stabilità della rendita. Il petrolio è la priorità della politica interna. Ex bitumine imperium. Ex bitumine panem. Se preferite, curse of oil.
Sembra brutto. Però ha retto. Dal 1980 a questa primavera per far saltare un regime c’era voluta un’invasione. Gli altri, con poche eccezioni, belli e stabili; e con l’eccezione confessionale iraniana anche tendenzialmente quando non istituzionalmente ereditari. Se la distinzione tra bilancio statale e ricchezza familiare si fa labile, e sei il più potente solo se sei anche il più ricco, l’esito ereditario è quasi fisiologico.
Poi da primavera scossoni dappertutto. Regimi che saltano e altri che restano, ma anche loro un poco scossi. Le forme nazionali sono diverse. E coinvolgono anche paesi che hanno mutuato l’economia del sussidio pur non essendo grandi produttori in proprio. Magari percepisco male. Ma per come ce la raccontano e vista da lontano sembrerebbe comunque che quelli che non ne hanno (Giordania e Marocco, per non fare nomi) siano stati attraversati da minor sconquasso sociale. Meno Dono, meno maledizione. E però anche altra conferma che tra i motori della rivolta araba c’è anche la crisi del modello rentier. Negli ultimi trenta/quarant’anni qualcosa deve essere cambiato. E forse non è giusto il crescere di fame di democrazia e libertà.

4. Un primo e trascurato cambiamento degli ultimi quarant’anni è che adesso le masse sono cresciute. Proprio in senso demografico. I cittadini del produttore nel crescere si sono moltiplicati. L’alimento rendita ha alimentato tanto la fertilità che l’aspettativa di vita.
I sauditi vi paiono comunque spopolati, che è tutto deserto. Però una cosa è la densità per metro quadro e un’altra il ritmo riproduttivo. Nel 1970 i sauditi erano 5,7 milioni; nel 1980 9,6; e quest’anno più che 27. In Iran erano 28,5; poi 39 e adesso più di 75 milioni. In Iraq poco più di 10, e poi di 14, e adesso di 31. Non ti cambia di molto in Nordafrica. In quarant’anni l’Algeria è passata da 13 a quasi 37 milioni di abitanti; la Libia da meno di due a quasi sette; l’Egitto (che è stato un esportatore magari solo marginale, ma ha comunque sviluppato una sua variante dell’economia del sussidio e si ritrova ora aggravato dall’essere avviato a diventare strutturalmente importatore) è passato da 35 milioni di persone a più di 80.
La progressione non è costante, ed anzi ha decelerato bruscamente nell’ultimo decennio. I numeri dei tassi di fertilità sono evidenti. La leadership è ormai saldamente africana. I produttori, non appena la rendita ha consentito di sussidiare altro che non fossero le calorie necessarie alla sopravvivenza, hanno abbattuto i ritmi. Su scala magari in alcuni luoghi minore, ma anche qui si è andata confermando la lex aurea dell’Occidente. La crescita demografica come funzione inversa del benessere economico (non a caso, il primo paese non africano oggi in classifica per tasso di fertilità è l’Afghanistan, 13° assoluto con un tasso del 5,9%). Però sino ad una decina di anni or sono ci andavano spediti. Tassi di crescita della popolazione che superavano il 3% all’anno. E tassi di fertilità elevatissimi. Nel 1970 in molti Paesi (Libia, Algeria, Arabia Saudita...) il tasso di fertilità era sopra il 7%. E vent’anni dopo (Arabia Saudita e Iraq su tutti) era ancora sopra il 5%. Oggi siamo qualche volta addirittura in decrescita (1,75 in Algeria e 1,88 in Iran) e generalmente verso crescita zero. Il che è di regola anche un indice positivo di evoluzione della condizione femminile; però non modifica nell’immediato l’emergenza demografica. Chi è nato nel 1990 ha vent’anni adesso.
L’età media della popolazione italiana è di oltre 43 anni. A casa dei produttori siamo di regola tra i 25 ed i 27, con l’Iraq che fa addirittura 18,2 (e mantiene il primato regionale del tasso di fertilità, con il 3,67). Una volta avresti potuto dire che era tutta questione di aspettativa di vita; insomma che l’età media era molto più bassa giusto perchè morivano molto prima. Adesso la forbice dell’aspettativa di vita si è molto ridotta e la differenza di età media è marcatamente inflenzata dall’andamento demografico.
I baby boomers della rendita hanno dai venti (e anche meno) ai quarant’anni. E adesso vanno e contemporaneamente tutti in scena, a sgomitare per pane e lavoro e un’idea di futuro per sé e per i propri figli. Fuor di sussidio non trovano nulla, o molto poco.
Prima della rendita e del boom in qualche pezzo di Nordafrica si riusciva a sussistere di agricoltura. Adesso è esplosa la popolazione e sono crollati gli addetti. La terra coltivabile si restringe e il cibo passa a sua volta sulla bolletta delle importazioni. L’Algeria, che una qualche tradizione agricola ce l’aveva, importa la maggior parte del cibo che consuma; e gli altri anche peggio. Si esporta petrolio anche per pagare il frumento che si importa. Il resto è grande conurbazione. Le braccia si sono moltiplicate, e fuor di pubblico gli impieghi tradizionali si sono ristretti e quelli nuovi sembrerebbero di là da venire. Se spendi la rendita anzichè usarla puoi giusto convertirla nelle sue istituzioni. Urbanizzazione, impiego pubblico e sussidio.
Nell’altro secolo questo pianeta, nonostante il contributo di due guerre mondiali e di qualche migliaio di conflitti, è passato ad ospitare da poco più di uno a oltre sei miliardi di abitanti umani, e in parallelo il reddito pro capite individuale, l’aspettativa di vita e il cibo individualmente disponibile sono aumentati. Senza le applicazioni dei combustibili fossili (dall’energia elettrica ai fertilizzanti agricoli alla locomozione a quant’altro) questo ritmo di sviluppo non ce lo saremmo neppure immaginato. E’ stato possibile perchè il Dono è stato utilizzato, ed utilizzato come motore anche di innovazione e strumento di creazione di valore aggiunto. Come strumento che ha reso possibile aumentare la ricchezza del mondo più che proporzionalmente all’aumento della popolazione (in maniera poi non esattamente egualitaria, ma non è questo qui il punto).
Lo Stato rentier non usa il Dono. Lo consuma. Se gli aumentano i sussidiati non può sperare nell’innovazione o in qualche altra diavoleria per moltiplicare produzione e revenues. Può solo sperare che siano rimasti sotto l’albero dei doni non (ancora) visti; o che una qualche congiuntura gli faccia schizzare il prezzo. Sapendo che produzione e prezzi non aumentano di regola come funzione della popolazione, e che se non è saudita non ha margini per giocare in proprio con volumi e prezzi. L’esplosione demografica ti revoca in dubbio la capacità di poter garantire il pane; e con ciò anche la sopravvivenza dello Stato rentier nella sua forma corrente.

5. Non solo sono diventati tanti. Si sono pure messi a consumarlo a casa loro. Più la popolazione cresce e più bisognerebbe esportare per sussidiarla. Però anche più cresce e più ne abbisogna per sé e a casa propria. E a volte l’economia del sussidio persino te lo incentiva, il consumo interno (un esempio al limite del paradosso è il sussidio iraniano ai consumi privati di benzina per autotrazione). Metti insieme il bisogno di esportazione con quello di consumo interno, e la crescita della domanda te la puoi raffigurare esponenziale. L’offerta, ovvero la produzione, in molti casi non può crescere neanche linearmente; ed è tanto se non declina già nel breve. Lo Stato rentier si infila in una sorta di variante energetica della trappola malthusiana. In alcuni casi persino con entusiasmo.
Forse non bisognerebbe usare l’Arabia Saudita come paradigma. Sono troppo ricchi e troppo pochi e troppo pieni di petrolio. Magari. Però non sono più pochissimi. E non hanno alcuna certezza (al di là dei proclami) di poter aumentare la capacità di produzione corrente. Non saranno un paradigma; però sono un esempio.
Nel 2000 consumavano internamente circa un milione e mezzo di barili/giorno. Noi in Italia quasi due milioni. In teoria il dato mi direbbe che già nel 2000 il consumo saudita pro capite era almeno del 300% superiore al nostro. Nel 2010, noi siamo scesi a 1,5 milioni di barili/giorno. Loro nel frattempo da 1,5 sono saliti a 2,8. Caveat. Il dato è meno che omogeneo. Loro hanno pochissimo gas naturale (almeno in relazione ai liquidi che producono) e dunque usano il petrolio per fare tante cose diverse dal trasporto (elettricità inclusa) che qui sono invece fatte con altre fonti, gas sempre più precipuamente incluso. Proviamo con un dato più omogeneo. L’energia primaria. Il consumo italiano del 2000 è stato di 176,5 milioni di tonnellate di petrolio equivalente. Quello saudita di 117,9. Nel 2010 noi eravamo a 172; e i sauditi erano arrivati a 201. C’è chi (leggermente) contrae; e chi (quasi) raddoppia.
Proviamo ad applicare a questa progressione un modello business as usual (quelli che per definizione non ci azzeccano mai, perchè l’unica certezza del futuro è che nulla o quasi sarà as usual; ma che comunque ti danno una qualche base per ragionarci sopra). Di questo passo entro il 2030 il consumo interno saudita potrebbe arrivare a 8 milioni di barili/giorno, grosso modo l’80% della produzione del 2010. Se non raddoppiano la produzione (auguri), l’aumento del consumo interno finisce che li erode ben oltre l’aumento della popolazione. Gli tocca cambiare qualcosa nel modello; che sennò c’è rischio che non ci siano più revenues per loro. E neanche petrolio per noi.
Il saudita magari esagera. Ma il trend è piuttosto generalizzato. Se il resto dell’area non ha a sua volta raddoppiato, un balzo in avanti lo ha comunque fatto. Il dato aggregato del Medio Oriente (7,8 milioni di barili/giorno consumati nel 2010) indica un aumento dei consumi pari a circa il 50% in un decennio. Un tasso non troppo lontano da quello indiano; e nettamente secondo solo a quello cinese. In Africa del Nord la cifra assoluta di partenza è molto più bassa. Ma il trend trova perfetta replica, seppure su volumi assai più contenuti (il consumo primario algerino nel decennio passa da 26,8 a 41,1 milioni di tonnellate di petrolio equivalente/anno; quello egiziano da 49,8 a 81; e così in parallelo gli altri).
Dovrei per finanziare il modello esportare di più. E al netto del fisiologico declino produttivo dei giacimenti che ho e della difficoltà crescente di rimpiazzare il vecchio col nuovo, mi capita comunque che per crescita del consumo interno me ne avanzi sempre meno da esportare. Sempre meno margine per manovrare (in aumento) sui volumi. Sempre più speranza che i prezzi si adeguino nel tempo ai bisogni (del produttore). E sempre più certezza, come la recessione post-Lehman ha ricordato a tutti, che il prezzo dipende (anche?) dalla domanda. Il produttore può permettersi una stagnazione, e senza sommosse, solo se l’economia del consumatore cresce.

6. Si sono moltiplicati i consumatori. Anche di petrolio. Bisognerebbe cambiare modello. Ma non ci si riesce. La dipendenza dal suo generare rendita ha creato assuefazione. E comunque dal modello monoentrata non si evolve in una notte. E la rivolta è adesso.
Alla crisi dello Stato rentier viene così naturale cercare di rispondere con gli strumenti dello Stato rentier. Più sussidio. Più consenso. Solo che per farlo ci vorrebbe un qualche surplus. Il saudita può. E non esita. 36 miliardi di dollari di spesa aggiunti al budget statale a fine febbraio. A marzo re Abdullah ne aggiunge altri 130. E a aprile ritocca i salari di esercito e forze di polizia. I 166 miliardi sono un campionario dell’economia del sussidio. Edilizia popolare, salario minimo garantito, sussidio di disoccupazione, bonus aggiuntivi per studenti ed impiegati pubblici. Loro possono ancora permetterselo. Gli altri molto meno.
La stabilità sociale dipende anche dal prezzo del pane. Ma per certo e per tutti il bilancio statale sta per intero appeso al prezzo del petrolio. Pensioni e sanità e scuola e prezzo del pane appesi ad un’esogena. Imprevedibile, incontrollabile, e soprattutto volatile. Se il prezzo non cresce, la stabilità interna va in pezzi. Già oggi la stima è che il budget saudita stia in piedi se la media del barile non scende sotto gli 88 dollari. E la stima al 2015 è che ce ne vorranno 105. Se vogliono garantire un qualche reddito di sussistenza alla disoccupazione di massa gli altri, dall’Algeria all’Iran all’Iraq, non se la possono certo cavare con meno.
Appesi al prezzo. E sotto la spinta dei baby boomers ormai senza margini di manovra. La stessa Arabia Saudita non potrebbe più permettersi lo swing degli anni Ottanta. E gli altri non possono che produrre tutto, maledetto e subito. La dipendenza ha fatto evaporare la possibilità stessa di una qualche politica. E’ di nuovo volumi e prezzi. Negli anni Settanta magari era anche hybris. Adesso è solo necessità (e istinto) di sopravvivenza.
Guardando alle proiezioni, e alla possibilità che i consumi d’Occidente finiscano per stagnare, viene forte il dubbio che la stabilità mediorientale possa ritrovarsi in questo decennio a dipendere soprattutto dallo sviluppo che viene dall’Asia. L’unica realtà geografica in cui riporre speranza di una crescita di domanda che sostenga i volumi, e perciò anche i prezzi. Se di questi tempi sei appeso al prezzo, finisce (quasi) inesorabilmente che ti ritrovi appeso anche alla Cina.

7. Essere appesi al prezzo gli fa anche promuovere nuovi concorrenti. Voci d’America, e sempre più energeticamente autorevoli (da ultimo Yergin), gli stanno sbrigativamente annunciando che il baricentro sta per cambiare. Non più Medio Oriente e Nordafrica. La cittadella/epicentro della produzione mondiale trasloca. Da domani, o al massimo dopodomani, il nuovo regno del petrolio si installa nelle Americhe. Il Venezuela ha già messo a libro più riserve dell’Arabia Saudita; and more to follow.
Strana minaccia competitiva, quella delle Americhe. L’esercito che mette assieme, schierandolo da Nord a Sud, non è propriamente d’élite.
Prima le sabbie canadesi. Ovvero catrame. Petroliaccio biodegradato. In open pit devi tirare su con la ruspa due tonnellate di sabbie per tirarne fuori un barile di petrolio equivalente. E poi devi rimetter via le sabbie. O se lo vuoi separare sottoterra e lasciare lì le sabbie ci devi pompare dentro tanto vapore da non immaginartelo. Comunque il prodotto poi lo mandi in raffineria, e prima di infilarlo nel barile ne devi fare petrolio sintetico.
Poi lo shale nordamericano. Quello che è rimasto prigioniero in argille impermeabili. Buchi e non esce niente. Perchè, appunto, è prigioniero. Gli devi fare a pezzi la prigione. Triturare l’argilla. Ad ogni buco che fai, deve pompare ad altissima pressione qualche milione di litri d’acqua per fare a pezzi (“frac”) la roccia.
A seguire. Il bitume del Venezuela. Heavy Oil e Extra Heavy Oil, per essere più professionali. Le riserve che toglierebbero la leadership ai sauditi. Qualche barile si muove persino da solo, che sono quelli che hanno estratto fino ad adesso. Il grosso è talmente pesante e di viscosità tale da avere bisogno di assistenza. O lo diluisci o lo riscaldi; sennò ti giusto ottura il tubo, e non si muove.
Il Deep Offshore del Brasile, infine. O, meglio, Ultradeep. Petrolio di eccellente qualità. Tanto gas, ma i liquidi in prevalenza condensati. Leggerissimi e a quanto si capisce virtualmente privi di zolfo. Il problema è andarli a prendere. Piazzare un mezzo di perforazione sopra 5000 metri di profondità oceanica di acqua; e dal fondo del mare scavare altri 5000 metri di buco per arrivare al giacimento. Costoso, se non altro.
Questa è l’armata che sfida la leadership. Parrebbe Brancaleone, e invece è un campionario (quasi) completo di quel che la vulgata chiama unconventional oil. Schierata contro l’armata d’Arabia. Tutta di truppe scelte. O, se preferite, conventional.
Giacimenti a terra, profondità mai ultradeep, nessuna necessità di trasformarli prima di poterli vendere. E’ vero, per prolungargli la vita adesso anche ai conventional applicano diavolerie assortite che vanno dalla reiniezione di gas o fluidi per tenergli su la pressione alla perforazione di pozzi orizzontali per aumentare l’area utile di contatto col giacimento. Diavolerie che costano; ma nulla in confronto al costo di (ri)fare petrolio da catrame e bitume.
Aumentano i costi di trasporto e di imballaggio del Dono. Però (assai) differenzialmente. L’unconventional ti fa sempre più labile la differenza tra l’estrarre ed il produrre. Il conventional di un grande giacimento tenuto su di pressione o raggiunto in orizzontale è giusto petrolio preso in un magazzino più remoto.
La differenza di costo è evidente. Il costo di produzione del conventional è mediamente una frazione del costo di produzione di quell’altro. No match, verrebbe da dire. Se scoppia un’altro Lehman e il petrolio va sotto i quaranta dollari produrre conventional continua ad essere (mediamente) economico e produrre unconventional (mediamente) no. Se la domanda contrae, il petrolio arabo si salva.
Forse il petrolio sì, ma l’arabo no. Il break even del produttore non è basato sul costo di produzione, ma sul costo sociale. Insomma sulle esigenze del budget statale (chi volesse vedervi una qualche analogia tra meccanismi di costo dello Stato rentier e meccanismi di costo del kombinat sovietico è libero di sbizzarrirsi). La tensione sul prezzo rimette in gioco chi economicamente ne sarebbe fuori. L’unconventional delle Americhe si è sviluppato anche quando la domanda si contraeva. E’ la ripetizione della lezione degli anni Ottanta. A 1,80 dollari a barile nessuno si sarebbe sognato di produrre off-shore dal Mare del Nord (tranne marginalissimi casi). A 10 erano già in fila; e a 34 l’Alaska era diventata Bonanza. La frontiera dell’unconventional, per le modalità che la rendono economicamente accessibile, è il Mare del Nord di adesso; però con riserve di una qualche potenza più grandi.
Sono diventati troppi per riuscire a sussidiarsi. E hanno cominciato a usarne troppo per essere sicuri di avanzarne abbastanza per il sussidio. Tutti a fare il tifo per il prezzo. Per poi accorgersi che il prezzo che sale stimola pensieri e produzioni unconventional (per non dire di quelle alternative). Donde il dilemma prossimo venturo del rentier. Se tira il prezzo stimola la sostituzione del Dono; se non lo tira stimola la sostituzione di se stesso. Abituiamoci, se ancora non l’abbiamo fatto, alla volatilità. E anche all’idea che per il rentier i 100 dollari a barile non sono ricchezza. Sino a quando non gli sarà riuscito di assorbire il baby boom, i 100 dollari rischiano di essere giusto la condizione della sopravvivenza. Poi magari se il prezzo funziona e la crescita demografica va in negativo finisce pure che un qualche rentier ti sopravvive. Arrivederci al prossimo decennio.


8. La parabola dello Stato rentier. E tre idee che potrebbe farti frullare per la testa.
La prima è che se il produttore è un rentier la sicurezza energetica è anzitutto un suo problema di politica interna. Chi smette di vendere muore. E se smettono di vendere è di regola perchè guerra o rivolta sociale gli hanno bloccato (temporaneamente) i terminali.
La seconda è che (con la grandissima eccezione degli Stati Uniti) sedere sul petrolio fino ad oggi ha portato fortune più che fortuna. O per dirla diversa (e reiterando l’eccezione) che sino ad oggi conosciamo un unico modello di sviluppo basato sul petrolio che abbia avuto successo. Quello dei consumatori.
L’ultima è la più scontata. La rivolta araba è anche il segnale che il modello è consunto. Le sue dinamiche interne di evoluzione e l’evoluzione stessa del mercato energetico sembrano segnalare una fine vicina (seppure magari non imminente). Bisognerebbe trovare per tempo un modo per riavviare la possibilità di una politica. Della scelta di un tasso di sconto e progressivamente di un diverso modello di sviluppo. Facile, ed ecumenico. Però già aiuterebbe se intanto l’Occidente o la Cina investissero sull’idea che il migliore modo per sedare la propria dipendenza dal petrolio consiste nel diminuire la loro.