
Ospitiamo volentieri questo intervento di Mirco Rossi, che alla luce di una sua recente esperienza approfondisce il tema delicato del rapporto tra politica, società e questione energetica.
Created by Mirco Rossi
L’attività di divulgazi
one sui temi dell’energia da molti anni mi porta a confronto con studenti, cittadini, insegnanti, gruppi e associazioni di varia estrazione. In concomitanza con la recente pubblicazione del mio libro “Energia e futuro – le opportunità del declino” sto registrando da qualche mese una crescita di interesse per questi argomenti in ambiti precedentemente rimasti estranei: amministratori pubblici, quadri di partito, politici in generale.
Sin dall’inizio ho accolto con favore la novità in quanto potenzialmente in grado di creare, almeno

nelle concrete occasioni di confronto, le condizioni per una maggiore consapevolezza proprio in quegli ambienti dove più urgente è commisurare gli orientamenti e le decisioni con la realtà e le prospettive energetico-ambientali.
Sorprendente è stato anche registrare che l’interesse sta emergendo senza particolari distinzioni di colore politico. Certo, la sensibilità, il linguaggio, i frammenti di conoscenza già posseduti, risultano (di norma, ma non sempre) piuttosto diversi a seconda dall’appartenenza a un certo partito o movimento. Ritengo anche plausibile che sia ben diverso l’uso che poi le varie forze politiche fanno delle informazioni ricevute, dei dati acquisiti e delle considerazioni loro proposte (quest’ultimo argomento, se pur decisivo, esula dai compiti di un divulgatore).
Ma esaminiamo i fatti.
In questo quadro, positivo e promettente, un paio di settimane fa ho partecipato, in veste di co-relatore, a una tavola rotonda con alcuni esponenti storici dell’ambientalismo veneto, tutti con plurime e variegate esperienze amministrative di elevato livello sul territorio (ma non solo). Successivamente, a qualche giorno di distanza, a un incontro-dibattito assieme a una personalità storica dell’ambientalismo nazionale, con alle spalle una importante esperienza di governo, nonchè una parlamentare europea del nord-est, arrivata a quell’incarico soprattutto in forza a prese di posizione che l’hanno qualificata come esponente di punta del cosiddetto nuovo corso del maggior partito di opposizione.
Nella prima delle due occasioni sono stato obbligato a chiarire che il ruolo dell’eolico e del fotovoltaico non può essere valutato prendendendo in considerazione la sola potenza installata. I buoni risultati raggiunti dall’Italia in senso assoluto devono essere relativizzati alla luce dei contributi effettivi di energia che garantiscono, sia in riferimento ai dati complessivi dell’elettricità che ancor più in rapporto all’energia primaria. Vanno certo apprezzati ma enfatizzarli oltre il lecito, come avevano appena fatto due relatori (e di frequente fanno i media “ambientalisti”) rischia di essere molto controproducente in quanto implicitamente trasmette un pericoloso messaggio di “ormai è quasi fatta” e mette totalmente in ombra la necessità inderogabile di un cambio di paradigma generale. Uno dei tre interlocutori si è molto risentito ribattendo subito (mentre un secondo annuiva), con discreta animosità, che ormai le due fonti rinnovabili avevano assunto un peso superiore a cinque centrali nucleari. Ho avuto la precisa sensazione che i due non avessero così chiara la differenza tra il ruolo della potenza e quello dell’energia e, considerate le quantità di incarichi ed esperienze politiche da loro accumulate, rinunciai a ribattere ulteriormente limitandomi a continuare il mio intervento verso il pubblico. Che invece, come emerse dalle domande successive, aveva perfettamente compreso la differenza. I miei dubbi sulla chiarezza tra energia e potenza trovarono ben presto conferma, quando il terzo interlocutore, in un momento di calma si avvicinò e mi chiese, con apprezzabile modestia, di chiarirgli meglio la faccenda.
Alla fine della serata i due che si erano risentiti, e che mi conoscono da alcuni decenni, se ne andarono senza salutarmi.
Al secondo evento mi ero avvicinato con buone sensazioni perché sapevo che gli organizzatori erano stati molto colpiti dal contenuto della lettera che Aspo aveva inviato ai Presidenti di Regione e di Provincia italiani e che intendevano iniziare l’incontro proprio a partire da quel punto.
Così è stato e una mia relazione ha aperto i lavori. I limiti delle risorse, l’importanza della progressiva riduzione dell’Eroei, l’alta probabilità che a breve non sia più possibile coprire parte della richiesta attesa di petrolio, la “distruzione” definitiva dell’energia impiegata nei processi di produzione di ogni oggetto, la necessità di diventare consapevoli di un profondo inevitabile cambiamento, l’obbligo di agire contemporaneamente in direzione di: stile di vita sobrio, riduzione dei consumi, aumento della penetrazione elettrica, risparmio energetico (non reinvestito) e sviluppo immediato ed esponenziale di fotovoltaico ed eolico. Per queste due fonti ho messo anche in luce il ruolo purtroppo ancora ridotto che svolgono e il limite peculiare di poter produrre unicamente elettricità. Qualche accenno alla situazione italiana ed alle distorsioni della realtà cosi frequentemente proposte dai media. Solo mezz’ora di tempo ma comunque stavo riuscendo a dire l’essenziale.
E’ stato a questo punto che uno dei più noti e duraturi rappresentanti storici dell’ambientalismo italiano mi ha interrotto mettendo in discussione la fondatezza dei dati che proponevo nella relazione perché – come in effetti era successo per svista – avevo trascurato, nell’elencare le fonti rinnovabili italiane del 2009, l’apporto di biomassa+rifiuti riciclabili alla produzione elettrica (il 2,3%).
A questa osservazione – corretta ma del tutto ininfluente rispetto alla sostanza – il nostro famoso ambientalista aggiungeva che, contrariamente a quanto avevo precedentemente esposto, di carbone “ce n'é per oltre 500 anni e non ci sono problemi di disponibilità ma solo di emissione di CO2” e che “scoperte tecniche recentissime stanno permettendo di estrarre metano dagli scisti, per cui sta cambiando radicalmente la prospettiva di questo combustibile, tanto che la Russia si sta preoccupando e che gli USA ne hanno così tanto che già si è dimezzato il prezzo”.
Con qualche difficoltà riprendo a parlare e, senza entrare in polemica, confermo che le fonti a cui faccio riferimento sono ritenute attendibili e che la banale svista non cambia proprio nulla. Illustro in sintesi le grandi potenzialità del kitegen e termino velocemente distinguendo il concetto di crescita da quello di benessere.
Il pubblico, discretamente numeroso, dimostra rumorosamente d’aver gradito.
Mi acconcio ad ascoltare la relazione del nostro ambientalista di vaglia che prima di parlare della Green Economy, come previsto, pensa bene di continuare a fare le pulci al mio intervento. Conferma e amplia quanto detto in precedenza aggiungendo che non pensa sia proprio così probabile che le risorse energetiche possano risultare scarse a breve: ne esistono più di quelle che alcuni ritengono. Prosegue ipotizzando l’esistenza di una mia volontà a sminuire il ruolo delle rinnovabili mettendo in luce i limiti di fotovoltaico e eolico e trascurando i contributi sostanziali di maree, biomassa, rifiuti, solare termico e geotermico (bassa entalpia?). Solo dopo decide di svolgere la sua relazione in cui affronta normative europee e nazionali, migliorabili sì ma comunque in grado di rappresentare sostanziali punti di riferimento per uscire dall’attuale difficile momento e iniziare a ridurre il pericolo di riscaldamento globale. Il nostro non si nega comunque una netta presa di distanza dalla decrescita spiegando che non è percorribile in quanto metterebbe in crisi l’occupazione; anche perché “è un’idea concettualmente sbagliata”. La natura, spiega, non è in equilibrio. Nemmeno l’uomo può perseguirlo e ciò che ci distingue da tutto il resto è la “conoscenza”. La differenza che ha permesso e permetterà all’uomo di trovare sempre la soluzione (almeno così credo d’aver capito).
Tocca all’altro esponente politico, che a suo tempo sembrò incarnare la forza giovane del cambiamento nel suo partito, da tempo in mezzo al guado: sostanzialmente dice poco o nulla. Considera che certi allarmi siano eccessivi e racconta qualche aspetto di ciò che accade in Europa. Un intervento breve, di maniera, che sostanzialmente si appoggia a quello del noto ambientalista e non raccoglie nessuna delle vere e proprie “provocazioni” che avevo messo sul tavolo.
Un paio di domande dal pubblico entrano poi invece nel merito e mi permettono di precisare ulteriormente i concetti di Eroei e di sottolineare l’assoluta necessità di verificare il bilancio energetico di ogni fonte prima di considerarla tale e definirla “rinnovabile”.
E’ il turno di un altro relatore, ricercatore di provata esperienza e “responsabile regionale energia” di Legambiente. Usa slide scritte fittamente, scarsamente leggibili, e il suo procedere mostra qualche limite nella comunicazione; risulta però molto ben preparato ed espone concetti importanti. Dimostra d’aver lavorato a lungo e con estrema cura per esaminare con puntualità e rigore le potenzialità della sua regione dal punto di vista della produzione di cibo, di biomassa e d’installazione di fotovoltaico. Tre aspetti che, con passaggi verificabili e razionali, traduce in precisi quantitativi e che correttamente fa notare essere tra loro in diretta competizione. Conclude che è impensabile poter ottenere un apporto energeticamente risolutivo dalla biomassa anche occupando tutti i terreni disponibili e che questi comunque devono prima essere impiegati per soddisfare la produzione di cibo, tenendo ben conto della progressiva difficoltà che si incontrerà nel produrre concimi chimici. Dimostra che una buona parte di fotovoltaico può trovare collocazione sulle costruzioni esistenti e, con tutte le prudenze necessarie, i terreni possono eventualmente essere occupati con maggiore efficienza per installare questa fonte piuttosto che per produrre biomassa. Critica pesantemente l’abitudine di alcuni agricoltori di piantare in mezzo al campo l’impianto a biomassa (granturco, a coltivazione altamente intensiva) con l’unico obiettivo di lucrare sul prezzo riconosciuto al kWh, pur in presenza di basse efficienze energetiche. Richiama l’attenzione sul fatto che ci vorrebbero comunque tempi molto lunghi per poter installare tutto il fotovoltaico potenzialmente installabile e che forse già prima di terminare bisognerebbe iniziare a sostituire i primi impianti. Chiude sottolineando che è necessario cominciare a introdurre elementi di cambiamento radicale con la consapevolezza che lo sviluppo delle fonti rinnovabili non sarà sufficiente a parare il declino dei fossili e a garantire la tendenza attuale dei consumi.
Subito viene apostrofato dal solito noto ambientalista come “ambientalista che lavora contro le rinnovabili” e che vedrà di parlarne in Legambiente a Roma. Torna poi alla carica richiamando in sala maree, onde, correnti, biomassa legnosa, alghe, con una determinazione che si potrebbe considerare sospetta. (Una successiva visita al sito della fondazione di cui è presidente non è risultata affatto risolutiva.)
Prima di chiudere assicura anche che il forte sviluppo della biomassa per usi energetici può offrire elevati e duraturi livelli di nuova occupazione: centinaia di migliaia di posti.
In sala si evidenziano sguardi perplessi, ammiccamenti e bisbigli tra vicini. Anche i due alti rappresentanti politici vi partecipano, ma solo tra di loro. Poco dopo noto anche uno scambio di bigliettini.
Viene nuovamente il turno dell’altro esponente, parlamentare e dirigente politico, cui viene esplicitamente richiesta una sintesi politica dei lavori. Si dilunga sulle normative europee; spiega che i socialisti europei si sono espressi (inutilmente) contro la decisione di considerare alternativa ai fossili anche l’energia nucleare; indica come esempio da seguire la Germania che ha deciso di non costruire altro nuke e che sta sviluppando eolico e fotovoltaico molto velocemente e che ricava grandi quantità di energia dallo sfruttamento di biomassa. Ricorda che il suo partito è favorevole allo sviluppo delle rinnovabili. Alla fine non sa esimersi dal sottolineare che “mettere in luce i limiti delle rinnovabili rischia di essere controproducente e di scoraggiare le scelte per il loro sviluppo”. Chiude ricordando che l’occupazione e i livelli produttivi possono e devono essere mantenuti incrementando l’efficienza ed il risparmio. Si può mantenere lo sviluppo riducendo gli sprechi e migliorando la tecnologia.
Non un solo cenno alle problematiche di fondo che l’intervento mio e del ricercatore hanno posto alla discussione. L’esaurimento delle risorse, i limiti, l’Eroei, la preziosità dei terreni, le contraddizioni tra il mantenimento degli attuali approcci politici e la realtà che ormai si impone, la necessita impellente di alcune scelte. Sono passati come acqua su marmo.
Le impostazioni del partito e – con qualche distinguo – le normative europee bastano a tracciare la strada giusta. Si deve solo riportare l’Italia nel giusto contesto.
Terminato l’evento, e prima che i nostri due se ne andassero, solo l’ambientalista ha salutato chi restava; anche se poi è stato riferito che, una volta lontano, non ha saputo nascondere il proprio disappunto.
Attorno a un tavolo con qualche bibita, tra le persone del pubblico e alcuni organizzatori rimasti, lo sconforto era generale. C’era, latente, quasi un vago senso di rabbia.
Si era discusso per oltre 3 ore nel merito di argomenti complessi e delicati, di vitale importanza per definire una strategia politica di largo respiro; ma si doveva prendere atto che i nostri importanti interlocutori erano stati completamente sordi. Chiusi, isolati, inossidabili, autoreferenziali. Non avevano inteso ascoltare alcuna parola che mettesse in discussione le posizioni definite nel chiuso delle “commissioni” o nei ristretti circoli dei “decisori”.
Avevano appena testimoniato che la verità non va cercata nel confronto con pareri di studiosi, di esperti, con il contributo delle dimostrazioni tecnico-scientifiche, bensì nelle mediazioni politiche, nei documenti approvati nelle commissioni istituzionali o nelle segreterie di partito, nelle delibere, nei decreti e nelle formulazioni legislative infarcite di arzigogoli giuridici.
Gli sforzi che erano appena stati fatti per “portare in alto” alcuni elementi di riflessione, alcuni avvertimenti, erano serviti solo a sommergere chi li aveva fatti di amarezza.
Al di là dei risultati piuttosto positivi raggiunti comunque con il pubblico, gli esiti indesiderati di queste due diverse esperienze hanno confermato la veridicità di quello che anch’io, come altri, mi illudevo fosse soprattutto un luogo comune: l’impossibilità di realizzare un vero confronto di merito con gli esponenti politici di più alto livello, con i cosiddetti “vertici”. Anche, come nei casi in esame, se chiamati a svolgere la loro funzione nell’ambito di quelle forze che – evidentemente, troppo spesso solo a parole – fanno della partecipazione attiva, del confronto con i cittadini, con gli esperti, con la cultura, la loro bandiera e, ancor più, rivendicano ciò come una peculiarità, una caratteristica cromosomica.
In anni lontani, nell’arco di quasi un ventennio, ho fatto numerose e significative esperienze di politica attiva: si cominciava a (e alla fine si terminò di) discutere contro o a favore del centralismo democratico. Di norma le indicazioni provenienti dai vertici, difficilmente modificabili, nascevano spesso dopo “ampio e approfondito dibattito”. La “forma partito”, particolarmente efficiente in qualche caso, offriva una serie importante di momenti di discussione prima che si costruissero le conclusioni. Su molte delle quali, anche dopo essere diventate operative, proseguiva la discussione aperta, con libertà di posizioni perlomeno “teoriche”, cui veniva riservata pari dignità. D’altronde era quello un periodo permeato dalla pratica diffusa e costante, in molti settori della società, della discussione, della partecipazione attiva e collegiale: un’abitudine che creava condizioni favorevoli per una crescita “dal basso” del processo di formazione delle decisioni.
Molti dei maggiori esponenti politici, i più rappresentativi dirigenti di partito, tenevano in grande considerazione questo processo di costruzione decisionale da cui traevano linfa culturale, autorevolezza politica, potere e reale legittimazione di ruolo.
Oggi questi preziosi meccanismi che sostanziano e qualificano il funzionamento della democrazia rappresentativa troppo spesso non sono più agibili. O meglio, non riguardano né interessano più l’empireo della politica, gli “eletti” che, almeno per la durata del loro mandato, risultano pressoché intoccabili: nobili feudali con regole e leggi autonome, rinchiusi nei castelli delle istituzioni, delle fondazioni, delle ristrette segreterie (o consorterie ?) di partito, lontano dal popolo a cui ogni tanto fingono di concedere udienza. Senza mai scendere dal trono, spesso controvoglia e con malcelato disagio.
Salvo ritornare, con sorrisi, fiori e doni tra le mani, a immergersi, con la cenere sul capo, notte e giorno tra la plebe quando occorre racimolare le preferenze per mantenere il vecchio o conquistare un nuovo feudo.
Sarebbe sbagliato voler rappresentare con questa descrizione tutto il ceto politico. Le eccezioni ci sono, anche se faccio sempre più fatica ad individuarle, ma forse è un mio limite.
Di certo il fenomeno è molto meno presente quanto più si scende nei gradini dell’importanza dei ruoli, degli incarichi.
Le esperienze fatte con numerosi amministratori, consiglieri comunali e provinciali, con gli attivisti di base di qualche partito o movimento, testimoniano di una significativa disponibilità a voler capire. Inizia ad emergere, soprattutto tra chi lavora più a diretto contatto con i cittadini, il desiderio di appropriarsi di nuove analisi e nuove visioni; la volontà di cercare risposte a una realtà che si sta facendo sempre più complessa, imperscrutabile e sfuggente alle vecchie chiavi di lettura.
In effetti, sembra proprio che con il crescere della valenza del ruolo politico, della permanenza ai livelli alti e pressoché intoccabili della politica, cresca anche l’incapacità d’ascolto, l’indisponibilità a verificare le proprie convinzioni, il disprezzo per le idee dell’altro, l’arroganza della propria “verità”, l’indifferenza, il rifiuto dell’approccio tecnico-scientifico, la miopia e l’opportunismo delle consorterie, il separatismo di casta.
Una vera e pericolosa sindrome cronica, per la quale è sempre più difficile individuare una cura efficace.