Di Armando Boccone
Il titolo di questo lavoro fa
riferimento a quelle nuove modalità di approvvigionamento di
prodotti seguite da ristoranti, pizzerie, negozi di frutta e verdura, oppure dalle famiglie, che decidono di utilizzare soprattutto
ortaggi, verdura, formaggi, carni, uova prodotti nel territorio
circostante, rivolgendosi direttamente ai produttori locali.
In
questo modo si vogliono raggiungere molti obiettivi come quello di
evitare che i prodotti facciano il giro del mondo prima di giungere
sulla tavola (con enorme consumo di combustibili, e produzione di
inquinamento), quello di consumare prodotti freschi di
stagione, favorire le produzioni locali.
Sono iniziative molto interessanti
anche se, quasi sempre, è impossibile approvvigionarsi nel
territorio circostante di tutti i prodotti che servono. Quando si
parla per esempio, di “pizza a km zero” è ovvio che non tutto
potrà provenire dal territorio circostante, come per esempio la
farina e l’olio, ma che molti ingredienti (dalle mozzarelle, al
prosciutto e ai tanti ingredienti con cui si guarniscono le pizze)
provengono dal territorio circostante. Per la verità di ogni
prodotto bisognerebbe vedere anche la provenienza dei vari
ingredienti. Per esempio il prosciutto potrebbe venire da un
produttore locale mentre la coscia di maiale, da cui si è partiti,
potrebbe essere venuta addirittura dall’estero. La stessa cosa
potrebbe dirsi delle mozzarelle, che potrebbero essere fatte con
latte o prodotti intermedi provenienti dall’estero, oppure della
farina, fatto con grano, che, per esempio, potrebbe venire dal
Canada.
Nonostante i limiti appena detti queste
iniziative sono molto interessanti ed è bene che continuino a
svilupparsi.
Questa estate come ogni anno, con la
mia compagna, ho trascorso una ventina di giorni di ferie al mio
paese di nascita in Lucania. Da qualche tempo avevo già pensato di
fare una ricerca sul modo in cui in passato al mio paese si
costruivano e si arredavano le case, prestando particolare attenzione
alla distanza che i materiali, i componenti e i prodotti finiti
avrebbero dovuto percorrere prima di entrare a fare parte delle case
stesse. La distanza significa consumo di energia per il trasporto,
soprattutto per materiali (in linea di massima) pesanti e di modesto
valore come quelli necessari per costruire e arredare le case.
Considerando i tempi che ci aspettano, che saranno contraddistinti da
difficoltà nell’approvvigionamento di combustibili fossili, quello
del consumo di energia sarà infatti uno dei problemi più importanti
di cui tenere conto. Insieme e strettamente connesso a questo
problema c’è anche quello della reintroduzione, nei limiti del
possibile, delle tecnologie produttive usate in passato.
Starà a voi lettori di questo lavoro
stabilire se sia appropriato o meno il titolo “Case arredate a km
zero!” che gli è stato dato.
Foto 1: Tipiche case tradizionali del
mio paese
E' bene esporre preventivamente il
metodo che ho seguito in questo lavoro. Oltre a portare alla luce i
miei ricordi di infanzia in merito, ho fatto delle interviste a
muratori e falegnami, nel paese ho fotografato le case (sia
all’esterno che all’interno) e nel territorio sono andato alla
ricerca e ho fotografato i posti da cui venivano i materiali
utilizzati. Molto importanti sono state due interviste: la prima
fatta a un muratore-fornaciaio (mi pare avesse 87 anni) e la seconda
a un mio amico falegname. Queste due interviste sono state due vere e
proprie miniere di informazioni, che mi hanno anche aiutato a
indirizzare il prosieguo della ricerca.
Tutto ciò che verrà detto sulla
costruzione delle case, delle porte e finestre e della mobilia, si
riferisce a un periodo che arriva circa alla fine degli anni ’50
del secolo scorso. Le eventuali discordanze nelle risposte alle
interviste fatte a diversi muratori e falegnami forse dipendono dal
diverso periodo a cui facevano riferimento.
Le case del mio paese
Escludendo le case signorili ed edifici
particolari (come scuole, conventi, ecc.) le case tradizionali del
mio paese erano essenzialmente di due tipi: a “cannizzo” e a
“lammia”.
Foto 2: La copertura di una casa a
“cannizzo”
Le case a “cannizzo” erano così
dette per la copertura rappresentata da un cannicciato che poggiava
su una trave principale, che andava dalla parte posteriore a quella
anteriore della casa e da tanti travetti che si appoggiavano da una
parte sui muri laterali e dall’altra sulla trave principale. Le
canne del “cannizzo” erano legate fra di loro da giunchi o da
rametti di ginestra. Sopra il cannicciato veniva messo uno strato di
due centimetri di malta impastata con paglia. Sopra lo strato di
malta venivano messi i coppi (il maestro muratore-fornaciaio precisa
che ci volevano 32 coppi per ogni metro quadrato di tetto). La
copertura poteva essere fatta con le “chianelle”al posto del
“cannizzo”: le “chianelle” (che sono dei mattoni di cm
2,5x18x45) venivano disposti sui travetti. Sopra le chianelle infine
veniva disposto un strato di cm 0,5 di malta su cui poggiavano i
coppi.
Il paese non è pianeggiante per cui
succede che ci sia una sopraelevazione, cioè un’altra casa, a cui
si accede dalla strada posta a monte della prima casa. In questo caso
la copertura della casa di sotto non è fatta a “cannizzo” ma a
“lammia”, cioè la volta è fatta di mattoni messi in taglio. Fra
la volta principale e i muri laterali venivano fatte altre due volte
con mattoni disposti in taglio. In alcuni casi venivano ricavati dei
vani fra le volte piccole e quella grande. Sopra le volte piccole
veniva pareggiato con terra in modo che poi venisse poggiato il
pavimento della casa di sopra.
La provenienza dei materiali
Da dove provenivano i materiali finora
incontrati? (il riferimento è alla copertura della case a
“cannizzo”). Le canne provenivano dal territorio
circostante. In ogni zona umida (come lungo i fossi di scolo) ci sono
canneti. Anche i giunchi e le ginestre erano
diffuse sul territorio. Prima di essere utilizzate dovevano essere
seccate e lavorate.
Alla domanda “ma non si poteva usare
lo spago per legare le canne?” tutte le persone intervistate hanno
detto “… e chi te lo dava!”. Lo spago penso fosse fatto di
canapa, che è una pianta che non veniva coltivata nel territorio di
cui stiamo parlando, e probabilmente doveva essere importato dal
nord Italia.
Da dove venivano invece le travi e i
travetti? Il mio amico falegname dice che
venivano dalle segherie disposte sull’Appennino calabro-lucano (un
altro falegname ha detto invece che venivano dal nord Italia ma
probabilmente si riferiva a un periodo successivo agli anni cinquanta
del secolo scorso).
La struttura delle case
Foto 3: Facciata di casa
I muri delle case erano fatti di pietre
raccolte nelle immediate vicinanze del paese. Per le case di campagna
invece le pietre venivano raccolte nelle vicinanze di queste stesse
case. Un mio amico, vecchio muratore, mi ha detto che quando era
ragazzino andava a raccogliere le pietre e che quando raggiungeva il
“metro cubo” le consegnava a un rivenditore di materiali edili.
Parte della struttura, come gli stipiti su cui si incardinavano le
porte e le finestre, l’arco sulla porta, il focolare, i pavimenti,
gli archi interni e la copertura (nelle case a “lammia”) erano
invece fatte di mattoni. Solamente dopo gli anni ’50 si iniziò a
costruire case completamente di mattoni.
I mattoni utilizzati nella costruzione
delle case nel paese venivano fatti in dieci fornaci (di cui il
signore muratore-fornaciaio mi indica l’esatta ubicazione e i nomi
dei proprietari) disposte intorno al paese stesso: alcune erano a
poche decine di metri dall’abitato mentre le due più lontane erano
distanti a circa un chilometro. Per le case costruite in campagna i mattoni
provenivano da fornaci disposte nelle campagne stesse. Non si poteva
fare altrimenti perché, mi dice il signore muratore-fornaciaio, un
asino poteva portare poche decine di mattoni per ogni viaggio (il
signore mi ha indicato il numero preciso ma ho dimenticato di
scriverlo) per cui il costo per la costruzione della casa sarebbe
lievitato parecchio.
Le pietre venivano “messe in opera”
utilizzando una malta fatta di terra tola impastata con acqua. La
terra tola era la comune terra. Visto i materiali “poveri” che li
componevano era necessario che i muri avessero lo spessore di 60
oppure 80 cm.
Nel caso di abitazioni con
sopraelevazioni era necessario che si usasse la malta cementizia,
cioè una malta fatta con “semmola“ (una sabbia di colore
paglierino), calce e acqua. Senza la malta cementizia i muri non
avrebbero sopportato il peso della sopraelevazione.
I mattoni, la calce e la malta
I mattoni e i coppi che servivano per
fare le case del paese venivano fatti, come è stato già detto, in
dieci fornaci disposte nelle vicinanze dell’abitato. Le fornaci
sorgevano vicino ad alture di argilla, da cui si estraeva appunto
l’argilla per fare i mattoni e i coppi. Questi, prima di venire
cotti nelle fornaci, venivano essiccati al sole.
Il signore muratore-fornaciaio è
estremamente preciso nella descrizione della creazione della fornace.
Si scavava una buca di circa quattro metri di diametro e profonda
quattro metri; in seguito si proseguiva lo scavo, dopo avere
ristretto il diametro di 25 cm, per altri 1,5 metri. Quest’ultimo
volume creato avrebbe costituito il “fornello”, dove sarebbe
avvenuta la combustione di vari materiali. Sulla corona di 25 cm si
creava una volta di mattoni disposti a punta e tenuti con un po’ di
malta, lasciando di tanto in tanto delle aperture da cui sarebbe
venuto il calore del fuoco acceso nel “fornello” sottostante. Il
signore muratore-fornaciaio mi dava indicazioni molto precise sulla
grandezza delle aperture e sulla distanza fra di esse.
Sulla volta si disponevano in taglio i
mattoni da cuocere, lasciando un po’ di spazio fra l’uno e
l’altro. Sopra il primo strato di mattoni se ne disponeva un altro
disponendolo un po’ sfalsato rispetto al primo. Si continuava così
fino alla volta superiore della fornace. Una fornace delle dimensioni
indicate era capace di accogliere circa 20.000 mattoni, del peso
complessivo di 600 quintali (il peso ovviamente diminuiva dopo la
cottura).
Si raggiungeva la temperatura di
900-1.000 gradi centigradi. Bisognava stare attenti affinché non si
superasse questa temperatura pena la “liquefazione” dei mattoni
e la caduta della volta su cui poggiavano.
La cottura durava 36 ore e il fuoco
veniva alimentato in continuazione introducendo nel “fornello”,
attraverso una trincea laterale, vari tipi di combustibili.
Per cuocere mille mattoni ci volevano
circa 8 quintali di combustibile vario.
In che cosa consisteva il combustibile
utilizzato e da dove proveniva?
Era formato da frasche, paglia, legna,
sansa di olive e altro e proveniva dal territorio del paese. La sansa
di olive per la precisione proveniva dai numerosi frantoi esistenti
nel paese. La paglia veniva dalla trebbiatura del grano mentre le
frasche provenivano da un arbusto molto diffuso in zona (il lentisco)
e dalla potatura degli ulivi (di cui il territorio è molto ricco).
Un mio amico che da ragazzo aveva lavorato in edilizia ha detto che
si utilizzavano anche copertoni dismessi di camion (ma probabilmente
si riferiva a un periodo successivo agli anni cinquanta del secolo
scorso).
Per “fabbricare” i muri veniva
usata la malta. Per i muri di pietre veniva usata la comune malta
(terra impastata con acqua), Nel caso di sopraelevazioni o di case
fatte completamente di mattoni veniva usata la malta cementizia, cioè
fatta di “semmola” impastata con calce e acqua. La “semmola”,
come già accennato, è una sabbia di colore paglierino e veniva
recuperata nelle immediate vicinanze del paese, in una fascia di
poche centinaia di metri.
La calce invece veniva fatta
utilizzando le pietre di una cava distante 10-15 km dal paese e cotte
in due fornaci disposte vicino alla cava. C’erano altre fornaci
disposte nel territorio pianeggiante a valle di questa cava. Le
pietre, in questo caso, erano raccolte lungo i fossi che convergevano
verso il fiume.
Foto 4: La cava detta “La petrodda”
Il signore muratore-fornaciaio mi parla
dettagliatamente del modo in cui si preparava la fornace in cui
sarebbero state cotte le pietre per trasformarle in “calce viva”
: si scavava una buca di 3 metri di diametro e profonda 4 m; si
lasciava uno spazio in fondo alla buca (il fornello); si creava una
trincea laterale da cui si sarebbe introdotto il combustibile; si
creava una volta con le pietre stesse che si sarebbero cotte, fino ad
arrivare alla sommità della buca; sopra ovviamente si creava una
volta per la chiusura. La cottura delle pietre per trasformarle in
calce viva durava continuativamente per circa 100 ore (4 giorni
circa). Il signore muratore-fornaciaio mi dà ovviamente informazioni
molto dettagliate sulla scelte delle pietre da utilizzare e di quelle
che invece bisognava scartare e su tante altre cose.
La calce viva così ottenuta doveva
essere "spenta” in vasche piene di acqua: solamente in seguito era
possibile utilizzarla per impastarla con la “semmola” e l’acqua
per ottenere la malta cementizia. Probabilmente la vasca in cui
spegnere la calce viva veniva fatta sul cantiere su cui sarebbe sorta
la casa (ho una esperienza diretta in merito). Nel paese c’erano
anche rivenditori di calce spenta: questi rivenditori acquistavano la
calce viva e poi la spegnevano in grosse vasche disposte nella parte
ipogea della loro casa.
Ma quali erano le caratteristiche
tecniche della malta cementizia e della malta fatta con la terra
tola? Ho visto che quest’ultima si sbriciola con la semplice
pressione delle dita mentre la malta cementizia oppone una notevole
resistenza ai colpi di martello (ho praticamente fatto queste
prove!).
Per quanto riguarda il combustibile
utilizzato nelle fornaci in cui si cuocevano le pietre per ottenere
la calce viva probabilmente un posto privilegiato l’aveva il
lentisco, un grosso arbusto da cui si fa una ottima legna.
Probabilmente dipende da questo uso che il territorio circostante è
privo della copertura di lentisco che è invece presente nei
territori più distanti.
La calce prodotta dalle fornaci del
paese probabilmente non bastava per le sue esigenze per cui veniva
anche “importata” dai primi paesi della vicina Puglia.
Dagli inizi degli anni sessanta in poi
le case (quasi tutte con sopraelevazioni) venivano fatte
completamente di mattoni e quasi contemporaneamente iniziò la
costruzione di case con i pilastri di cemento armato, con uso di vari
tipi di mattoni forati per le tamponature esterne e interne (cioè
per i muri esterni, non più “portanti”, e i muri divisori
interni). E’ sempre dagli anni sessanta che si diffonde, per
costruzioni non di qualità (soprattutto per le case di campagne e i
capannoni), l’uso del tufo, proveniente dalla zona di Matera.
Porte, finestre e mobilia
Foto 5: Mobilia
Le porte esterne, le porte interne
(dette bussole), le finestre e la mobilia venivano tutte fatte dalle
falegnamerie del paese.
Quando una giovane coppia metteva su
casa andava dal falegname per ordinare la mobilia. La mia compagna,
che ha letto qualcosa sulla storia del paese, mi dice che l’acquisto
della mobilia gravava sullo sposo (mentre la casa, mi pare, gravasse
sulla sposa). Al falegname ovviamente venivano indicate i componenti
dell’arredamento (armadio, comò, cristalliera, una grossa cassa,
il letto con due colonnette, ecc. [mi pare che il numero dei
componenti della mobilia fosse fisso per ogni casa]), il legno da
usare, le caratteristiche tecnico-qualitative, ecc.
A giudicare da quella che ho visto in
vecchie case, la manifattura della mobilia è di qualità e,
nonostante fosse stata fatta 80-100 anni fa, ancora in perfetto stato
di conservazione ed efficienza.
Ma quali erano le “essenze legnose”
utilizzate per fare porte, finestre e mobilia? Ma, soprattutto, da
dove provenivano?
Venivano usati soprattutto il pioppo
(di origine locale e dalla Calabria), il noce nazionale (proveniente
da Campania, Calabria e Lazio) e l’abete (dal nord Italia). Il mio
amico falegname dice che negli anni ’20 e ’30 si è usato anche
(probabilmente per poche produzioni di alta qualità) il mogano,
proveniente dall’India, e il noce satinato, di origini americane.
La produzione di mobilia da parte dei
falegnami del paese è avvenuta fino alla fine degli anni Cinquanta.
In seguito è iniziata l’importazione dal nord e centro Italia. Le
cose sarebbero potute andare diversamente: queste
falegnamerie si sarebbero potuto ingrandire e iniziare a esportare i
loro prodotti nel nord e centro Italia. Nel 1860 fu deciso invece che
le cose sarebbero dovute andare così come sono effettivamente
andate!! Da circa un paio di decenni è iniziata l’importazione
(ma in discorso vale adesso per tutta l’Italia) anche dall’estero.
Alla fine degli anni ’50, come si è
detto, è terminata la produzione di mobilia da parte delle
falegnamerie del paese. E’ continuata invece la produzione di porte
e finestre (ovviamente con i relativi infissi). C’è stato però un
forte cambiamento relativamente alle “essenze legnose” utilizzate
e, soprattutto, alla loro provenienza. Si è diffuso l’uso del pino
douglas (di origine USA), il pino russo (dalla Russia), lo yellowpine
(dal Canada) e il pino svedese (dalla Svezia).
La tradizione della produzione di
porte, finestre e infissi non è andata persa perché, a vedere i
cartelloni pubblicitari lungo le strade del territorio (ma ne ho
anche esperienza diretta) è molto diffusa questa produzione, anche
se adesso i materiali sono soprattutto l’alluminio e il
polivinilcloruro (PVC).
Conclusioni
Il titolo dato a questo lavoro, cioè
“Case arredate a km zero”, in base a ciò che è stato detto,
penso sia abbastanza appropriato, perché buona parte del materiale e
dei prodotti che servivano per costruire e arredare le case (dai
mattoni alla calce, dal combustibile alla mobilia) proveniva o
dal paese o dalle sue immediate vicinanze. Inoltre, nel caso i
materiali provenissero da fuori dal paese (come il legno), bisogna
notare che il viaggio aveva la caratteristica di essere di sola
andata: cioè i prodotti ottenuti con questi materiali non prendevano
altre destinazioni ma erano utilizzati sul posto (come la mobilia).
Dei vari materiali che adesso si usano
per costruire e arredare le case non c’è niente che ha origini
locali. Non so da dove provengano i mattoni forati, il cemento, la
calce che servono per le costruzioni edili nel territorio del
paese: so solamente che ciò che rende possibile la loro manifattura
e il loro arrivo si chiama petrolio, un combustibile che fino a
qualche tempo fa è stato abbondante e a buon mercato.
E’ il caso che si riveda il modello
di sviluppo che finora ha guidato l’economia!!
2 commenti:
ottimo articolo,
magari un giorno si riprenderà questa produzione a km zero e tanti mestieri scomparsi finalmente rifioriranno, creando nuove opportunità di lavoro
Fa piacere leggere queste cose. Sapere di persone che benché in vacanza fanno ricerca storica e sono appassionati di capire quello che le circonda.
Esattamente uguali a quelle che vanno alle Maldive, vedi nostri parlamentari, mentre l'Italia affonda.
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