domenica, gennaio 15, 2012

Case arredate a chilometro zero


Di Armando Boccone


Il titolo di questo lavoro fa riferimento a quelle nuove modalità di approvvigionamento di prodotti seguite da ristoranti, pizzerie, negozi di frutta e verdura, oppure dalle famiglie, che decidono di utilizzare soprattutto ortaggi, verdura, formaggi, carni, uova prodotti nel territorio circostante, rivolgendosi direttamente ai produttori locali. 
 In questo modo si vogliono raggiungere molti obiettivi come quello di evitare che i prodotti facciano il giro del mondo prima di giungere sulla tavola (con enorme consumo di combustibili, e produzione di inquinamento), quello di consumare prodotti freschi di stagione, favorire le produzioni locali.
Sono iniziative molto interessanti anche se, quasi sempre, è impossibile approvvigionarsi nel territorio circostante di tutti i prodotti che servono. Quando si parla per esempio, di “pizza a km zero” è ovvio che non tutto potrà provenire dal territorio circostante, come per esempio la farina e l’olio, ma che molti ingredienti (dalle mozzarelle, al prosciutto e ai tanti ingredienti con cui si guarniscono le pizze) provengono dal territorio circostante. Per la verità di ogni prodotto bisognerebbe vedere anche la provenienza dei vari ingredienti. Per esempio il prosciutto potrebbe venire da un produttore locale mentre la coscia di maiale, da cui si è partiti, potrebbe essere venuta addirittura dall’estero. La stessa cosa potrebbe dirsi delle mozzarelle, che potrebbero essere fatte con latte o prodotti intermedi provenienti dall’estero, oppure della farina, fatto con grano, che, per esempio, potrebbe venire dal Canada.
Nonostante i limiti appena detti queste iniziative sono molto interessanti ed è bene che continuino a svilupparsi.

Questa estate come ogni anno, con la mia compagna, ho trascorso una ventina di giorni di ferie al mio paese di nascita in Lucania. Da qualche tempo avevo già pensato di fare una ricerca sul modo in cui in passato al mio paese si costruivano e si arredavano le case, prestando particolare attenzione alla distanza che i materiali, i componenti e i prodotti finiti avrebbero dovuto percorrere prima di entrare a fare parte delle case stesse. La distanza significa consumo di energia per il trasporto, soprattutto per materiali (in linea di massima) pesanti e di modesto valore come quelli necessari per costruire e arredare le case. Considerando i tempi che ci aspettano, che saranno contraddistinti da difficoltà nell’approvvigionamento di combustibili fossili, quello del consumo di energia sarà infatti uno dei problemi più importanti di cui tenere conto. Insieme e strettamente connesso a questo problema c’è anche quello della reintroduzione, nei limiti del possibile, delle tecnologie produttive usate in passato.
Starà a voi lettori di questo lavoro stabilire se sia appropriato o meno il titolo “Case arredate a km zero!” che gli è stato dato.


Foto 1:  Tipiche case tradizionali del mio paese


E' bene esporre preventivamente il metodo che ho seguito in questo lavoro. Oltre a portare alla luce i miei ricordi di infanzia in merito, ho fatto delle interviste a muratori e falegnami, nel paese ho fotografato le case (sia all’esterno che all’interno) e nel territorio sono andato alla ricerca e ho fotografato i posti da cui venivano i materiali utilizzati. Molto importanti sono state due interviste: la prima fatta a un muratore-fornaciaio (mi pare avesse 87 anni) e la seconda a un mio amico falegname. Queste due interviste sono state due vere e proprie miniere di informazioni, che mi hanno anche aiutato a indirizzare il prosieguo della ricerca.
Tutto ciò che verrà detto sulla costruzione delle case, delle porte e finestre e della mobilia, si riferisce a un periodo che arriva circa alla fine degli anni ’50 del secolo scorso. Le eventuali discordanze nelle risposte alle interviste fatte a diversi muratori e falegnami forse dipendono dal diverso periodo a cui facevano riferimento.

Le case del mio paese

Escludendo le case signorili ed edifici particolari (come scuole, conventi, ecc.) le case tradizionali del mio paese erano essenzialmente di due tipi: a “cannizzo” e a “lammia”.


Foto 2: La copertura di una casa a “cannizzo”

Le case a “cannizzo” erano così dette per la copertura rappresentata da un cannicciato che poggiava su una trave principale, che andava dalla parte posteriore a quella anteriore della casa e da tanti travetti che si appoggiavano da una parte sui muri laterali e dall’altra sulla trave principale. Le canne del “cannizzo” erano legate fra di loro da giunchi o da rametti di ginestra. Sopra il cannicciato veniva messo uno strato di due centimetri di malta impastata con paglia. Sopra lo strato di malta venivano messi i coppi (il maestro muratore-fornaciaio precisa che ci volevano 32 coppi per ogni metro quadrato di tetto). La copertura poteva essere fatta con le “chianelle”al posto del “cannizzo”: le “chianelle” (che sono dei mattoni di cm 2,5x18x45) venivano disposti sui travetti. Sopra le chianelle infine veniva disposto un strato di cm 0,5 di malta su cui poggiavano i coppi.
Il paese non è pianeggiante per cui succede che ci sia una sopraelevazione, cioè un’altra casa, a cui si accede dalla strada posta a monte della prima casa. In questo caso la copertura della casa di sotto non è fatta a “cannizzo” ma a “lammia”, cioè la volta è fatta di mattoni messi in taglio. Fra la volta principale e i muri laterali venivano fatte altre due volte con mattoni disposti in taglio. In alcuni casi venivano ricavati dei vani fra le volte piccole e quella grande. Sopra le volte piccole veniva pareggiato con terra in modo che poi venisse poggiato il pavimento della casa di sopra.

La provenienza dei materiali

Da dove provenivano i materiali finora incontrati? (il riferimento è alla copertura della case a “cannizzo”). Le canne provenivano dal territorio circostante. In ogni zona umida (come lungo i fossi di scolo) ci sono canneti. Anche i giunchi e le ginestre erano diffuse sul territorio. Prima di essere utilizzate dovevano essere seccate e lavorate.
Alla domanda “ma non si poteva usare lo spago per legare le canne?” tutte le persone intervistate hanno detto “… e chi te lo dava!”. Lo spago penso fosse fatto di canapa, che è una pianta che non veniva coltivata nel territorio di cui stiamo parlando, e probabilmente doveva essere importato dal nord Italia.

Da dove venivano invece le travi e i travetti? Il mio amico falegname dice che venivano dalle segherie disposte sull’Appennino calabro-lucano (un altro falegname ha detto invece che venivano dal nord Italia ma probabilmente si riferiva a un periodo successivo agli anni cinquanta del secolo scorso).

La struttura delle case


Foto 3: Facciata di casa

I muri delle case erano fatti di pietre raccolte nelle immediate vicinanze del paese. Per le case di campagna invece le pietre venivano raccolte nelle vicinanze di queste stesse case. Un mio amico, vecchio muratore, mi ha detto che quando era ragazzino andava a raccogliere le pietre e che quando raggiungeva il “metro cubo” le consegnava a un rivenditore di materiali edili. Parte della struttura, come gli stipiti su cui si incardinavano le porte e le finestre, l’arco sulla porta, il focolare, i pavimenti, gli archi interni e la copertura (nelle case a “lammia”) erano invece fatte di mattoni. Solamente dopo gli anni ’50 si iniziò a costruire case completamente di mattoni.
I mattoni utilizzati nella costruzione delle case nel paese venivano fatti in dieci fornaci (di cui il signore muratore-fornaciaio mi indica l’esatta ubicazione e i nomi dei proprietari) disposte intorno al paese stesso: alcune erano a poche decine di metri dall’abitato mentre le due più lontane erano distanti a circa un chilometro. Per le case costruite in campagna i mattoni provenivano da fornaci disposte nelle campagne stesse. Non si poteva fare altrimenti perché, mi dice il signore muratore-fornaciaio, un asino poteva portare poche decine di mattoni per ogni viaggio (il signore mi ha indicato il numero preciso ma ho dimenticato di scriverlo) per cui il costo per la costruzione della casa sarebbe lievitato parecchio.
Le pietre venivano “messe in opera” utilizzando una malta fatta di terra tola impastata con acqua. La terra tola era la comune terra. Visto i materiali “poveri” che li componevano era necessario che i muri avessero lo spessore di 60 oppure 80 cm.
Nel caso di abitazioni con sopraelevazioni era necessario che si usasse la malta cementizia, cioè una malta fatta con “semmola“ (una sabbia di colore paglierino), calce e acqua. Senza la malta cementizia i muri non avrebbero sopportato il peso della sopraelevazione.

I mattoni, la calce e la malta

I mattoni e i coppi che servivano per fare le case del paese venivano fatti, come è stato già detto, in dieci fornaci disposte nelle vicinanze dell’abitato. Le fornaci sorgevano vicino ad alture di argilla, da cui si estraeva appunto l’argilla per fare i mattoni e i coppi. Questi, prima di venire cotti nelle fornaci, venivano essiccati al sole.
Il signore muratore-fornaciaio è estremamente preciso nella descrizione della creazione della fornace. Si scavava una buca di circa quattro metri di diametro e profonda quattro metri; in seguito si proseguiva lo scavo, dopo avere ristretto il diametro di 25 cm, per altri 1,5 metri. Quest’ultimo volume creato avrebbe costituito il “fornello”, dove sarebbe avvenuta la combustione di vari materiali. Sulla corona di 25 cm si creava una volta di mattoni disposti a punta e tenuti con un po’ di malta, lasciando di tanto in tanto delle aperture da cui sarebbe venuto il calore del fuoco acceso nel “fornello” sottostante. Il signore muratore-fornaciaio mi dava indicazioni molto precise sulla grandezza delle aperture e sulla distanza fra di esse.
Sulla volta si disponevano in taglio i mattoni da cuocere, lasciando un po’ di spazio fra l’uno e l’altro. Sopra il primo strato di mattoni se ne disponeva un altro disponendolo un po’ sfalsato rispetto al primo. Si continuava così fino alla volta superiore della fornace. Una fornace delle dimensioni indicate era capace di accogliere circa 20.000 mattoni, del peso complessivo di 600 quintali (il peso ovviamente diminuiva dopo la cottura).
Si raggiungeva la temperatura di 900-1.000 gradi centigradi. Bisognava stare attenti affinché non si superasse questa temperatura pena la “liquefazione” dei mattoni e la caduta della volta su cui poggiavano.
La cottura durava 36 ore e il fuoco veniva alimentato in continuazione introducendo nel “fornello”, attraverso una trincea laterale, vari tipi di combustibili.
Per cuocere mille mattoni ci volevano circa 8 quintali di combustibile vario.

In che cosa consisteva il combustibile utilizzato e da dove proveniva?
Era formato da frasche, paglia, legna, sansa di olive e altro e proveniva dal territorio del paese. La sansa di olive per la precisione proveniva dai numerosi frantoi esistenti nel paese. La paglia veniva dalla trebbiatura del grano mentre le frasche provenivano da un arbusto molto diffuso in zona (il lentisco) e dalla potatura degli ulivi (di cui il territorio è molto ricco). Un mio amico che da ragazzo aveva lavorato in edilizia ha detto che si utilizzavano anche copertoni dismessi di camion (ma probabilmente si riferiva a un periodo successivo agli anni cinquanta del secolo scorso).

Per “fabbricare” i muri veniva usata la malta. Per i muri di pietre veniva usata la comune malta (terra impastata con acqua), Nel caso di sopraelevazioni o di case fatte completamente di mattoni veniva usata la malta cementizia, cioè fatta di “semmola” impastata con calce e acqua. La “semmola”, come già accennato, è una sabbia di colore paglierino e veniva recuperata nelle immediate vicinanze del paese, in una fascia di poche centinaia di metri.
La calce invece veniva fatta utilizzando le pietre di una cava distante 10-15 km dal paese e cotte in due fornaci disposte vicino alla cava. C’erano altre fornaci disposte nel territorio pianeggiante a valle di questa cava. Le pietre, in questo caso, erano raccolte lungo i fossi che convergevano verso il fiume.


Foto 4: La cava detta “La petrodda”

Il signore muratore-fornaciaio mi parla dettagliatamente del modo in cui si preparava la fornace in cui sarebbero state cotte le pietre per trasformarle in “calce viva” : si scavava una buca di 3 metri di diametro e profonda 4 m; si lasciava uno spazio in fondo alla buca (il fornello); si creava una trincea laterale da cui si sarebbe introdotto il combustibile; si creava una volta con le pietre stesse che si sarebbero cotte, fino ad arrivare alla sommità della buca; sopra ovviamente si creava una volta per la chiusura. La cottura delle pietre per trasformarle in calce viva durava continuativamente per circa 100 ore (4 giorni circa). Il signore muratore-fornaciaio mi dà ovviamente informazioni molto dettagliate sulla scelte delle pietre da utilizzare e di quelle che invece bisognava scartare e su tante altre cose.
La calce viva così ottenuta doveva essere "spenta” in vasche piene di acqua: solamente in seguito era possibile utilizzarla per impastarla con la “semmola” e l’acqua per ottenere la malta cementizia. Probabilmente la vasca in cui spegnere la calce viva veniva fatta sul cantiere su cui sarebbe sorta la casa (ho una esperienza diretta in merito). Nel paese c’erano anche rivenditori di calce spenta: questi rivenditori acquistavano la calce viva e poi la spegnevano in grosse vasche disposte nella parte ipogea della loro casa.
Ma quali erano le caratteristiche tecniche della malta cementizia e della malta fatta con la terra tola? Ho visto che quest’ultima si sbriciola con la semplice pressione delle dita mentre la malta cementizia oppone una notevole resistenza ai colpi di martello (ho praticamente fatto queste prove!).
Per quanto riguarda il combustibile utilizzato nelle fornaci in cui si cuocevano le pietre per ottenere la calce viva probabilmente un posto privilegiato l’aveva il lentisco, un grosso arbusto da cui si fa una ottima legna. Probabilmente dipende da questo uso che il territorio circostante è privo della copertura di lentisco che è invece presente nei territori più distanti.
La calce prodotta dalle fornaci del paese probabilmente non bastava per le sue esigenze per cui veniva anche “importata” dai primi paesi della vicina Puglia.
Dagli inizi degli anni sessanta in poi le case (quasi tutte con sopraelevazioni) venivano fatte completamente di mattoni e quasi contemporaneamente iniziò la costruzione di case con i pilastri di cemento armato, con uso di vari tipi di mattoni forati per le tamponature esterne e interne (cioè per i muri esterni, non più “portanti”, e i muri divisori interni). E’ sempre dagli anni sessanta che si diffonde, per costruzioni non di qualità (soprattutto per le case di campagne e i capannoni), l’uso del tufo, proveniente dalla zona di Matera.

Porte, finestre e mobilia


Foto 5: Mobilia

Le porte esterne, le porte interne (dette bussole), le finestre e la mobilia venivano tutte fatte dalle falegnamerie del paese.
Quando una giovane coppia metteva su casa andava dal falegname per ordinare la mobilia. La mia compagna, che ha letto qualcosa sulla storia del paese, mi dice che l’acquisto della mobilia gravava sullo sposo (mentre la casa, mi pare, gravasse sulla sposa). Al falegname ovviamente venivano indicate i componenti dell’arredamento (armadio, comò, cristalliera, una grossa cassa, il letto con due colonnette, ecc. [mi pare che il numero dei componenti della mobilia fosse fisso per ogni casa]), il legno da usare, le caratteristiche tecnico-qualitative, ecc.
A giudicare da quella che ho visto in vecchie case, la manifattura della mobilia è di qualità e, nonostante fosse stata fatta 80-100 anni fa, ancora in perfetto stato di conservazione ed efficienza.

Ma quali erano le “essenze legnose” utilizzate per fare porte, finestre e mobilia? Ma, soprattutto, da dove provenivano?
Venivano usati soprattutto il pioppo (di origine locale e dalla Calabria), il noce nazionale (proveniente da Campania, Calabria e Lazio) e l’abete (dal nord Italia). Il mio amico falegname dice che negli anni ’20 e ’30 si è usato anche (probabilmente per poche produzioni di alta qualità) il mogano, proveniente dall’India, e il noce satinato, di origini americane.
La produzione di mobilia da parte dei falegnami del paese è avvenuta fino alla fine degli anni Cinquanta. In seguito è iniziata l’importazione dal nord e centro Italia. Le cose sarebbero potute andare diversamente: queste falegnamerie si sarebbero potuto ingrandire e iniziare a esportare i loro prodotti nel nord e centro Italia. Nel 1860 fu deciso invece che le cose sarebbero dovute andare così come sono effettivamente andate!! Da circa un paio di decenni è iniziata l’importazione (ma in discorso vale adesso per tutta l’Italia) anche dall’estero.
Alla fine degli anni ’50, come si è detto, è terminata la produzione di mobilia da parte delle falegnamerie del paese. E’ continuata invece la produzione di porte e finestre (ovviamente con i relativi infissi). C’è stato però un forte cambiamento relativamente alle “essenze legnose” utilizzate e, soprattutto, alla loro provenienza. Si è diffuso l’uso del pino douglas (di origine USA), il pino russo (dalla Russia), lo yellowpine (dal Canada) e il pino svedese (dalla Svezia).
La tradizione della produzione di porte, finestre e infissi non è andata persa perché, a vedere i cartelloni pubblicitari lungo le strade del territorio (ma ne ho anche esperienza diretta) è molto diffusa questa produzione, anche se adesso i materiali sono soprattutto l’alluminio e il polivinilcloruro (PVC).

Conclusioni

Il titolo dato a questo lavoro, cioè “Case arredate a km zero”, in base a ciò che è stato detto, penso sia abbastanza appropriato, perché buona parte del materiale e dei prodotti che servivano per costruire e arredare le case (dai mattoni alla calce, dal combustibile alla mobilia) proveniva o dal paese o dalle sue immediate vicinanze. Inoltre, nel caso i materiali provenissero da fuori dal paese (come il legno), bisogna notare che il viaggio aveva la caratteristica di essere di sola andata: cioè i prodotti ottenuti con questi materiali non prendevano altre destinazioni ma erano utilizzati sul posto (come la mobilia).
Dei vari materiali che adesso si usano per costruire e arredare le case non c’è niente che ha origini locali. Non so da dove provengano i mattoni forati, il cemento, la calce che servono per le costruzioni edili nel territorio del paese: so solamente che ciò che rende possibile la loro manifattura e il loro arrivo si chiama petrolio, un combustibile che fino a qualche tempo fa è stato abbondante e a buon mercato.
E’ il caso che si riveda il modello di sviluppo che finora ha guidato l’economia!!

2 commenti:

Antonio ha detto...

ottimo articolo,
magari un giorno si riprenderà questa produzione a km zero e tanti mestieri scomparsi finalmente rifioriranno, creando nuove opportunità di lavoro

Anonimo ha detto...

Fa piacere leggere queste cose. Sapere di persone che benché in vacanza fanno ricerca storica e sono appassionati di capire quello che le circonda.
Esattamente uguali a quelle che vanno alle Maldive, vedi nostri parlamentari, mentre l'Italia affonda.