martedì, maggio 29, 2007

L'inarrestabile marcia del cinquino elettrico


Continua l'epica marcia verso Roma del cinquino elettrico di Pietro Cambi, accompagnato da Corrado Petri. Da Corrado, ci arriva questa cronaca. Niente sembra in grado di fermare i nostri eroi! La saga continua............

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Cari amici, vi annuncio che Pietro Cambi sta puntando verso Grosseto, toccando punte 90 km/h dopo una nottata da test di sopravvivenza. Questa notte gli è saltato un fusibile, banalmente sottodimensionato, a metà di una salita della Firenze-Siena, in piena curva.

Insieme abbiamo atteso un paio d’ore il carroattrezzi, sotto una pioggia battente, dopodiché, in un garage di Siena Nord, fradici da capo a piedi abbiamo fatto le 4 per sostituire il portafusibile, danneggiato, e per installare un amperometro.

Pietro ha dormito su due sedie, con i piedi su una Beta Montecarlo.

Corrado Petri



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lunedì, maggio 28, 2007

La Lunga Marcia della propulsione elettrica


Inizia domani la Lunga Marcia della propulsione elettrica con la formazione dell'Asse Roma-Bruxelles!

Parte domani da Firenze per Roma con il suo ormai mitico cinquino elettrico, Pietro Cambi, proprietario del veicolo e promotore dell'iniziativa insieme a un gruppo di soci ASPO-Italia. L'avventuroso viaggio, mai prima tentato da un veicolo elettrico retrofittato, lo porterà fino a di fronte al palazzo del parlamento per supportare l'azione volta a fare approvare un emendamento che liberalizza il "retrofit elettrico" ovvero la trasformazione dei veicoli esistenti in veicoli a propulsione elettrica a emissione zero. L'emendamento corregge una stortura della legge attuale che permette di trasformare veicoli a benzina in veicoli alimentati a gas naturale o a gpl, ma non in veicoli alimentati a energia elettrica (che, fra l'altro, sono molto più sicuri).

Nel frattempo, Ugo Bardi (il sottoscritto) si dirige domani, sempre da Firenze, verso un'altra capitale (Bruxelles) per illustrare il progetto "RAMSES" al convegno "eledrive", dove si raduna il Gotha della propulsione elettrica europea e si fanno progetti per la grande transizione che ci libererà prima o poi dal puzzo e dal costo dei combustibili fossili. Il progetto RAMSES, coordinato dal segretario di ASPO-Italia, Toufic el Asmar, va a agire sul punto focale dell'economia del futuro proponendo di rinnovare l'agricoltura attraverso l'integrazione di un sistema di energia rinnovabile che comprende anche un trattore elettrico. Oltre a parlare di trattori elettrici, farò vedere anche il mitico cinquino!

Insomma, grande movimento di ASPO-Italia per trovare soluzioni ai grossi problemi che abbiamo di fronte. Viene voglia di dire "tié!!" (insieme al gesto appropriato) a tutti quelli che ci danno di mugugnoni catastrofisti! Unico neo, a Bruxelles ci vado in aereo, non proprio il massimo come emissioni zero...... In ASPO-Italia si era parlato di un dirigibile elettrico; dateci un po' di tempo e vedremo di tirar fuori anche qualcosa del genere.

Nel frattempo, passo la parola a Francesco Meneguzzo (anche lui membro di ASPO-Italia), che ci descrive in dettaglio l'iniziativa di Roma. L'approvazione dell'emendamento non sarà cosa ovvia, come leggerete. Sembra che alcuni dei nostri politici siano intenzionati a proteggerci dai grandi pericoli che potrebbero derivare dai veicoli elettrici retrofittati. Non possiamo che ringraziarli per tanta pena per la nostra salute difendendoci da veicoli che non portano niente di infiammabile, hanno zero emissioni di inquinanti e sono economici ed efficienti........

Se qualcuno ha modo di essere alla manifestazione a Roma, è utile far vedere l'interesse nell'iniziativa!

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Cronaca di una liberalizzazione ecologica ed economia
Di Francesco Meneguzzo - 27 Maggio 2007

L'origine di quella che, se approvata, sarà ricordata come la storica "liberazione" della trazione elettrica dei veicoli circolanti su strada dal giogo del nulla osta delle case costrutrici, parte da una idea apparentemente folle maturata nella comunità ASPO Italia, realizzata da alcuni volenterosi come Pietro Cambi, Ugo Bardi, Massimo De Carlo, Corrado Petri, Riccardo Falci e altri.

L'idea che per abbattere il muro della nicchia in cui è ristretto il settore dei veicoli elettrici fosse necessario passare per la trasformazione di quanti più possibile dei veicoli circolanti; in teoria pareva possibile, e i nostri eroi ci sono riusciti davvero!

E' così che ai primi di maggio 2007 vedeva la luce la Fiat Cinquecento convertita all'elettrico, presentata in anteprima assoluta dal 18 al 20 maggio in Piazza Santa Croce nel corso della Mostra Internazionale dei veicoli a emissione zero!!!

In questa occasione, il glorioso "Cinquino" rinato a nuova vita in versione elettrica incontrava un personaggio in ascesa dell'ecologismo politico nazionale, quel Fabio Roggiolani che come Responsabile dell'Ufficio nazionale del Programma dei Verdi italiani ha da qualche mese assunto un rilievo nazionale di primo piano e non soltanto nell'ambito dei Verdi. L'incontro ha avuto l'effetto di un terremoto, e l'imperativo è stato immediatamente quello di trasformare un grande successo tecnico in una opportunità straordinaria per il Paese.

Si trattava allora di trovare la chiave per realizzare concretamente questa opportunità e - incredibile ma vero - si presentava un'occasione irripetibile: il Disegno di Legge Bersani e altri, “Misure per il cittadino consumatore e per agevolare le attività produttive e commerciali, nonché interventi in settori di rilevanza nazionale”, che è in questi giorni all’esame della Camera, ivi identificato dal numero 2272: http://www.camera.it/_dati/lavori/schedela/trovaschedacamera_wai.asp?PDL=2272

Roggiolani si è messo subito al lavoro, insieme agli stessi amici di ASPO Italia, compreso Leonardo Libero, Direttore editoriale della rivista Energia dal Sole e da lungo tempo profondo conoscitore dei veicoli elettrici, producendo un Emendamento da presentare alla Camera, nella discussione che da martedì 29 a giovedì 31 maggio porterà all'approvazione del DDL, che poi passerà all'esame del Senato. Se approvato, questo emendamento potrà portare alla riconversione di centinaia di migliaia, se non milioni, di veicoli circolanti all'elettrico, al definitivo sviluppo del settore dei veicoli elettrici anche nuovi, al miglioramento della qualità dell'aria e alla diminuzione strutturale del fabbisogno energetico nazionale, allo sviluppo di un vastissimo settore economico delle riconversioni, dei servizi, dell'indotto industriale e artigianale legato ai componenti e alla ricarica.

Grazie alla collaborazione dei tecnici del Gruppo Verdi della Camera dei Deputati, facenti capo all'On. Giuseppe Trepiccione, membro della X Commissione "Attività Produttive, Commercio e Turismo" e al Capogruppo On. Angelo Bonelli, l'emendamento ha assunto la forma finale illustrata di seguito, che i Verdi intendono difendere come propria priorità sia alla Camera che al Senato:


EMENDAMENTO AL DdL “BERSANI E ALTRI” (N. 2272)

all’articolo 3 del comma 1 al capoverso art.78 (Modifiche delle caratteristiche costitutive dei veicoli in circolazione e aggiornamento della carta di circolazione) dopo il comma 4 aggiungere il seguente comma 5:

“5. Per le modifiche delle caratteristiche costruttive, limitatamente alla trasformazione dei veicoli in circolazione delle categorie internazionali L, M1 ed N1 in veicoli elettrici, intendendo per veicolo elettrico un veicolo la cui trazione sia ottenuta esclusivamente mediante un motore elettrico di qualsiasi tipo alimentato da batterie di qualsiasi tipo, e per batteria un dispositivo che accumuli energia elettrica e reversibilmente la ceda, devono altresì essere rispettate le seguenti condizioni:
a) I componenti elettrici devono rispettare, ove di pertinenza, le prescrizioni contenute nelle norme tecniche stabilite dal Comitato Elettrotecnico Italiano, l’Ente riconosciuto dallo Stato Italiano e dall'Unione Europea alla normazione tecnica nei settori elettrotecnico, elettronico e delle telecomunicazioni;
b) il peso massimo a pieno carico e la potenza del motore elettrico del veicolo trasformato non devono essere superiori a quelli del veicolo omologato circolante antecedentemente alla trasformazione;
c) il rispetto delle condizioni di cui alle precedenti lettere a) e b) è certificata da apposita relazione, redatta e realizzata in conformità alla norma CEI-02, e in conformità a disposizioni tecniche previste da eventuali direttive comunitarie ovvero, ove esistenti, da equivalenti regolamenti ECE/ONU, è firmata da professionista o tecnico iscritto all’albo professionale, ed è trasmessa al Ministero dei trasporti;
d) chiunque circola con un veicolo al quale siano state apportate le modifiche previste nel presente comma, senza che le modifiche stesse siano state realizzate nel pieno rispetto delle precedenti lettere a), b) e c), è soggetto alle sanzioni di cui al comma 4;
e) un veicolo in circolazione trasformato in veicolo elettrico secondo le disposizioni del presente comma, può accedere a tutte le agevolazioni e incentivazioni di natura nazionale, locale, regionale e comunitaria eventualmente vigenti o successivamente emanate, riferite ai veicoli elettrici.”

Presentato dall'On. Giuseppe Trepiccione, Deputato dei Verdi e membro della X Commissione "Attività Produttive, Commercio e Turismo".


L'approvazione non è scontata, anche per i rilievi che la IX Commissione "Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici" ha espresso sulla versione originale dell'articolo 3: http://www.camera.it/_dati/lavori/schedela/apriTelecomando_wai.asp?codice=15PDL0027610
e che in sostanza intendono limitare l'ambito delle trasformazioni "liberalizzate" agli interventi di "estetica" e "sportivi", per ragioni di sicurezza stradale.

E' vero che questi rilievi, che se passassero depotenzierebbero completamente gli obiettivi della norma, riguardavano la versione originale dell'articolo 3 e quindi non l'emendamento previsto, e che quest'ultimo prevede di non superare peso e potenza del veicolo prima della trasformazione, tuttavia qualche apprensione può essere giustificata.

Al fine di sostenere la battaglia per l'approvazione dell'emendamento, e dimostrare che non si tratta di una mera questione di astratto principio "ecologista", un gruppo di "Aspisti", insieme ad amici Verdi e altri volenterosi, realizzeranno un sit-in, aperto a tutti, di fronte alla Camera dei Deputati il giorno mercoledì 30 maggio, fin dalle 9 del mattino, intorno al Cinquino elettrico e a materiale informativo che dimostra le potenzialità della riconversione del parco circolante alla trazione esclusivamente elettrica, a partire dai veicoli "Euro zero", destinati altrimenti alla rottamazione, pratica abusata negli anni, anzi ormai nei decenni, causa di costi enormi per i cittadini, costretti a un nuovo acquisto, e per la collettività, costretta a smaltire i rifiuti prodotti, con dubbi vantaggi per l'ambiente e la qualità dell'aria.

C'è molto di più... per portare il cinquino elettrico a Roma, Pietro Cambi compirà la lunga marcia sulla A1, martedì 29 maggio, ricaricando più volte le batterie, in quello che potrebbe essere il più importante "viaggio ecologico" della storia, forse non per lunghezza e durata, forse non per il bilancio energetico complessivo, ma certamente per l'immensa portata delle sue conseguenze...

TU CHIAMALE SE VUOI... EMOZIONI !!!

sabato, maggio 26, 2007

Tutto quello che leggi è falso

Questo è un post in po' filosofico che deriva da una discussione che c'è stata sul forum ASPO-Italia, "petrolio"


Qualche anno fa, ero a un convegno sulla pace e sulla guerra e mi capitò di sentire l'intervento di qualcuno che aveva letto sul giornale la storia delle "kamikaze pentite". Secondo la storia, due ragazze palestinesi avevano già pronti gli esplosivi e pensavano di farsi esplodere in una strada affollata "nel cuore di Tel Aviv" per il capodanno ebraico. A un certo punto, però, si erano rese conto della follia di quello che stavano per fare e avevano deciso invece di consegnarsi alla polizia israeliana. Chi parlava raccontò di essersi commosso, addirittura fino alle lacrime, nel leggere questa storia. Da questo, fece delle deduzioni sulla situazione politica in palestina sostenendo fra l'altro che il pentimento delle due kamikaze indicava un prossimo esaurirsi del conflitto.

Mi ricordo che, nella discussione che seguì, commentai esprimendo scetticismo sulla veridicità della storia. Questo suscitò una discussione in cui mi fu chiesto che motivi avessi di ritenere falsa la storia. Dissi che non ne avevo ma che, semplicemente, non mi suonava vera. Qualcuno si dichiarò daccordo con me, ma molti dissero che il mio scetticismo era eccessivo.

Il giorno dopo, andai a verificare la storia su internet e, dopo una piccola ricerca, venne fuori che, come mi aspettavo, le lacrime sulle "terroriste pentite" erano state sprecate. La notizia vera era apparsa in un giornale israeliano qualche giorno prima ed era tutta un'altra cosa. Si poteva leggere che due ragazze palestinesi si erano presentate spontaneamente alla polizia israeliana quando avevano saputo di essere sospettate di appartenere a un gruppo terroristico. Nel farlo, avevano proclamato la loro totale estraneità ai fatti di cui erano accusate. Tutto il resto dell'articolo dell'Avvenire era inventato: le bombe già pronte, l'attentato previsto nel cuore di Tel Aviv, la data del capodanno ebraico, il pentimento delle ragazze e molti altri dettagli. Ovviamente, se le ragazze si erano dichiarate innocenti, non potevano essersi dichiarate anche pentite!

Scrissi queste cose al forum di discussione connesso a quel convegno e la risposta fu un silenzio tombale. Capisco che rendersi conto di aver pianto su un pentimento inesistente non è cosa piacevole, ma può anche succedere. L'importante è non ricascarci. Da questa storia, ricavai una regola che applico tuttora e che dice, più o meno: "tutto quello che leggi sui giornali deve essere considerato falso, a meno che non esistano prove del contrario"

Questa regola è del tutto ovvia per chi è nato e vissuto nei paesi dell'ex-Unione Sovietica, ma in Occidente si tende a dare un po' più fiducia ai giornali di quanto non facessero i lettori della Pravda ai tempi di Stalin. In fondo, però, la regola si può considerare una derivazione della famosa "legge di Andreotti" ("a pensar male, di solito ci si azzecca") il quale sa molto bene come vanno le cose da noi! La regola non è assoluta, ma implica semplicemente un sano scetticismo. Applicandola, si possono evitare molte delle prese di giro che ci vengono propinate quotidianamente. Ne ho avuto la riprova recentemente in una discussione che si è svolta nel forum "petrolio" di ASPO-Italia e di cui ora vi racconto.

E' successo che un certo accademico italiano ha pubblicato recentemente su un quotidiano nazionale una sua interpretazione della questione del cambiamento climatico. Ha sostenuto che l'intervento umano non ha alcuna importanza, che i pericoli sono stati esagerati dai catastrofisti, che è tutto un complotto, eccetera. Il tutto corredato di varie argomentazioni in apparenza scientifiche sulle inconsistenze delle attuali teorie, sulle incertezze dei dati e cose del genere.

Per chi si intende di queste cose, basta un'occhiata al testo del Nostro per rendersi conto che è una compilazione di cose vecchie e stranote, tutte già ampiamente sbugiardate dai veri esperti di clima. Però, è anche comprensibile che chi non ha avuto il tempo di approfondire l'argomento possa essere rimasto perplesso. Il fatto che l'autore fosse un professore universitario e le critiche apparentemente sensate hanno avuto il loro effetto. L'articolo è passato sul forum "Petrolio" di ASPO-Italia suscitando qualche dubbio. Non sarà mica vero, ha pensato qualcuno, che la storia del riscaldamento globale è un imbroglio? Non sarà davvero un complotto per costringerci a pagare più cara la benzina?

Bene, sono bastati due o tre interventi sul forum di ASPO-Italia per demolire le argomentazioni del nostro esimio accademico. Su argomenti come clima e energia, il forum fornisce un servizio anti-bufala pari a quello del molto apprezzabile Paolo Attivissimo. Ma, anche senza ricorrere al "servizio anti-bufale climatiche" del forum di ASPO-Italia, c'era qualche modo per non farsi impressionare dalle argomentazioni dell'articolo? In effetti si; bastava applicare la regola di cui dicevamo prima, ovvero un sano scetticismo sulle cose che si leggono sui quotidiani.

Pensateci un po'. Perché mai uno scienziato dovrebbe pubblicare una critica (apparentemente) scientifica ai concetti di base del riscaldamento globale su un quotidiano? Non è cosa da poco sostenere che la stragrande maggioranza dei climatologi planetari hanno torto marcio. Chi lo fa, deve avere in mano argomenti molto seri. Nel caso che li avesse veramente, di sicuro li pubblicherebbe su una rivista scientifica seria, come fanno in genere gli scienziati seri. Certo, uno scienziato può benissimo pubblicare una versione divulgativa del suo lavoro su un quotidiano, su un blog, o dove vuole, ma in questo caso deve citare le fonti , specialmente se quello che dice è fortemente controverso. Di questo, non si trova traccia nel testo di cui stiamo parlando. Quindi, bastava questo, anche senza troppe regole, per guardare con molto sospetto l'articolo se non semplicemente per consegnarlo direttamente al secchio della spazzatura.


Noterete che sono rimasto per ora sul generico, senza citare nomi. Infatti, lo scopo di questo articoletto non è far polemica con persone specifiche, ma più che altro consigliare qualche strategia per evitare di trovarsi presi in giro quando si legge qualcosa di cui non si è perfettamente competenti. Comunque, arrivati a questo punto, bisogna bene che citi le fonti, *altrimenti mi accuserete giustamente di scrivere io stesso spazzatura!

Allora il pezzo lacrimoso sulle "kamikaze pentite" dell'Avvenire (veramente degno del libro "Cuore") lo trovate qui. La notizia originale era apparsa sul "Jerusalem Post" del 14 Settembre del 2004 (purtroppo non è più disponibile su internet se non a pagamento). L'articolo del nostro accademico sul clima lo trovate su "Il Giornale" del 7 Aprile 2007. Una critica ben fatta a una versione precedente delle idee del Nostro la trovate su nimbus a opera di Luca Mercalli. Se volete approfondire questa discussione, vi potete iscrivere alla lista "petrolio" di ASPO-Italia



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venerdì, maggio 25, 2007

Perchè i veicoli elettrici non sono una fesseria




Con il successo strepitoso della 500 elettrica costruita da Pietro Cambi e da un gruppo di membri di ASPO-Italia, pensavo di riproporvi una riflessione che era già sul sito di ASPO-Italia da un anno. Eccola qua





Il mezzo elettrico funziona bene, non inquina e costa pochissimo per ogni chilometro percorso. Eppure, quando ne parli alla gente, spesso sorridono e scuotono la testa. Si, dicono, è una bella cosa, ma, insomma.... E' un aggeggio, un giocattolino, una scusa per sentirti la coscienza a posto, ma non è veramente una cosa seria.

Perchè invece, qualcuno continua, non ti occupi dei problemi veri dell'ambiente? Non è meglio lavorare sull'uso razionale dell'energia, sulle case passive, cogenerazione e cose del genere? E poi, tutto quello che fai è spostare l'inquinamento dalla marmitta alla centrale; non è meglio che invece prendi il tram (senza offesa)?

In sostanza, secondo alcuni questa storia del veicolo elettrico è proprio quel concetto che si può scrivere come una "fesseria" ma che nel linguaggio parlato comune viene descritto con un altro termine.

Forse, ma io non la vedo così. Anzi, la vedo esattamente al contrario. Il mezzo elettrico in generale, pubblico o privato che sia - è la chiave di volta per scardinare un sistema energetico basato sul petrolio; un sistema che ci sta facendo enormi danni fra effetto serra, inquinamento, esaurimento, guerre per le risorse e tutto il resto. E vi spiego perché.

La questione sta in una cosa che si chiama "feedback" che in italia si traduce a volte come "retroazione" ma che si usa più comunemente nella sua forma inglese. Feedback, quando è positivo, vuol dire che ci sono delle cose che interagiscono stimolandosi a crescere sempre di più. Se accendo un fiammifero, la fiamma scalda il legno dello stesso e fa crescere ulteriore fiamma. Se mi casca di mano, questo può generare ancora più fiamma, magari prende fuoco il divano. Da quello, sempre per feedback positivo, può prendere fuoco la stanza, e poi tutta la casa. In biologia, la crescita delle popolazioni è un tipico feedback positivo: più conigli ci sono, più nascono coniglietti. Più coniglietti nascono, più conigli ci sono, eccetera....

Nel caso del petrolio, la crescita rapida e tumultuosa della produzione dal secolo scorso fino agli anni 70 (7% in più all'anno) è stata certamente una questione di feedback positivo. Quando si cominciò ad utilizzare il petrolio come combustibile per motori, cominciarono a nascere tanti nuovi usi, ognuno dei quali rinforzava altri usi dello stesso. Dal petrolio si faceva l'asfalto per le strade, il che rendeva possibile usare più macchine, il che rendeva necessario altro petrolio. D'altra parte, per andare sulle strade asfaltate, ci vogliono gomme e ci si accorse che la gomma si poteva fare anche dal petrolio. Questo faceva si che ci fossero ancora più macchine, il che richiedeva più petrolio. Poi qualcuno si è accorto che col petrolio si faceva plastica, i sacchetti del supermercato, medicinali, fertilizzanti, insetticidi e un milione di altre cose, tutte che accelleravano la produzione di petrolio.

Non c'è da stupirsi se i veicoli elettrici, pure in uso fino agli anni 30, non hanno retto alla concorrenza del petrolio. Per l'elettricità non c'erano effetti di feedback positivo, anzi, i veicoli elettrici dipendevano dai combustibili fossili per la generazione di elettricità e quindi lavoravano per il petrolio anche loro.

Il feedback, e la crescita connessa del consumo di petrolio, è una cosa sotto molti aspetti apprezzabile e che ha, per esempio, ridotto costantemente i prezzi storici in moneta reale del petrolio fino al 1973 circa, fino al tempo delle crisi del petrolio. Se il petrolio non avesse i difetti che ha, in effetti, non potremmo che essere contenti di come sono andate le cose. Il problema è, come tutti sappiamo, che il petrolio si esaurisce gradualmente. Il meccanismo di feedback positivo ha funzionato finché c'era grande abbondanza di petrolio, ma a un certo punto l'aumento della domanda si scontra con la limitatezza dell'offerta: feedback negativo. Anche il fuoco più intenso deve esaurirsi prima o poi per mancanza di combustibile e la grande fiammata del petrolio, cominciata verso il 1850, poteva durare un paio di secoli al massimo. Oggi siamo già davanti all'inizio del declino.

Oltre al graduale esaurimento del petrolio, siamo anche di fronte a un problema forse anche più grave, quello del riscaldamento planetario causato dal petrolio e dagli altri combustibili fossili. Per non parlare poi delle guerre per le risorse in atto. In sostanza, dobbiamo sostituire il petrolio il prima possibile con qualche cosa che sia sostenibile, non inquinante, non generi effetto serra.

Ma perché il meccanismo di sostituzione funzioni bene, e rapidamente, bisognerebbe che si basasse su un meccanismo di feedback positivo altrettanto efficiente di quelli che hanno portato il petrolio alla sua attuale posizione dominante. Qui sta il limite di soluzioni basate sull'efficienza energetica. Per quanto possano essere interessanti cose come l'isolamento termico delle case o la cogenerazione, il loro problema è che dipendono ancora dal petrolio e dai fossili. Pur usando meno petrolio, non generano feedback positivi degni di nota e non sono in grado di generare quella "fiammata" di crescita che vorremmo .

Invece, consideriamo le fonti rinnovabili. Eolico, fotovoltaico, mini-idroelettrico, sono tutte sorgenti di energia che funzionano bene e che stanno crescendo a velocità fantastiche sfruttando l'interazione (un altro feedback positivo) con la rete di distribuzione elettrica esistente. Il fotovoltaico, per esempio, cresce a oltre il 20% l'anno nel mondo. Se potessimo mantenere questi ritmi di crescita per i prossimi 10-20 anni la transizione dai fossili alle rinnovabili sarebbe graduale e non traumatica.

Ma la base di potenza installata per le rinnovabili è ancora talmente piccola che questa crescita è fragile. Possiamo mantenere queste velocità di crescita fino a che non avremo sostituito in toto il petrolio? Non sarà facile e ci sono dei problemi che hanno a che fare con l'intermittenza dell'energia generata. Finchè la frazione di energia generata dalle rinnovabili è piccola, non ci sono problemi ad accomodarla nella rete. Ma quando si sorpassa il 20% circa, allora le cose si fanno difficili. Ovviamente, non si potrebbe fare una rete di distribuzione elettrica tutta a rinnovabili con la tecnologia attuale, altrimenti quando non tira vento o passa una nuvola, tutti resteremmo in black-out.

Si tratta allora di trovare dei metodi per immagazzinare l'energia prodotta dalle rinnovabili e restituirla quando necessario. Questo si può fare con delle batterie o altri mezzi, ma è un costo in più che si scarica su delle tecnologie che hanno bisogno di costare il meno possibile per essere competitive. Allora, ecco l'idea: prendiamo, come si suol dire, due pipistrelli con un fagiolo: utilizziamo le batterie dei veicoli stradali come metodo per immagazzinare l'energia rinnovabile. In fondo i veicoli stanno fermi per la maggior parte del tempo, e quando sono fermi possono essere utili lo stesso come serbatoi di energia. Per il momento, le batterie dei veicoli elettrici possono solo assorbire energia e non ridarla alla rete, ma nel futuro il concetto di "rete intelligente" (smart grid) dovrebbe far si che la rete assorba o generi energia sfruttando nel modo più efficiente tutte le sorgenti e i serbatoi di energia a cui è connessa.

In questo modo, possiamo generare un feedback positivo fra rinnovabili e veicoli elettrici. Più veicoli elettrici ci sono, più abbiamo modo di immagazzinare l'energia elettrica delle rinnovabili e, in più, generiamo una domanda di energia elettrica che favorisce l'istallazione di nuove rinnovabili. Più rinnovabili ci sono, meno costa l'energia elettrica e così possiamo fare più veicoli elettrici. Geniale, no?

Dirò di più, questo trucco di mettere insieme veicoli a batteria e energia rinnovabile è l'unico mezzo che abbiamo per tirarci fuori dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati. Se non troviamo un modo per sostituire il petrolio, tutto il sistema di trasporti rischia di andare in tilt a causa degli alti prezzi del petrolio attesi per i prossimi anni. Questo potrebbe far collassare tutta l'economia mondiale e la cosa non sarebbe piacevole neanche per chi ritiene che "piccolo è bello".

Quindi il veicolo elettrico è una cosa importante, vitale addirittura, è la chiave per uscire dal petrolio verso un mondo migliore, più tranquillo e più pulito. Non è una fesseria (e neanche quell'altro termine con cui si intende la stessa cosa). Proviamoci!



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Leggende sul Club di Roma

Fra le infinite leggende urbane che impestano le nostre povere teste subissate di fesserie, forse nessuna è più trincerata e difficile da sloggiare di quella che vuole che il Club di Roma abbia fatto delle "previsioni sbagliate" con il libro che nel 1972 fu pubblicato in Italia con il titolo "I Limiti dello Sviluppo".

Nonostante che la leggenda sia stata smentita più volte, nonostante che si continui a smentirla, niente da fare - la gente continua a ripetere le stesse cose. Proprio in questi giorni, è arrivato sul forum di discussione di ASPO-Italia un ulteriore esempio delle fesserie che si raccontano in proposito. Ve lo passo; merita un'occhiata in quanto è un esempio della confusione mentale alla quale si può arrivare. ("Rslds" sta per "rapporto sui limiti dello sviluppo")


Mi sembra che la voce di Wikipedia sulla relazione sui limiti dello sviluppo sia inesatta e ingiustificatamente assolutoria riguardo le errate previsioni del MIT e del CdR: (1) all'inizio del Rslds si cita U-Thant che nel 1969 prevedeva che se non si fossero bloccati subito corsa degli armamenti, crescita demografica e inquinamento, entro dieci anni la situazione sarabbe stata fuori controllo (mentre anche secondo i piu' allarmistici interventi dell'IPCC il punto di non ritorno non e' stato ancora raggiunto) (2) nella tabella sulle materie prime del Rslds si prevede nel 1972 che il petrolio sarebbe finito in 31 anni, sempre che il consumo non aumentasse, altre previsioni riguardano riserve non ancora note, fattore che non puo' esistere, perche' dall'inizio degli anni sessanta aggiungendo ai metodi tradizionali le ricognizioni con satelliti permettevano di sapere anche cosa c'era nel sottosuolo, senza possibili sorprese. Quindi previsioni sbagliate ce n'erano, e non riguardavano certo il 2100. Piuttosto il Rslds ripeteva ossessivamente di essere sbagliato, di basarsi su un modello ultrasemplificato e inadeguato (direi uno stretto parente dei modelli informatici con cui Mc Namara riusci' a perdere la guerra del Vietnam), che i dati disponibili erano insufficienti, come insufficiente era la conoscenza dei fenomeni di cui si parlava, che le loro previsioni non erano previsioni, che inoltre potevano spostarsi in avanti nel tempo, se non si rivelavano vere subito forse lo sarebbero diventate in seguito, etc etc. Ma non ostante tutto cio' pretendevano che li si prendesse sul serio, come se le loro previsioni stessero per avverarsi nei tempi da loro indicati. Se piu' gente avesse letto il Rslds probabilmente certe teorie strampalate avrebbero avuto meno successo

Non credo che mi sia mai capitato fra le mani un documento così sconclusionato, dove l'autore compara la guerra del vietnam a un modello economico aggregato e dal fatto che gli Americani l'hanno persa deduce che il modello economico era sbagliato. Notevole.

Va anche segnalata la frase "le ricognizioni con satelliti permettevano di sapere anche cosa c'era nel sottosuolo, senza possibili sorprese." che è un bellissimo esempio per dimostrare - se ce ne fosse stato bisogno - come sarebbe appropriato assicurarsi che ci sia un cervello inserito nella calotta cranica prima di lanciarsi a sostenere certe cose. A uno che crede seriamente che si possa scoprire il petrolio usando foto satellitarie non si può che suggerire di presentarsi alla prossima conferenza dei geologi petroliferi e spiegare a quei poveri allocchi che stanno perdendo tempo da decenni con i loro sondaggi e le loro trivellazioni. Basta che si connettano a Google Earth e troveranno facilmente i giacimenti che cercano. Stupendo. Così come è altrettanto stupenda l'immagine di questo tipo che emerge dalla conferenza coperto di pece e di piume. Chi conosce appena un po' i geologi petroliferi sa che questo sarebbe il minimo che potrebbe capitare a uno che sostenesse una cosa del genere.

Per finire, però, bisogna di nuovo andare a spiegare la faccenda della famosa tabella che conterrebbe le "previsioni sbagliate" del libro; quella che tutti citano. Ebbene, è una leggenda che ha origine nel 1986 con un articolo su Forbes di Ronald Bailey. Bailey ha fatto uso di uno dei trucchi propagandistici più semplici e più efficaci: andare a prendere una singola affermazione o un dato, citarla fuori contesto e usarla per demolire l'avversario. In questo caso, Bailey è andato a prendersi i numeri di una particolare colonna (la colonna 7) della tabella 4 del libro del 1972 e da questi numeri, interpretati a modo suo, ha demolito tutto il libro. Era, in primo luogo, disonesto andarsi a prendere proprio i numeri di quella colonna che, fra l'altro, erano gli unici che potevano essere intesi come "previsioni sbagliate". Le altre colonne davano numeri completamente diversi che non avrebbero potuto prestarsi all'accusa. Ma il punto era che nessuno di quei numeri era il risultato di una "previsione" fatta dagli autori del libro. Erano dati presi da una pubblicazione dell'USGS (united states geological survey) riportati li' per scopo illustrativo.

Tutto qui: da un grammo di verità, come al solito, si fa una tonnellata di bugie.


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giovedì, maggio 24, 2007

Ancora moduli, &%$%&&!


Il mio impianto fotovoltaico domestico, pronto ormai da quasi tre mesi, non ha ancora prodotto un solo kWh perché mancano i moduli per richiedere l'allacciamento alla rete. Dopo lunghe sofferenze e domande all'ENEL, mi hanno detto di usare i vecchi moduli per la domanda, quelli per il vecchio conto energia. Cosa che ho fatto due settimane fa; dopo di che non ho saputo più nulla.

Oggi, sorpresa: a distanza di più di tre mesi dall'uscita del decreto legge sul conto energia (del 19 febbraio) sono usciti i nuovi moduli per richiedere la connessione. Rispetto ai vecchi, hanno in più un balzello di 46.53 euro che prima non c'era. Stai a vedere che per questo mi richiederanno di rifare la domanda un'altra volta....

Nel frattempo, il mio impianto produce zero; però è di un bel grigio metallizzato che fa bella figura sul tetto

/%&$£!!!!

Puntate precedenti:

Arrivano questi moduli?
Sono arrivati i moduli!


La saga continua..........

Benzina e petrolio


La "Signora del Petrolio," Debora Billi, ha azzeccato un'altra volta un punto interessantissimo nel suo blog, raccontandoci della folle idea del congresso americano di far causa all'OPEC per via degli aumenti dei prezzi della benzina.

Idea, appunto, folle; ma - come si suol dire - in certe follie c'è un metodo. Il congresso sta cercando un capro espiatorio per il problema che non sia, per carità, l'innominabile e politicamente scorrettissimo "picco del petrolio". Se il congresso o il senato dovessero ammettere che stiamo esaurendo le risorse, la gente gli domanderebbe "perché non ce lo avete detto prima?". Quindi, hanno preso l'OPEC come bersaglio per prima cosa. Ultimamente, si sono anche accorti che c'è qualcosa di strano nella relazione fra il prezzo della benzina e il prezzo del petrolio, cosa che ora gli consentirà di prendersela con le compagnie petrolifere.

Ci informa il Washington Post che il prezzo della benzina negli Stati Uniti è vicino al record storico. Siamo a 3.2 dollari al gallone, che è uguale - tenendo conto dell'inflazione - al record del momento più nero della crisi del petrolio, nel 1979. Però c'è una differenza. Nel 1979, il barile di petrolio costava - sempre tenendo conto dell'inflazione - circa 90 dollari al barile. Oggi ne costa circa 65. Ma allora perché la benzina costa così tanto. C'è veramente un complotto delle compagnie petrolifere? Secondo i rappresentanti dei democratici al congresso, è proprio così (come ci racconta sempre il Washington Post)

Ma è una fesseria. Il prezzo del barile non è il solo elemento che determina il prezzo della benzina. Bisogna raffinare il petrolio per farne benzina, e qui sono le dolenti note. Nel 1979, il mercato della benzina era molto più piccolo, ma la capacità di raffinazione negli Stati Uniti non era molto diversa dall'attuale. Oggi, il mercato si è espanso e le raffinerie non ce la fanno a star dietro alle richieste. Le raffinerie sono poche e stanno facendo grossi profitti (come ci racconta Econbrowser). In più, nel 1979 ci furono degli interventi governativi di calmierazione dei prezzi. Probabilmente fecero più danni che altro, incluse le code ai distributori. Ora, sembrerebbe che l'idea sia di lasciar crescere i prezzi per ridurre i consumi attraverso il meccanismo della distruzione della domanda.

Quindi, niente di particolarmente strano negli aumenti dei prezzi della benzina. Di petrolio ce n'è sempre di meno ed è ovvio che la benzina costi sempre di più. Meno ovvio che si debba dar la colpa a qualcuno che non sia noi stessi, ma così vanno le cose nel mondo reale. Negli Stati Uniti si da la colpa all'OPEC o ai cattivi petrolieri. Vedrete che da noi si darà la colpa al governo e si ricomincerà fra breve a chiedere di ridurre le accise sui carburanti



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domenica, maggio 20, 2007

Ridateci la 500! Il paradigma dello Slow Travel.

Tempo fa, in Francia, mi capitò sotto gli occhi un articolo di giornale intitolato "Redonnez-nous la R4", ridateci la R4!

La Renault R4, assai diffusa anche in Italia, era una discendente del concetto della Citroen "Due Cavalli", la macchina progettata per trasportare "quattro contadini col cappello". Concetti di automobile che risalivano al mitico maggiolino Volkswagen ("La vettura del popolo") e in Italia avevano come equivalente l'altrettanto mitica "500" Fiat. Macchine leggere, efficienti, addirittura eleganti. Dei piccoli trionfi dell'ingegneria che risolvevano intelligentemente il problema di un veicolo a costo compatibile con le tasche degli europei, ancora vuote dopo il disastro della guerra.

Poi, col tempo, il mito si è appannato. Le macchine, una volta "del popolo" si sono trasformate in caricature di se stesse. Il paradigma della macchina attuale è la SUV (dall'improbabile sigla "Sport Utility Vehicle"). Macchina pesante, tronfia, obesa. Scatole d'acciaio su ruote gigantesche, alimentate da motori degni di un TIR. L'equivalente meccanico di una persona che ha vissuto di una dieta di solo fast food per decenni ed ha acquisito la forma corporea di una pera, corredata di rotolini di grasso debordante dai pantaloni.

Sembra che, dai tempi dei dinosauri, l'evoluzione delle cose porti al gigantismo e all'obesità. Di queste macchine ipertrofiche e voraci non abbiamo veramente bisogno. Non è più possibile che il paradigma del trasporto privato sia in questi oggetti che consumano risorse sempre più scarse, rovinano le strade, appestano l'aria e sono pericolose sia per chi li guida sia per chi ci sta intorno. Eppure, quasi ovunque nel mondo, i governi danno sussidi a chi getta via veicoli ancora perfettamente funzionanti per passare a questi dinosauri su ruote.

Dall'ipertrofia delle macchine, dagli ingorghi pazzeschi, dal puzzo e l'inquinamento, c'è chi ha concluso che il nuovo paradigma dell'automobile è semplicemente nessuna automobile (come dicevano una volta nel Far West, "good Indian is dead Indian", l'unico indiano buono è l'indiano morto). Può darsi; ma può darsi anche che ci sia una via di mezzo che possiamo percorrere fra la follia delle SUV e la vita spartana di soli tram e biciclette: ridateci la 500!

Certo, oggi non potremmo rimettere su strada le 500 o le R4 o le Volkswagen con i vecchi motori. Anche se erano motori piccoli, lo stesso non potremmo accettare l'inquinamento che producono. Ma questo si può risolvere retrofittando con batterie e motore elettrico i vecchi veicoli e trasformandoli in veri veicoli a emissione zero (ZEV, zero emission vehicles). E' qualcosa che possiamo fare oggi grazie ai progressi nell'efficienza dei motori elettrici e all'apparizione sul mercato delle batterie al litio polimero che permettono di ottenere prestazioni e autonomie comparabili con quelle dei vecchi motori.

Così, un gruppetto di appassionati che fa capo a ASPO-Italia, si è messo a fare proprio questo. Pietro Cambi, con l'aiuto di Massimo de Carlo, Corrado Petri e Ugo Bardi, ha trasformato la sua vecchia 500 Fiat in mezzo elettrico. Ne è venuto fuori un oggetto che, dopo due giorni dalla sua presentazione alla manifestazione "ruotati" di Firenze, è già un mito! Il mitico cinquino elettrico. (che altri hanno proposto chiamare "L'Aspina", dall'associazione ASPO che ha un po' originato il parto).

Come tante buone idee tecnologiche, l'idea del cinquino elettrico sfrutta l'esistente per progredire. Si tratta di conservare quello che ancora oggi è valido nel progetto della vecchia Fiat 500: la carrozzeria, la leggerezza, lo sfruttamento intelligente dello spazio. Viceversa, si elimina quello che oggi non si può più accettare: il vecchio motore a benzina. Sostituito il motore con uno elettrico di pari potenza; inserito al posto del serbatoio un pacco di batterie al litio; il risultato è una macchina che ha zero emissioni, prestazioni pari a quelle della vecchia 500, autonomia intorno ai 150 km e - soprattutto - ne mantiene lo "spirito".

E' lo spirito di un mondo più semplice e più "magro". E' la macchina non aggressiva, la macchina che non usi per imporre la tua personalità su nessuno, la macchina che erediti da tuo padre come se fosse una casetta in campagna; la macchina che tieni in casa per decenni, che tratti con gentilezza come se fosse una zia, che non ti verrebbe mai in mente di cambiare con una zia nuova e più alla moda solo perché ha più di 10 anni. Una macchina che non inquina, che conserva risorse, che non le disperde con l'idea folle dell' "obsolescenza pianificata".

Possiamo applicare alla 500 elettrica il paradigma dello Slow Travel già noto per certi tipi di turismo. E' lo stesso concetto
di "Slow Food" in contrasto con l'imperante e malefico "Fast Food". E' un paradigma che possiamo applicare al trasporto di tutti i giorni e non per forza solo alla 500, ma anche a una qualsiasi delle macchine ancora buonissime dell'era di prima dei dinosauri-SUV. Nemmeno soltanto a veicoli a quattro ruote, ma altrettanto bene ai motocicli e alle biciclette. E' il paradigma del viaggiare leggeri, senza fretta, consumando poco e inquinando niente.

Unico problema: il sistema legislativo italiano che scoraggia attivamente l'innovazione e intralcia altrettanto attivamente il retrofit elettrico dei veicoli esistenti. La macchina elettrica retrofittata è una soluzione economica e alla portata di tutti per il problema dell'inquinamento. Purtroppo, per legge può circolare solo con targa prova e persino questo dopo incredibili sforzi per superare le infinite barriere che una burocrazia ottusa e altrettanto grassa e ipertrofica delle SUV
. Con un po' di buona volontà, però, chissà che per miracolo, per una volta, non si riesca a fare una legge che riduce la burocrazia (invece di aumentarla, come di solito succede).

Slow Travel: non importa quanto veloce vai; l'importante è non avere fretta.




Trovate ulteriori dati e riflessioni sul cinquino elettrico in questo articolo di Pietro Cambi

Crediti: Il principale merito per la realizzazione del cinquino va a Pietro Cambi. Hanno contribuito all'opera altri soci di ASPO-Italia, fra i quali: Ugo Bardi, Massimo De Carlo, Francesco Meneguzzo e Corrado Petri. La trasformazione è stata eseguita dall'officina Egraf di Riccardo Falci.


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venerdì, maggio 18, 2007

Aspisti iperattivi: cinquino elettrico e acqua dal sole

ASPO-Italia non si limita a occuparsi di petrolio, ma cerca attivamente soluzioni ai problemi che ha identificato. Sembra che siamo un gruppo di iperattivi che si danno da fare in molti modi con soluzioni originali e intelligenti.

Qui vi passo un paio di aggiornamenti su queste cose.

- il cinquino elettrico Grazie al lavoro di Pietro Cambi e di un gruppetto di Aspisti entusiasti, è su strada una cinquecento elettrica! E' il vecchio tipo, quella con il motore posteriore. Equipaggiata con batterie al litio polimero, i primi test hanno dato risultati eccellenti. Guardatela su video a:
http://www.youtube.com/watch?v=p1W757i_cD4

Pietro dovrebbe preparare il prima possibile un post con una descrizione dettagliata della sua creatura. Nel frattempo, dovreste poterla vedere dal vivo questo week-end a Terra Futura, a Firenze.

- Acqua dal sole. Vi ho già raccontato in un post precedente del progetto europeo AQUASOLIS che è dedicato alla produzione di acqua rinnovabile e che è gestito dagli aspisti Ugo Bardi, Toufic el Asmar e Alessandro Scrivani. La cosa si sta diffondendo e potete ammirare le apparecchiature e anche gli Aspisti in questione in un servizio che andrà in onda su RAI-3 domani (sabato 19) alle 12:25 - purtroppo visibile solo in Toscana! Anche qui, l'iperlavoro ci rallenta un po', ma dovremmo raccontare più in dettaglio le idee del progetto AQUASOLIS appena possibile

Notate che queste non sono le sole cose che gli aspisti stanno facendo! C'è di tutto e di più!


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martedì, maggio 15, 2007

Confessioni di un idrogenista pentito

Un bel po' di anni fa (forse troppi) mi occupavo di idrogeno Era il 1980 quando arrivai a Berkeley, in California, a fare il post-doc al Lawrence Berkeley Laboratory. Era appena passata l'ultima fase della prima grande crisi del petrolio; il massimo valore storico dei prezzi era stato nel 1979. In America, era tutto un fiorire di progetti di ricerca, di nuovi centri e istituti, tutti dedicati alle energie alternative.

A Berkeley, lavorai per più di due anni sulle pile a combustibile; la tecnologia che doveva servire a trasformare l'idrogeno in energia elettrica e che era - ed è - essenziale per il concetto di "economia basata sull'idrogeno" (Rifkin non ha inventato nulla, erano cose già ben note allora). Era un lavoro interessante, anche affascinante, ma molto difficile. Finito il mio contratto, cominciai a cercare lavoro. Ma, come mi è capitato spesso nella vita, mi trovavo in controfase con il resto del mondo. Nel 1982, i prezzi del petrolio si erano già molto abbassati. L'interesse sulle energie alternative era calato e - con la lungimiranza tipica degli esseri umani - si cominciava già a pensare di chiudere i centri di ricerca messi su negli anni '70. C'era poco spazio, di conseguenza, per un esperto in pile a combustibile. Il meglio che riuscii a trovare fu un'offerta per lavorare in un centro di ricerca nel Montana. Non mi attirava molto e alla fine decisi di tornare in Italia. Provai a continuare a lavorare sulle pile a combustibile, ma da noi non glie ne importava niente a nessuno, nemo propheta in patria sua. Così dopo qualche anno mi dedicai ad altre cose.

Mi ricordo che quando ero ancora in America ero venuto a sapere che a Vancouver, in Canada, c'era un certo Geoffrey Ballard che aveva messo su un piccolo istituto di ricerca per studiare le pile a combustibile. Pensai vagamente di mandargli un curriculum, ma poi me ne scordai. La ditta di Ballard, a quel tempo, era poco più di un garage con qualche entusiasta dentro intento a saldare fili e a far bollire strane soluzioni.

Ma Ballard era destinato a grandi cose. Più o meno al tempo in cui io me ne andavo da Berkeley, Ballard sviluppava un tipo di pila a combustibile completamente nuovo, la "PEMFC" o "PEFC" (polymer electrolyte membrane fuel cell) o semplicemente PEM, una cosa che rivoluzionò il campo. La PEM usava un polimero solido come elettrolita, cosa che la rendeva più efficiente dei vecchi tipi che, invece, usavano un elettrolita liquido. Fece un rumore incredibile; rese possibile il primo autobus a pile a combustibile (1993) e tanto per dirne una, Ballard fu nominato "Eroe del Pianeta" nel 1999 dalla rivista "Time."

Non per dire male di Ballard, che mi risulta essere una bravissima persona, ma forse chiamarlo "eroe del pianeta" è stata una cosa un po' esagerata. A parte questo, tuttavia, negli anni '90 mi è venuto diverse volte da pensare (con una certa rabbia) che se nel 1982 avessi mandato quel curriculum forse avrei potuto essere uno degli sviluppatori di quello che - all'epoca - sembrava la rivoluzione del secolo: la pila a combustibile a membrana polimerica, il congegno che avrebbe reso possibile l'economia basata sull'idrogeno. Avrei fatto anche un po' di quattrini!

Quando cominciò l' "uragano Rifkin", nel 2002, mi trovavo a essere uno dei pochi in Italia che avevano veramente esperienza pratica sui concetti tecnici dell'economia basata sull'idrogeno. Mi invitavano alle conferenze a parlarne. Per un certo periodo ne ho parlato anche bene, pur senza grande entusiasmo. Oggi, dopo averci ripensato sopra, credo che dedicare la mia vita all'idrogeno e alle pile a combustibile non sarebbe stata una grande idea. Anzi, credo che sarebbe stata pessima. Non sono il solo a pensarla così; ho conosciuto diverse persone che hanno dedicato anni di vita alle pile a combustibile e all'idrogeno ma che poi hanno abbandonato il campo, delusi. Siamo gli "idrogenisti pentiti", persone che hanno lavorato, e magari anche creduto, nella promessa dell'idrogeno ma che poi si sono resi conto che - se magari non la possiamo proprio definire una bufala - è una cosa talmente difficile e lontana nel tempo che non ha nessuna rilevanza per la soluzione dei problemi attuali.

Ci sono moltissimi problemi con il concetto di "economia basata sull'idrogeno" ma uno dei principali è la conversione dell'idrogeno in energia utile - ovvero energia elettrica. Farlo con un motore termico è possibile, ma l'efficienza è terribilmente bassa. Quindi il concetto ruota molto intorno alla possibilità di usare pile a combustibile che promettono efficienze molto maggiori. Ma le cose non sono facili.

Gia nel 1980, a Berkeley, ci rendevamo conto di qual'era il problema principale delle pile a combustibile: il catalizzatore. La reazione fra idrogeno e ossigeno, di per se, è lenta a temperature relativamente basse. La pila funziona soltanto se gli elettrodi contengono platino, sulla cui superficie la reazione avviene molto più rapidamente. Il platino è un metallo raro e costoso e i due anni e più che ho passato al Lawrence Berkeley Lab sono stati dedicati a cercare di mettere meno platino, o qualcosa al posto del platino, sugli elettrodi della pila. Non ero solo io a lavorarci, era tutto un gruppo di ricerca, uno dei molti impegnati sull'argomento. A quel tempo, non andava di moda il termine "nanotecnologia", ma eravamo perfettamente in grado di fare delle particelle nanometriche di platino. Più erano piccole le particelle, maggiore era la superficie e di conseguenza ci voleva una massa minore.

Ahimé, uno dei problemi delle nanoparticelle è che quanto più le fai piccole tanto più sono attive. Si muovono, reagiscono fra di loro a formare particelle più grandi e, alla fine, il tuo elettrodo non funziona più. Ne abbiamo provate di tutte per stabilizzarle: una delle cose su cui ho lavorato di più è stato sulle leghe di platino. Sembrava una buona idea - funzionava bene per un po' - salvo poi de-allegarsi e dover buttar via tutto. Niente da fare - platino era e platino rimaneva.

Oggi, dopo un buon quarto di secolo di lavoro di molta gente, siamo davanti allo stesso problema. Le PEM hanno ancora bisogno di platino e una PEM dell'ultima generazione richiede qualcosa come 1000 dollari al kW di solo platino; una vettura a pile a combustibile dovrebbe contenere platino per un costo superiore alla vettura stessa! Al che si aggiunge il fatto che la membrana costa un sacco di soldi, che il platino si avvelena facilmente, che gli elettrodi si rovinano per tante ragioni, e tanti altri problemi. La PEM è ancora ben lontana da essere in grado di salvare il pianeta per opera dell'eroico Geoffrey Ballard.

Ma il problema non è solo nei costi; è proprio nella quantità di platino. Non c'è abbastanza platino su questo pianeta per costruire pile PEM in numero sufficiente a rimpiazzare gli attuali veicoli su strada e a realizzare l'idea dell' "economia basata sull'idrogeno". Era una cosa che sapevamo già nel 1980 e che non è molto cambiata da allora.

Certo, ci si può lavorare sopra, ma non è facile. Quando mi metto oggi a dare un'occhiata allo stato della ricerca nelle PEM vedo con un certo stupore che ancora la gente lavora sulle stesse cose su cui lavoravamo a Berkeley negli anni '80, apparentemente con non molto maggiore successo. Uno degli ultimi "nuovi sviluppi" è stato, indovinate un po', usare leghe di platino! Proprio la cosa che facevo io. Magari queste leghe funzioneranno meglio delle nostre, magari questi qui (di Brookhaven) sono più bravi di come eravamo noi al Lawrence Berkeley Lab; chi lo sa? Ma mi sembra che stiamo girando in cerchio senza arrivare da nessuna parte. C'è chi ha detto di aver trovato buoni catalizzatori nanostrutturati non basati sul platino. Saranno abbastanza stabili sul lungo periodo? Può darsi, mi permetto però di essere un tantino scettico.

Si riuscirà mai a produrre una pila a combustibile che usa poco (o per niente) platino e che si vende a un prezzo ragionevole? Non è impossibile, ma sembra molto difficile. Sono ormai più di trent'anni che si parla di pile a combustibile "moderne" ma ancora ci sono soltanto prototipi. Se ce ne sono in vendita o sono giocattoli dimostrativi oppure sono a prezzi tali che li possono comprare solo istituti di ricerca.

Venticinque anni fa, quando lavoravo alle pile a combustibile, sapevamo che il petrolio era ancora abbondante e che la crisi era passeggera. Potevamo permetterci di pensare che avevamo tempo, che prima o poi saremmo riusciti a far funzionare le pile; che avremmo ottenuto quel "breakthrough" necessario. Non sono bastati 25 anni; adesso il picco del petrolio sta arrivando e forse è già arrivato. Quasi certamente, non abbiamo altri 25 anni per cercare il miracolo in una tecnologia che - per ora - rimane inutilizzabile in pratica. Continuiamo pure a lavorarci sopra, ma non contiamo su qualche eroe tecnologico che verrà a liberarci dal petrolio all'ultimo momento con qualche super-PEM.

La liberazione dal petrolio verrà da tecnologie più semplici e già collaudate: le buone vecchie batterie che stanno vivendo una nuova vita con l'ultima generazione di batterie al litio. In fondo, non c'è bisogno di grandi rivoluzioni tecnologiche per cambiare -più che altro bisogna volerlo veramente.







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domenica, maggio 13, 2007

L'imbroglio idrogeno

Esce in questi giorni un articolo di Robert Zubrin sul "The New Atlantis" intitolato "The Hydrogen Hoax" (L'imbroglio idrogeno).

L'articolo è una demolizione pezzo per pezzo di tutti i concetti che stanno dietro l'idea, ancora tenacemente popolare, che i combustibili fossili potrebbero in qualche modo essere sostitutiti con l'idrogeno e che in questo modo otterremmo un mondo migliore.

Non tutto è perfetto in questo articolo, alcuni dettagli sono criticabili e l'autore non da nessuno spazio a interpretazioni diverse dalle sue. Ma, nel complesso, Zubrin colpisce nel segno non una volta, ma parecchie. Solo il calcolo di quanto costerebbe il sistema motore + pile a combustibile per un veicolo è quello che gli americani chiamano "reality check" e che in italiano forse potremmo tradurre come "un bagno di realtà". Quando Zubrin ti dimostra che parliamo di un milione di dollari per tutto l'ambaradan di un'automobile in grado di avere prestazioni pari a quelle di un veicolo attuale, la cosa è preoccupante, come minimo. Più che altro è preoccupante per la sanità mentale di quelli che continuano a sostenere che le auto a idrogeno sono una buona idea. (ah.. considerate anche che l'efficienza dei un veicolo del genere sarebbe inferiore a quella di un veicolo attuale e che, comunque, sarebbe impossibile a rifornire in pratica)

Se masticate bene l'inglese, leggetelo con attenzione. Se qualcuno avesse tempo e voglia di tradurlo, andrebbe fatto leggere ai nostri politici


Nearly everyone in American politics believes we face an energy crisis, and nearly everyone believes we need a technological solution that will make America “energy independent.” Americans are, as President Bush put it in his 2006 State of the Union address, “addicted to oil,” and in this case our addiction is enriching and empowering those who seek to destroy us. We are funding, if indirectly, the madrassahs that teach vile hatred of Western civilization and the backward cultures that create death-seeking soldiers for Islam. We are, if unwittingly, arming those who wish to kill us.

To cure this self-destructive addiction, the Bush administration has placed a major bet on the so-called “hydrogen economy,” both in policy and in rhetoric. Former Energy Secretary Spencer Abraham laid out this vision, in rhapsodic language, in 2002:


Hydrogen can fuel much more than cars and light trucks, our area of interest. It can also fuel ships, airplanes, and trains. It can be used to generate electricity, for heating, and as a fuel for industrial processes. We envision a future economy in which hydrogen is America’s clean energy choice—flexible, affordable, safe, domestically produced, used in all sectors of the economy, and in all regions of the country....
Imagine a world running on hydrogen later in this century: Environmental pollution will no longer be a concern. Every nation will have all the energy it needs available within its borders. Personal transportation will be cheaper to operate and easier to maintain. Economic, financial, and intellectual resources devoted today to acquiring adequate energy resources and to handling environmental issues will be turned to other productive tasks for the benefit of the people. Life will get better.

In 2003, President Bush reaffirmed this vision, offering a presidential primer on the scientific, economic, and foreign-policy dimensions of hydrogen power:

The sources of hydrogen are abundant. The more you have of something relative to demand for that, the cheaper it’s going to be, the less expensive it’ll be for the consumer.... Hydrogen power is also clean to use. Cars that will run on hydrogen fuel produce only water, not exhaust fumes.... One of the greatest results of using hydrogen power, of course, will be energy independence for this nation.... If we develop hydrogen power to its full potential, we can reduce our demand for oil by over 11 million barrels per day by the year 2040.

It certainly sounds great. Hydrogen, after all, is “the most common element in the universe,” as Secretary Abraham pointed out. Since it is so plentiful, surely President Bush must be right when he promises it will be cheap. And when you use it, the waste product will be nothing but water—“environmental pollution will no longer be a concern.” Hydrogen will be abundant, cheap, and clean. Why settle for anything less?

Unfortunately, it’s all pure bunk. To get serious about energy policy, America needs to abandon, once and for all, the false promise of the hydrogen age.



The complete article





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sabato, maggio 12, 2007

Il picco in pillole



Il testo che segue è preso dal sito http://polemos.an-archos.com/. Segnalazione di Magius, traduzione di Coqui_mi. E' una robetta un po' catastrofistella, ma vale la pena di leggerla. Perlomeno, ha il pregio di essere sintetica

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Il problema:

1 -
Alcuni geologi prevedono un picco nella produzione globale di petrolio in un qualche momento tra il 2005 e il 2007, con un chiaro declino irreversibile a partire dal 2010.

2 - La crescita della domanda, congiuntamente all'immobilità dell'offerta, significa prezzo del petrolio in aumento ben al di sopra dei 40 dollari al barile.

3 - L'esaurimento definitivo della risorsa vuol dire non tornare mai più al petrolio a basso prezzo.

Le possibili conseguenze:

4 - Forniture e prezzi del petrolio volatili nei prossimi 5 anni, accompagnati da instabilità economica (stagflazione).

5 - Un declino economico definitivo dopo il 2010, con possibile collasso del sistema azionario e bancario.

6 - Recessione terminale seguita da una grande depressione fino a quando non saranno sviluppate fonti di energia alternative (fra decenni).

7 - Rimangono solo dieci anni per trovare un'alternativa alla combustione interna e ai motori a reazione per il trasporto di massa.

8 - Lo stesso vale per l'industria petrolchimica che rifornisce l'agricoltura industriale con pesticidi e fertilizzanti.

9 - 500.000 prodotti di consumo che adoperano plastica, detergenti, solventi, vernici e fibre sintetiche dipendono dal petrolio quale materia prima.

10 - Prezzi in crescita per cibo e servizi, razionamenti, costi di spedizione e viaggi in aereo progressivamente in aumento.

11 - Disoccupazione a lungo termine in crescita.

12 - Fine dello stato sociale, dell'educazione e sanità gratuite.

13 - Localizzazione della produzione di cibo, trasferimenti, lavoro e industria a misura che si riduce l'impiego dei veicoli.

14 - Impoverimento del ceto medio.

15 - Affidarsi al gas naturale, in via di esaurimento, per produrre elettricità significa spostarsi verso il nucleare (proliferazione di armi e scorie) e/o il carbone (global warming fuori controllo).

16 - Guerre per l'energia.

17 - Un massiccio, radicale e prolungato mutamento del nostro stile di vita man mano che ci spostiamo verso le fonti energetiche alternative e verso l'ordinamento politico/economico che le favorisce.

Cosa fare

18. Studiate il problema da voi

19. Avvertite i vostri rappresentanti politici

20. Organizzatevi in modo che il messaggio si diffonda


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venerdì, maggio 11, 2007

Pipistrelli e Energia Rinnovabile: la strategia win-win


Cosa c'entrano i pipistrelli con l'energia rinnovabile? Tecnicamente, niente; eppure c'è un legame. Ora mi spiego.

Guardate il filmato qui sotto; é un servizio di Alessandra Parrini apparso su RAI-3 circa un mese fa. Nel servizio si fa vedere, fra le altre cose, la pipistrelliera installata a casa mia, a Fiesole, ormai da più di un anno e che ospita 3 felici pipistrelli. L'idea è di ripopolare di pipistrelli zone dove l'urbanizzazione e il taglio frequente dei boschi ha distrutto i loro rifugi naturali. La ragione del ripopolamento è utilitaristica: i pipistrelli mangiano le zanzare; di conseguenza se abbiamo pipistrelli possiamo fare a meno, o perlomeno ridurre, l'uso di insetticidi chimici.

Il fatto di avere tre pipistrelli che svolazzano intorno a casa mia non mi salva certamente dall'invasione delle zanzare tigre. Però, se i miei vicini di casa mettessero delle pipistrelliere anche loro, allora non sarebbe questione di tre pipistrelli ma di centinaia di pipistrelli che farebbero una differenza. In sostanza, mettendo una pipistrelliera a casa mia, non solo mi creo un vantaggio personale, ma anche faccio un piacere ai miei vicini. E' quello che gli americani chiamano la strategia "win-win" (vinci-vinci).

Ora, potete cominciare a vedere l'analogia fra pipistrelli e energia rinnovabile. Sono cose diverse, ma la filosofia di installare pipistrelliere e pannelli fotovoltaici è la stessa. Installando i pannelli FV a casa mia, genero energia per mio personale uso, ma l'eccesso lo rivendo ai vicini (o comunque ad altri) attraverso la rete elettrica. E' la stessa strategia win-win che si basa sullo scambio. Non è fontamentale cosa ci si scambia, l'importante è scambiare; nessuno può vivere isolato. La tecnologia odierna ci permette di scambiarsi energia elettrica attraverso la rete, oppure informazioni attraverso l'Internet (lo state facendo proprio adesso). Rifkin ha pensato di scambiarsi idrogeno (questa però non è un'idea pratica); possiamo scambiarci prodotti dell'orto , piaceri personali, un passaggio per andare a lavoro (car sharing) oppure, come in questo caso, pipistrelli,

Lo scambio delle cose che uno ha in eccesso è alla base dalla convivenza umana dal tempo delle caverne e che, oggi, abbiamo un po' dimenticato. Ma se ha funzionato per milioni di anni, probabilmente continuerà a funzionare e potrebbe essere alla base della diffusione dell'energia rinnovabile nel futuro. Appunto, la strategia win-win


Ringrazio Paolo Agnelli (Ricercatore della Specola, Firenze) per l'idea della pipistrelliera, Eva Mosconi (assessore all'ambiente del comune di Fiesole) per il suo lavoro di diffusione dell'idea sul territorio comunale, nonché Alessandra Parrini per il suo interesse sull'argomento. Trovate istruzioni sulla costruzione della pipistrelliera (cercate "bat box" fra i files) sul sito del forum di discussione del comune di Fiesole. Nel filmato potete vedere, oltre a Ugo Bardi, anche Pietro Cambi (membro di ASPO-Italia e residente a Fiesole)


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Un'idea semplice semplice: Ban the Bulb !


Quando un personaggio dei fumetti ha una idea, generalmente questa viene rappresentata come una nuvoletta con dentro una lampadina che si accende.
L'idea che vorrei presentare qui, invece è l'esatto contrario: spengerla, la lampadina!
Ovvero la messa al bando, entro un massimo di due anni, delle lampadine ad incandescenza.
Come credo sia ben noto il loro principale compito è quello di riscaldare l'ambiente circostante e solo in second'ordine di illuminarlo, con una efficienza molto bassa.
Le lampade fluorescenti, ormai disponibili in taglie e con attacchi del tutto compatibili con quelli delle lampadine classiche sono circa quatto volte più efficienti.
Rinunciare alle lampade ad incandescenza vuol dire ridurre di circa il 5% il fabbisogno di energia elettrica nel paese.
L'equivalente di circa 4 centrali a carbone da 500 MW.
Oppure quanto attualmente viene prodotto dalle fonti rinnovabili, escluso l'idroelettrico, nel nostro paese.
Siamo d'accordo che il risparmio non basterà, da solo a risolvere i nostri problemi ma questa soluzione è cosi semplice, indolore e di rilevante efficacia che dovrebbe essere IMMEDIATAMENTE presa in considerazione dalle nostre forze politiche, possibilmente ANCHE a livello CEE.
Un iniziativa del genere viene presa, mentre scrivo, dall'Australia e viene seriamente discussa in California, nel Canada...una volta tanto l'Italia potrebbe fare da battistrada in Europa.
Yuhuuuu? C'e' qualcuno lassù che ci legge?

giovedì, maggio 10, 2007

Il rapporto della commissione interministeriale rifiuti

E' on line su www. aspoitalia.net il rapporto della commissione interministeriale per le migliori tecnologie per la gestione e lo smaltimento dei rifiuti.

Il rapporto distilla parecchie giornate di lavoro e (per la cronaca, a titolo gratuito) da parte dei quattro membri della commissione, - in ordine alfabetico - Ugo Bardi dell'Università di Firenze, Antonio Cavaliere dell'Università Federico II di Napoli, Fabrizio Fabbri del Ministero dell'Ambiente e Ennio Macchi del Politecnico di Milano.

L'argomento rifiuti, come tutte le cose importanti negli ultimi tempi, è altamente interdisciplinare. Purtroppo, al momento in cui avremmo tragicamente bisogno di una visione interdisciplinare di questa e di altre cose, come il cambiamento climatico o l'esaurimento delle risorse, ci troviamo ad avere a che fare con un sistema accademico che scoraggia attivamente l'interdisciplinarietà (provare per credere). Quindi, è raro trovare un momento in cui ci si può ritrovare con dei colleghi di altre discipline a discutere e a trovare un accordo su un argomento che ognuno vede da un punto di vista diverso. Può essere, e in questo caso è stata, un'esperienza interessantissima.

Il documento che trovate su ASPO-Italia è il risultato di quello che chiamerei un "compromesso creativo", in cui tutti i membri della commissione hanno ceduto qualcosa sulle loro posizioni, spesso leggermente più polarizzate sui vari argomenti, ma che hanno comunque trovato un accordo sui punti che giudicavano importanti.

Il risultato è un documento che giudico molto interessante - appunto - per il suo carattere interdisciplinare. E' un tentativo di affrontare la questione rifiuti in un modo che va ben oltre il modo in cui viene posta spesso nei dibattiti politici e sulla stampa. Ovvero, non è solo questione di bruciare o non bruciare, è questione di gestire i rifiuti. Per gestire i rifiuti, bisogna gestire tutta la catena del processo che va dalla produzione allo smaltimento finale; tenendo anche conto della necessità, che nel futuro si farà vitale, di recuperare il massimo possibile di risorse minerali che si stanno facendo sempre più rare.

Così, il documento contiene un gran numero di idee e di suggerimenti su argomenti come la riduzione alla fonte, la raccolta differenziata e tecniche nuove di trattamento a bassa temperature. Tutte cose che spero i politici non ignoreranno. Ringrazio i colleghi per la collaborazione e per la possibilità che mi hanno dato di imparare un sacco di cose che non sapevo.

Il documento è stato reso pubblico il 24 Aprile dal ministro dell'ambiente Pecoraro Scanio. Qui, la versione completa.


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Le linee aeree e la sindrome del tappabuchismo

In un romanzo che ho letto molti anni fa, c'è una scena in cui un soldato soccorre un compagno ferito. Gli fascia il braccio con molta attenzione e si compiace del risultato. Non si accorge, però, che il suo compagno è stato ferito anche all'addome, e gli muore dissanguato fra le braccia.

Meno drammaticamente, possiamo chiamare "sindrome del tappabuchismo" il fatto di perdere tempo ed energie su dettagli marginali di qualcosa che sta andando alla malora per altre ragioni. E' abbastanza comune leggere sul web e sui giornali il concetto che è importante "tappare i buchi del secchio". Ma se il secchio è ormai quasi vuoto e non c'è modo di riempirlo di nuovo, perdere tempo a tappare i buchi è una fesseria.

Questa sindrome del tappabuchismo la vediamo con chiarezza lampante in un articolo sulle linee aeree di Bennett Daviss che è stato pubblicato prima sul "New Scientist" e che ora è apparso in traduzione italiana nel numero di Maggio di "Modus Vivendi". (non mi risulta che sia disponibile sul web)

Bennett Daviss è un giornalista competente che, in questo articolo, ha fatto molto bene il suo lavoro. Qui si preoccupa dell'inquinamento causato dagli aerei e ne discute con abbondanza di dati e di riferimenti. Il problema è che l'approccio è completamente sbagliato. Daviss sta cercando di trovare modi per tappare i buchi di un secchio che ormai si sta svuotando. In questo caso, il secchio era stato pieno di kerosene fino ad oggi, ma per quanto tempo ancora?

Daviss non sembra rendersi conto che esiste un problema di esaurimento dei combustibili fossili. Per lui, è ragionevole pensare che il numero dei voli radoppierà da qui al 2050, con un ritmo di crescita ininterrotto che potrà andare dal 3% al 4%. L'unico problema che vede è quello dell'aumento di emissioni di gas-serra. Di conseguenza, discute una serie di soluzioni equivalenti a tappare dei "microbuchi" di questo povero secchio. Migliorare il flusso laminare lungo le ali e la fusoliera, ottimizzare le rotte, rinforzare i supporti delle ali, migliorare i motori.

Daviss prende in considerazione anche soluzioni più strutturali, ovvero usare carburanti non di origine fossile. Correttamente, però, si rende conto che non sono possibili. Se si usasse idrogeno, dovrebbe stare in serbatoi criogenici. Ma, serbatoi del genere non potrebbero stare nelle ali, dove sta oggi il kerosene. Dovrebbero stare dentro la fusoliera, ma allora i passeggeri dove stanno? Bisognerebbe creare una nuova generazione di aerei; cosa un po' difficile, dato che il ciclo di vita di un areo è molto lungo (il primo 747, "jumbo" è del 1969). Lo stesso vale per i biocarburanti, soluzione impensabile per tanti motivi: per la bassa densità energetica, per l'inquinamento prodotto e - anche se questo Daviss non lo dice - perché non sarebbe neanche lontanamente possibile ottenere biocarburanti in quantità sufficiente da sostituire i combustibili fossili.

Alla fine di tutti questi ragionamenti, la conclusione dell'articolo sembra essere in linea con quella di un rapporto del 2002 della Royal Commission on Environmental Pollution, citata nel testo, ovvero che "a causa di questi problemi gli aerei continueranno a dipendere dal kerosene per almeno quarant'anni"

Ahimé, se c'è mai stato un esempio della perniciosa tendenza alla conoscenza a "compartimenti stagni" questo lo è. Ultimamente, neanche i più folli ottimisti sulle disponibilità petrolifere danno tempi superiori ai 20-30 anni prima del picco. Kerosene fra 40 anni? Forse ce ne sarà ancora un po', ma non pensate neanche lontanamente di poterlo usare per andare in vacanza alle Maldive.

In un certo senso, il picco del petrolio si prenderà cura ben presto del problema dell'inquinamento causato da quelli che vanno in aereo alle Maldive (e in tutti gli altri posti dove si va in aereo). In questo senso, il picco potrebbe non essere una cosa cattiva.

Inutile, dunque, tappare i buchi di un secchio che sarà vuoto fra breve. Cosa potremo fare di tutti gli aerei senza carburante abbandonati negli aeroporti? Non so, magari dei ristoranti come si fa a volte con i vecchi vagoni ferroviari, anche se a ricordarsi delle schifezze che ti davano da mangiare in volo non avrebbero molto successo. Oppure potremmo riempire d'aqua la fusoliera e metterci dentro dei pesci, ne verrebbe fuori un bell'acquario. Tagliando via le ali, e mettendo la fusioliera verticale, forse ne verrebbe fuori un silo per il grano.

Qualche altra idea? (sondaggio per i creativi!!)



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mercoledì, maggio 09, 2007

Il picco dei rifiuti


E' pubblicato sul sito di aspoitalia l'articolo di Ugo Bardi "Il Picco dei Rifiuti".

I dati sulla produzione dei rifiuti sono spesso frammentari ed è raro che chi se ne occupa si preoccupi di stimare le tendenze future; quello che si chiama "forecasting" e che è una cosa comune per chi si occupa, per esempio, di produzione petrolifera.

Nonostante i dati frammentari, tuttavia, la tendenza emerge con grande evidenza. In tutti i paesi del mondo, la crescita della produzione dei rifiuti sta rallentando. La tendenza è chiarissima se guardiamo la quantità di rifiuti per persona, un po' meno, ma comunque sempre evidente, se guardiamo la quantità totale di rifiuti. In alcuni paesi, per esempio negli Stati Uniti e in Germania, si vede già una chiara inversione di tendenza, ovvero il passaggio dal "picco dei rifiuti". Dopo il picco, la massa di rifiuti prodotta tende chiaramente a diminuire.

L'interpretazione di questo fenomeno non è del tutto certa, ma la più probabile si trova per mezzo di un modello che considera il sistema economico come un unica macchina che consuma minerali e produce rifiuti. La produzione di tutti i minerali importanti sta mostrando una fase di stasi e, in certi casi, una tendenza alla diminuzione. Questa riduzione alla fonte si trasforma in una riduzione alla foce.

Ci sono delle conseguenze pratiche di questo fenomeno. Il problema rifiuti potrebbe non essere così grave come ci viene fatto credere a volte per giustificare soluzioni drastiche e inquinanti. Se, tuttavia, non corriamo il rischio di essere sepolti da una massa di immondizia puzzolente, il declino della produzione dei minerali rende importantissimo il problema di gestire i rifiuti in modo corretto, ovvero recuperarne e riciclarne la più grande parte possibile

articolo completo



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La volpe e l'uva nel deserto


Il ministro del petrolio audita, Ali Al Naimi, ha dichiarato che l'Arabia saudita raggiungerà una capacità di 12, 5 milioni di barili di petrolio nel 2009 e che i progetti per espandere ulteriormente la capacità produttiva sono stati sospesi per le preoccupazioni legate all'andamento della domanda di petrolio mondiale futura.
Niente di nuovo, direte voi.
Solo per la crescita dei consumi cinesi avremmo bisogno all'incirca di un nuovo Kuwait, da qui al 2009, in termini di produzione mondiale ( nei primi mesi del 2007 il fabbisogno energetico cinese è cresciuto leggermente meno della sua economia, ovvero di circa il 10% su base annua, 600.000 barili/giorno in piu').
Avete capito al rovescio: Il ministro del petrolio Saudita ha paura che la domanda mondiale di petrolio non cresca!
Infatti, dato il crescente trend mondiale verso una maggiore efficienza energetica e la crescita di importanza delle energie alternative, Al Naimi ha dichiarato che non vede la necessità di piu' di 12,5 milioni di barili di petrolio di capacità produttiva per il Regno saudita nel futuro.

Tutto questo mi ricorda una vecchia favola di Fedro.

La volpe e l'uva.
Visto che la volpe non riusciva a raggiungere, per quanti sforzi facesse, un succoso grappolo d'uva in una vigna, decise che non ne valeva la pena, non essendo ancora matura al punto giusto.
"Nondum matura est"

Giudicate voi.




La Volpe e l'uva - Fedro

Spinta dalla fame, la volpe cercava di prendere l'uva da un'alta vite, saltando con tutte le sue forze, ma non riuscì a toccarla; allora andandosene disse: "Non è ancora matura; non voglio coglierla acerba". Chi sminuisce a parole quello che non è in grado di fare, dovrà riferire a se stesso questo esempio.


Saudi Arabia's oil minister Ali al-Naimi has said that the Kingdom is set to achieve its targeted output capacity of 12.5mn barrels per day (b/d) by 2009, but that plans to expand capacity further have been shelved owing to concerns over projected oil demand. Citing the growing global trend towards energy efficiency and conservation initiatives, as well as the increasing prominence of alternative energy sources, al-Naimi has claimed that he does not see the need for more than 12.5mn b/d of sustainable capacity in the medium term.
http://www.oilandgasinsight.com/file/44984/saudi-arabia-may-not-expand-capacity-beyond-2009.html

martedì, maggio 08, 2007

Non abbiamo più banane

Ringrazio Andrew Lawford per l'articolo del Financial Times qui riportato e per il suggerimento sul "picco delle banane"

Da piccolo, mi domandavo sempre come si facesse a seminare le banane, dato che non hanno semi.

Questo articolo, apparso sul Financial Times, racconta la storia delle banana in grande dettaglio. E' una cosa un po' lunga, ma vale la pena di leggerselo per conoscere la traiettoria della famigerata "United Fruit Company", il prototipo della "cattiva" multinazionale, la cui attività fino al 1975 è stata una delle cause - forse una delle più importanti - della cattiva fama che ancora oggi il concetto di multinazionale si porta dietro.

Oggi, sparita la United Fruit, rimangono le banane che, tuttavia, sono un frutto malato, tenuto in vita soltanto da massicce dosi di pesticidi e funghicidi. Un altro "frutto del petrolio" come tanti altri prodotti agricoli al giorno d'oggi.

Sopravviveranno le banane al picco del petrolio? Probabilmente no, perlomeno non nella forma di produzione agroindustriale di oggi. Siamo di fronte anche al picco delle banane!

Non tutti i mali vengono per nuocere, però. Forse, dopo le banane industriali di oggi, nel futuro avremo banane più naturali, probabilmente anche più saporite. Come il petrolio, tuttavia, costeranno di più.

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Rotten fruit

By Peter Chapman

Published: May 5 2007 03:00 | Last updated: May 5 2007 03:00

Early on Monday February 3 1975, a man threw himself out of his office window, 44 floors above Park Avenue, New York. He had used his briefcase to smash the window, and then thrown it out before he leapt, scattering papers for blocks around. Glass fell on to the rush-hour traffic, but amazingly no one else was hurt. The body landed away from the road, near a postal service office. Postmen helped emergency workers clear up the mess so the day's business could carry on.

One policeman at the scene spoke of the selfishness of "jumpers", who didn't think of anyone "down below". This jumper was quickly identified as Eli Black, chief executive of the United Fruit Company, which had been making huge profits from bananas since the late 19th century.

United Fruit had dominated business and politics in Central America. It was the first truly multinational modern corporation, spreading the spirit of liberal capitalism. As well as harvesting the region's fruit, however, the company wielded formidable influence over small nations, which were often ruled by corrupt dictatorships. United Fruit gave the world not just bananas, but also "banana republics".

It emerged that Black, a devout family man, had bribed the Honduran president, Oswaldo Lopez Arellano, with $1.25m to encourage him to pull out of a banana cartel which opposed United Fruit. The story was about to come out in the US press. United Fruit's Central American plantations were also struggling with hurricane damage and a new banana disease. Facing disgrace and failure, Black took his own life. His death was shocking, not least because he had the reputation of a highly moral man. Wall Street was outraged, the company's shares crashed and regulators seized its books to prevent "its further violation of the law". The company subsequently disappeared from public view and was seemingly erased from the collective mind.

United Fruit may no longer exist, but its legacy on world affairs endures. Its activities in Cuba, where it was seen as a symbol of US imperialism, were significant in the rise of Fidel Castro and the Cuban revolution of the late 1950s. Its participation in the Bay of Pigs invasion of Cuba in 1961, in a vain attempt to overthrow Castro, led to the Cuban missile crisis. As the world stood on the brink of nuclear holocaust, few could have imagined it had anything to do with bananas.

United Fruit began life in the 1870s when Minor Cooper Keith, a wealthy young New Yorker, started growing bananas as a business sideline, alongside a railway line he was building in Costa Rica. Both ventures took off, and by 1890 he was married to the daughter of a former president of Costa Rica and owned vast banana plantations on land given to him by the state. The bananas were shipped to New Orleans and Boston, where demand soon began to outstrip supply.

Keith teamed up with Andrew Preston, a Boston importer, and in 1899 they formed United Fruit. Bananas sold well for their tropical cachet: they were exotic, a luxury only affordable to the rich. But the rapidly rising output of United Fruit's plantations brought down prices. The company created a mass market in the industrial cities of the US north-east and Midwest. The once bourgeois banana became positively proletarian.

By the 1920s, United Fruit's empire had spread across Central America. It also included Jamaica, Cuba and the Dominican Republic. In South America the company owned chunks of Colombia and Ecuador. It came to dominate the European as well as the US banana markets with the help of its Great White Fleet of 100 refrigerated ships, the largest private navy in the world.

There are more than 300 varieties of banana, but United Fruit grew only one: the Gros Michel or "Big Mike". This variety suited most tastes; it was not too big or too small, too yellow or too sweet - if anything, it was a little bland. This was the forerunner of the transnational products we have today. For Big Mike read Big Mac.

But mass production took its toll. In 1903, disease hit United Fruit's plantations in Panama. An array of pathogens kept up the attack, and the banana was discovered to have a genetic weakness. Its seeds are ill equipped for reproduction, so growers take cuttings from one plant to create another. The banana is a clone, with each inbred generation less resilient. (In 2003, New Scientist reported that the banana was dying and might have only a decade to live. Genetic modification scientists have been called in to save it, so far without success.)

Although the banana was diseased, United Fruit marketed it as a product that exemplified good health. Banana diseases did not affect humans, and the fruit was said to be the cure for many ills: obesity, blood pressure, constipation - even depression. In 1929, United Fruit set up its own "education department", which supplied US schools with teaching kits extolling the benefits of the banana and the good works of the company. Meanwhile, United Fruit's "home economics" department showered housewives with banana recipes.

One of United Fruit's most successful advertising campaigns began in 1944, designed to boost the banana's profile after its scarcity during the war. It featured Senorita Chiquita Banana, a cartoon banana who danced and sang in an exuberant Latin style. Senorita Chiquita bore a close resemblance to Carmen Miranda, the Brazilian entertainer who, in her "tutti-frutti" hat, wowed Hollywood at the time. Sales soon regained prewar levels.

By the 1960s, the banana had become an inseparable accompaniment to the morning cereal of most American children. And today, in countries such as the US and Britain, it has ousted the apple as the most popular fruit. In the UK, figures indicate that more than 95 per cent of households buy bananas each week, and that more money is spent on them than on any other supermarket item, apart from petrol and lottery tickets.

Over the years, United Fruit fought hard for low taxes and light regulation. By the beginning of the 20th century, troublesome anti- trust laws had been passed in the US to crack down on business behaviour such as price-fixing and other monopolistic practices. Taxes on large corporations were increased to fund welfare benefits in the US and fully fledged welfare states in Europe. But, with a centre of operations far from the lawmakers of Washington DC, United Fruit largely avoided all this.

The company also gained a reputation as being ruthless when crossed, and acted to remove governments that did not comply with its wishes. United Fruit had first shown its tough nature in the invasion of Honduras in 1911, which was planned by Sam "The Banana Man" Zemurray, a business partner of United Fruit who later headed the company. Efforts by Zemurray and United Fruit to set up production in Honduras had been blocked by the Honduran government, which was fearful of the power it might wield. United Fruit was not so easily deterred. Zemurray financed an invasion, led by such enterprising types as "General" (self-appointed) Lee Christmas and freelance trouble-shooter Guy "Machine Gun" Molony. Thanks to United Fruit, many more exercises in "regime change" were carried out in the name of the banana.

In 1941, the company hired a new consultant, Sigmund Freud's nephew, Edward Bernays, who had adapted the early disciplines of psychoanalysis to the marketplace. Bernays is known as the "father of public relations" following his seminal 1928 book, Propaganda, in which he argued that it was the duty of the "intelligent minority" of society to manipulate the unthinking "group mind". This, Bernays asserted, was for the sake of freedom and democracy.

United Fruit had become concerned about its image. In Central America, it was commonly known as el pulpo (the octopus) - its tentacles everywhere. In the US, United Fruit's territories were seen as troubled and forbidding. Under Bernays' guidance, the company began issuing a steady flow of information to the media about its work, rebranding the region as "Middle America".

In 1954, Bernays exercised his manipulative powers to get rid of the Guatemalan government. Democratically elected, it had taken some of United Fruit's large areas of unused land to give to peasant farmers. Bernays' response was to call newspaper contacts who might be amenable to the company view. Journalists were sent on "fact finding" missions to Central America and, in particular, Guatemala, where they chased false stories of gunfire and bombs. In dispatches home, Guatemala became a place gripped by "communist terror".

The company looked, too, to friends in high places, both in the corridors of power and in the offices where the big decisions were made. During the Guatemalan crisis, John Foster Dulles, one of the world's most esteemed statesmen, was secretary of state. His brother, Allen Dulles, was head of the CIA. Both were former legal advisers to United Fruit. Together, the Dulles brothers orchestrated the coup that overthrew Guatemala's government in 1954.

Despite its ugly reputation, United Fruit often made philanthropic gestures. The hapless Eli Black played a part in coining the term "corporate social responsibility" when, in reference to earthquake relief sent to Nicaragua in 1972, he extolled the company's deeds as "our social responsibility". And in the 1930s, Sam Zemurray donated part of his fortune to a children's clinic in New Orleans. He later gave $1m to the city's Tulane University to finance "Middle American" research; he also funded a Harvard professorship for women. Philanthropy, however, did not prevent United Fruit's abuses, and, in the 1950s, the US government decided it had to act. The company's activities had caused such anti-US feeling in Latin America that leftwing revolutionaries such as Fidel Castro and Che Guevara had prospered. And so Washington began to take away some of United Fruit's land.

Ironically, Castro had benefited from the presence of United Fruit in Cuba. His father, a sugar planter, leased land from the company, and had made enough money to afford a good upbringing for his children. Guevara had fought both United Fruit and the CIA during the Guatemalan coup; he maintained thereafter that Latin America had no choice but "armed struggle". At New Year 1959, Castro and Guevara seized power in Cuba and kicked out the US-supported regime of Fulgencio Batista.

Like an ailing dictator, United Fruit lashed out - and nearly took the world with it. In 1961, it lent part of its Great White Fleet to the CIA and Cuban exiles in the US who were plotting to overthrow Castro. When the Bay of Pigs invasion failed, Castro, fearing another attack, ushered in armaments from the Soviet Union, prompting the missile crisis of 1962.

United Fruit battled on through the 1960s, its product ever more the victim of disease. Big Mike flagged, died and gave way to the dessert banana most of the developed world eats today, the Cavendish. It was said to be "disease resistant". Now that's dying, too.

Black took over the company in 1970, imagining he could turn it back into the colossus it once was. The early 1970s, however, were a terrible period for the image of multinational corporations. Chief among them, oil companies made huge profits from the crisis after the 1973 Middle East war, to the inflationary ruin of rich and poor countries alike. United Fruit became an embarrassment. It was weak where others, such as the oil moguls, remained strong. When its stock market value crashed and regulators moved in, it looked like natural selection.

After the fall of the Berlin Wall, in 1989, in a born-again spirit of globalisation, the world's main banana companies picked up the free-market banner once carried by United Fruit. The companies - Chiquita, Del Monte and Dole from the US, and Noboa from Ecuador - did not have anything like the force of United Fruit individually, but they were still a formidable presence. Together they were known to their critics, if not to themselves, as the "Wild Bunch".

In the 1990s, the US took its case to the World Trade Organisation, the new high court of globalisation. The companies protested that west European countries unfairly protected the producers of so- called "Fairtrade" bananas in former European colonies through a complex system of quotas and licences. The Wild Bunch characterised this as revamped colonialism and outmoded welfare state-ism and, instead, promoted their own "Free Trade" bananas.

In the new millennium, after what had become a general trade war, the Europeans backed down and agreed to concessions. They did so with some rancour, protesting that Washington had again allowed itself to be manipulated by narrow interests. Some spoke of a return of the "old and dark forces". They were thinking of United Fruit.

As for the banana, the diseases affecting today's varieties may mean they are unable to survive in their mass-produced form. It may be that bananas will have to be grown in more varieties and on smaller areas of land. Bananas could, more than a century after United Fruit turned them into food for the masses, return to being a luxury.

Peter Chapman is the author of "Jungle Capitalists: A Story of Globalisation, Greed and Revolution" (Canongate).

BENT OUT OF SHAPE

Hot and damp are the banana's preferred conditions for growth, such as those found in the coastal lowlands of the tropics. Central America's humid Atlantic Coast was, therefore, considered perfect for commercial production. The banana we eat is portrayed as a thing of nature but is actually the product of an intensive process of production, shipping and distribution. Normally bananas come from a plantation in a very distant country to point of sale within 12 to 13 days - 300 hours - of cutting. Any later and they start to rot. The banana itself has never adapted to man's efforts to domesticate it and has been afflicted by plant disease virtually ever since it was subjected to mass production. Since the 1930s, those producing it have waged chemical warfare with pesticides and fungicides on the banana's pests to prevent the fruit slipping back into the jungle whence it came. That battle has steadily intensified so that the banana is today the most chemically treated of the world's major food crops.

As consumers, therefore, we trust a great deal to the prophylactic powers of its skin.



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