martedì, marzo 08, 2011

Vita operativa dei reattori nucleari

Comunemente si tende a pensare che il costo di produzione dell'energia nucleare dipenda prevalentemente dal costo di costruzione degli impianti, invece diversi sono i fattori che determinano il costo del kWh prodotto. Tra questi, molto importante è la durata della vita operativa della centrale. In questo affascinante articolo, Domenico Coiante, dall'alto della sua esperienza di fisico ricercatore e dirigente per 35 anni presso l’Enea, non solo fa luce su questo aspetto cruciale della questione, ma ci racconta anche una parte forse poco conosciuta della storia energetica nazionale.


Scritto da Domenico Coiante

Costo del kWh e vita operativa

Nella stima del costo del kWh prodotto nelle centrali elettriche ha un ruolo fondamentale la durata del funzionamento in piena efficienza degli impianti di produzione. Questo periodo temporale è indicato come “vita utile” o “vita operativa”. Esso inizia al momento d’avvio dell’attività produttiva e termina quando le spese annuali di esercizio e manutenzione arrivano a superare il ricavo ottenuto dalla vendita dell’energia, (le spese di manutenzione crescono con l’invecchiamento degli impianti). Questo evento determina la chiusura definitiva delle attività.
Fissata la potenza nominale del generatore, tanto più lunga è la vita operativa quanto maggiore è la produzione energetica cumulativa. Quindi, a parità di costo della centrale, il costo dell’unità di energia prodotta sarà tanto più basso quanto più lunga è la sua vita operativa.

I reattori nucleari di I e II generazione erano progettati per una vita operativa di 30 anni, la stessa degli impianti termoelettrici tradizionali. L’ammortamento della spesa per gli impianti era spalmato sull’intera vita operativa e ciò determinava, attraverso il tasso di sconto vigente, il costo di produzione del kWh. Pertanto, le condizioni esistenti, sia per il costo della centrale, sia per le incentivazioni governative, congiuntamente alla vita operativa di almeno 30 anni, garantivano la competitività del nucleare sul mercato elettrico dominato dalla produzione termoelettrica convenzionale.

Per lo meno ciò è stato vero fintanto che è esistito il mercato parallelo, militarmente protetto, del plutonio estratto dagli elementi di combustibile bruciato. I proventi del plutonio, come sottoprodotto della produzione atomica pacifica, ammontavano in quegli anni a circa 30 $/g e questo prezzo d’acquisto da parte del governo USA era così alto da rappresentare per le imprese nucleari la “fonte più alta di profitto” (Loizzo, 1994). Ricordo che con il plutonio si sono realizzate nei Paesi Alleati (ed ex Alleati) migliaia di testate nucleari durante il periodo della guerra fredda. La quota di ricavo proveniente dalla vendita del plutonio costituì il sussidio principale di sostegno al costo del kWh nucleare fino al 1977. In quell’anno il Presidente J. Carter, preoccupato per la proliferazione atomica, fece approvare dal Congresso un decreto che proibiva l’estrazione del plutonio dagli elementi di combustibile bruciato. Improvvisamente, per i gestori delle centrali nucleari, venne a mancare il principale provento. Le centrali già in funzione da anni, a cui il sussidio ‘plutonio’ aveva consentito praticamente di ammortizzare la spesa di costruzione, poterono continuare a produrre i kWh in attivo, mentre, per le ultime nate, sorsero seri problemi economici. Le cose peggiorarono ulteriormente nel 1978, quando il Presidente G. Ford fece privatizzare completamente il settore dei reattori nucleari, togliendo gli altri incentivi pubblici, tra cui le garanzie governative ai prestiti chiesti per realizzare gli impianti. Per l’industria nucleare statunitense fu il blocco totale: gli ordini in itinere furono bloccati e nessun nuovo impianto fu più ordinato in USA fino ai nostri giorni. Le industrie si ridimensionarono drasticamente ed alcune sono sopravvissute approfittando di alcune realizzazioni di reattori nucleari nei paesi emergenti, principalmente Cina, India, Pakistan, Corea, dove esistevano ambigui programmi per il “nucleare pacifico”.

Anche l’Italia risentì pesantemente di questa situazione. Il programma nucleare, varato a fatica dal ministro dell’industria Donat Cattin nel 1975, che prevedeva la costruzione di 20 centrali nucleari da 1000 MW ciascuna, per un costo totale di 20000 miliardi di lire, dovette essere ridimensionato a soli 6 impianti, di cui solo due furono realizzati: Trino Vercellese e Caorso. A titolo di prova della gravità della crisi, chi scrive può ricordare che, nel giorno stesso della decisione del Presidente Ford, il corso di qualificazione sulla sicurezza dei reattori PWR della Westighouse, che si stava tenendo a Roma e a cui egli partecipava, fu interrotto bruscamente durante una lezione e tutti gli insegnanti, specialisti della ditta, furono richiamati immediatamente negli USA.

A parte la questione del plutonio, nel passaggio dai reattori della I generazione degli anni ’50-’60 a quelli della II generazione degli anni ’70 era avvenuto un notevole aumento dei costi di costruzione degli impianti, soprattutto, a causa delle esigenze di maggior sicurezza imposte dagli organismi governativi di controllo. Questi maggiori oneri erano in parte assorbiti dal grande margine di profitto, che proveniva dalla vendita del plutonio. Una volta bloccata questa fonte e liberalizzato il settore, la competitività del kWh nucleare fu fortemente compromessa. L’energia nucleare non era più a “costo così basso da non poter essere misurato”, come recitava lo slogan in voga negli anni ’50.
Arriviamo agli anni 2000, quando l’industria nucleare sopravvissuta ha iniziato ad annunciare il “rinascimento nucleare”, da realizzare con la III generazione dei reattori, quella presente, in attesa di una IV generazione ancora nella mente dei ricercatori.

Quale è la novità?
La competitività del kWh può essere recuperata, nonostante i più alti costi d’impianto dovuti alle apparecchiature dei sistemi di sicurezza, mediante una migliore efficienza di conversione ed il prolungamento della vita operativa.
Il miglioramento dei materiali e delle tecnologie ha consentito di portare la produttività annuale media della centrale dai 6500 kWh/kW degli anni ’80 a 7500 – 7800 kWh/kW attuali.
L’esperienza maturata sugli impianti della II generazione, che ormai hanno raggiunto ai nostri giorni i 30 anni di esercizio, ha dimostrato la possibilità di prolungarne la vita operativa fino a 40 anni, mentre i reattori di III generazione sono progettati con criteri tecnici tali da prevedere una vita operativa di 60 anni. Con un periodo di vita così lungo, il fattore di sconto del capitale gioca un ruolo minore e si produce l’abbassamento del costo del kWh.
Quale affidabilità ha la previsione del raddoppio della vita operativa da 30 a 60 anni?

La situazione
Innanzi tutto, cerchiamo di capire perché la vita operativa dei reattori della I e II generazione era fissata a 30 anni.
E’ noto che l’esperienza pratica, maturata in oltre un secolo di gestione degli impianti termoelettrici convenzionali, ha fissato la loro vita utile intorno ai 30 anni. Dopo questo periodo, il numero dei guasti delle parti rilevanti diventa così alto da portare il costo di manutenzione ad un valore tale da azzerare il profitto. Per questo motivo, una vita operativa di 30 anni è usualmente assunta per il bilancio economico dell’impresa termoelettrica.
Poiché un impianto nucleare, a parte il modo per scaldare il fluido termico primario, è sostanzialmente simile ad un impianto termoelettrico convenzionale, si è ritenuto che il processo d’invecchiamento dei principali componenti fosse analogo. Anzi, nel caso del nucleare, si sa che la presenza delle radiazioni neutroniche produce l’infragilimento di tutti i materiali, compreso l’acciaio. Quindi, il processo d’invecchiamento è accelerato e, di conseguenza, si sono dovuti adottare provvedimenti d’irrobustimento dei materiali per garantirsi almeno 30 anni di vita operativa. Questo ha prodotto, indipendentemente dai requisiti dei sistemi di sicurezza, un generale aumento del costo degli impianti rispetto a quelli convenzionali, ma tale aumento era compensato dal bassissimo costo del combustibile nucleare. In definitiva, i 30 anni previsti per la vita utile erano sufficienti per portare al profitto l’impresa.
Per molti reattori nucleari 30 anni sono ormai trascorsi dal loro avvio. Ci chiediamo se la previsione della vita operativa è stata rispettata.

Certo, non ci possiamo basare sull’esperienza italiana, che, a prescindere dal blocco a seguito del referendum del 1987, è stata abbastanza travagliata. Infatti, i due reattori della I generazione, costruiti alla fine degli anni ’50 ed avviati nei primi anni ’60, avevano mostrato una serie di malfunzionamenti, che difficilmente avrebbero permesso il raggiungimento dei 30 anni di vita operativa.
- Il reattore di Latina, della filiera inglese a gas-grafite, poco dopo essere stato portato alla massima potenza di 210 MW, ebbe un grave guasto a causa della dilatazione termica dei blocchi di grafite. Alcuni dadi che serravano i bulloni di contenimento della grafite saltarono via, facendo oscillare pericolosamente il nucleo del reattore e provocando l’intervento del sistema di blocco. L’esame del guasto e la sua riparazione consigliarono di esercire il reattore a potenza ridotta a 140 MW, onde impedire una eccessiva dilatazione della grafite, e così fu fatto fino al blocco del 1987. E’ chiaro che, in tali condizioni di funzionamento a regime ridotto, la vita operativa sarebbe stata poco significativa in ogni caso.
- Il reattore ad acqua bollente (BWR) da 160 MW della General Electric del Garigliano ebbe una vita altrettanto travagliata. Avviato nel 1963, il suo funzionamento fu spesso interrotto durante i primi 10 anni a causa di guasti. Chi scrive partecipò, come addetto ai controlli governativi previsti dalla legge, alle diverse ispezioni dei sistemi di sicurezza a seguito della richiesta del rinnovo decennale della licenza d’esercizio. Assieme ad alcuni malfunzionamenti di scarso rilievo, si scoprì in quella occasione una perdita di vapore radioattivo da parte di una saldatura del bocchettone d’uscita di uno dei circuiti primari. La successiva verifica a tutti gli altri bocchettoni mise in evidenza la presenza di cricche nelle saldature, da cui ancora non usciva vapore. Una indagine fatta in Germania, su alcuni impianti uguali a quello del Garigliano, permise di accertare il verificarsi di guasti simili. Le stime tecniche ed economiche fatte dall’ENEL dimostrarono la non convenienza di riparare i guasti e, pertanto, fu presa nel 1981 la decisione di spegnere il reattore. Quando fu deciso il blocco del nucleare per il referendum del 1987, il reattore del Garigliano era già spento da anni. La sua vita operativa, a voler essere ottimisti, è stata di circa 15 anni.
- Gli altri due reattori, quello PWR di Trino Vercellese da 260 MW e quello BWR di Caorso da 860 MW furono spenti per decisione politica nel 1987, rispettivamente dopo 25 e 12 anni di funzionamento.

Vediamo, pertanto, se possiamo sostenere la fiducia nella previsione di 60 anni di vita con altri elementi sperimentali provenienti da una base significativa allargata nel mondo.
La seguente tabella, pubblicata dalla World Nuclear Association (WNA, 2010), fornisce l’elenco di tutti i reattori che sono stati spenti finora per raggiunti limiti d’età (perché divenuti non economici).
Come si può costatare, la grande maggioranza di questi 95 reattori è entrata in servizio negli anni ’60 e un piccolo numero di essi è stato avviato nei primi anni ’70.
Il grafico di Fig.1 riporta gli stessi dati della tabella in forma di distribuzione del numero di reattori rispetto alla vita operativa.

Il valore della media aritmetica della vita operativa, calcolato per l’intera distribuzione, è di 23,1 anni.
Osservando l’istogramma, si nota un gruppo di casi che si addensano nei primi 7 anni della scala. Si tratta quasi sempre di casi relativi a reattori sperimentali prototipi, che non hanno dato luogo a filiere industriali. Eliminandoli dalla base per la media perché si tratta di casi non significativi, il valore della media sale a 26,8 anni. Non possiamo, tuttavia, concludere che la vita operativa dei reattori della I e II generazione sia questa, perché non sappiamo quanti altri impianti, avviati negli anni ’70, siano ancora in funzione. Ad esempio, osservando il lato destro del grafico, possiamo vedere che una decina di reattori hanno operato per oltre 40 anni; ce ne potrebbero essere altri, entrati in servizio alla fine degli anni ’70 prima del blocco, che ancora sono in esercizio e che potrebbero portare la media della vita operativa ad un valore più alto.

Il grafico di Fig.2, sotto riprodotto da un recente rapporto dell’IAEA (IAEA, 2009), è molto interessante. Esso mostra chiaramente che la maggior parte dei reattori in funzione ha un’età compresa fra i 20 e i 30 anni e che un altro consistente gruppo è in servizio da 30-40 anni. Andando indietro nel tempo, il primo gruppo è entrato in servizio nella decade 1980-1990 e, secondo il grafico, ha statisticamente ancora davanti a sé un periodo di vita di un’altra decina di anni, mentre il secondo, che è stato avviato nella decade precedente 1970-1980, non ha più un futuro (sempre in termini statistici).
Praticamente non ci sono più in servizio reattori d’età superiore a 40 anni, cioè costruiti ed avviati prima del 1970.

Conclusione
La conclusione, che si può trarre da questi dati sperimentali, è che la vita operativa effettiva si possa collocare con buona certezza al valore assunto dei 30 anni e che l’estensione a 40 anni, per i reattori di tecnologia più recente, sia probabilisticamente accettabile.
Per quanto riguarda l’ulteriore estensione a 60 anni, non si ha alcun riscontro nei dati sperimentali.

Riferimenti
- Loizzo P., 1994, Le centrali nucleari, ovvero il diavolo che non c’è, Ed. Monteleone, Vibo Valentia 1994, p.98
- WNA, 2010, Decommissioning Nuclear Facilities, www.world-nuclear.org/info/inf19.html
- IAEA, 2009, Power Reactor Information System, www.iaea.org/programmes/a2

9 commenti:

Griya Mobil Kita ha detto...

Bell'articolo, grazie per le informazioni.
sewa mobil

bkk76 ha detto...

ma...ultimamente io ho sempre letto che attualmente il prezzo del combustibile nucleare resta conveniente grazie allo smantellamento delle testate atomiche. Nell'articolo si dice che il plutonio per armamenti e' un prodotto di scarto del combustibie nucleare una volta esausto...qualcosa non mi torna :-)

Forse nelle centrali di I generazione si riusciva a utilizzare il combustibile in modo meno efficiente mentre in quelle di II e III si riesce a "bruciare" anche quello che prima era considerato scarto?

Unknown ha detto...

L'articolo mi sembra molto interessante, così come i commenti, per quanto devo dire che i concetti espressi vanno ben oltre la mia preparazione. vorrei però far notare che in nessun caso si tiene conto, nel calcolo del prezzo del kWh, dei costi "esterni". chi si farà carico del costo dello stoccaggio e dello smaltimento di rifiuti per centinaia di migliaia d'anni?

Mauro ha detto...

@Enrico
Ho guardato il "prezzo del combustibile" che hai linkato e sono un po' perplesso:
1. Il grafico si ferma al 2008
2. Notoriamente il carbone costa meno dell'uranio (ma inquina di più)
E' veramente affidabile quel sito?
...E comunque anche se il costo è trascurabile (falso) dal costo si possono fare ipotesi riguardo da disponibilità (=sicurezza approvigionamenti)
Ed analizzando grafici più seri http://www.indexmundi.com/commodities/?commodity=uranium&months=240 vengono dei dubbi.

Ugo Bardi ha detto...

Siamo stati sottoposti a un'ondata di spam. I commenti sono al momento sotto moderazione. Scusate, ma il troppo è troppo!

Ugo Bardi ha detto...

Siamo invasi dallo spam. Siamo costretti a chiudere temporaneamente i commenti. Scusate, riapriamo appena possibile

Terenzio Longobardi ha detto...

Pubblico una risposta dell'autore ai commenti:
"Il plutonio che si trova nel combustibile bruciato è uno scarto, perchè, anche se è materiale fissile, non conviene economicamente estrarlo per usarlo come combustibile nei reattori termici. E' più conveniente utlizzare l'uranio arricchito con il processo convenzionale.

Se però uno si vuole fare la bomba, allora il plutonio diviene indispensabile ed ecco perchè fino al 1977 veniva estratto dal combustibile bruciato a spese del governo e veniva pagato ai gestori delle centrali come byproduct. E allora il kWh diveniva molto conveniente.

Oggi ci sono migliaia testate nucleari al plutonio, sia in USA, sia in Russia, che devono essere smantellate. Inoltre nei rispettivi magazzini governativi c'è una quantità di plutonio che non può più essere usato per le bombe. Allora si è trovato il modo di utilizzarlo come combustibile miscelandolo in piccola parte con l'uranio depleto recuperato dagli elementi di combustibile bruciato. Il materiale composto si chiama MOX, mixed oxide, ed è utilizzabile come combustibile nei reattori nucleari. Quindi il plutonio in eccesso rispetto agli accordi militari est-ovest è divenuto una sorgente di combustibile, che ha contribuito notevolmente a far abbassare il prezzo dell'uranio da oltre 100 $/lb ai circa 50-60 attuali. Per quanto durerà questa situazione non è dato saperlo, perchè sulla disponibilità di plutonio i dati sono sempre riservati.

Spero di essere stato esauriente."

Domenico Coiante

Anonimo ha detto...

Porto questo link dei Medici per l'Ambiente Angelo Baracca ed Ernesto Burgio, rispondono all'intervista di Umberto Veronesi, noto pro-nucleare, su La Stampa del 3 marzo.
A me sembrano risposte di buon senso.
Articolo sul blog del dott. Federico Valerio

Daniele Frasca ha detto...

Proprio stamane sono stato al convegno organizzato dal Forum Nucleare sulla gestione delle scorie.. Nulla di nuovo portano questi signori nel dibattito: solo che secondo i molti presenti sia economicamente vantaggioso costruire e gestire un tale deposito eche ci sia la tecnologia adatta. Sopratutto sulla base di un impianto di stoccaggio progettato e approvato in Finlandia e pronto (secondo i tempi ufficiali nel 2020)..
Non sono un esperto in materia ma cosi a farsi due conti è difficile stimare i costi di un deposito del genere..anche solo per 50 anni.. Queste persone hanno una bella strategia: alle perplessità delle persone rispondo con progetti non ancora attuati e prospettive future..