mercoledì, giugno 03, 2009

I Garamanti

La tecnica dei foggara fu importata in Nord Africa dalla Persia, dove furono inventati col nome di qanat. Nell'immagine da Wikipedia, uno schema di un tipico qanat, che ne mostra il principio di funzionamento





created by Enrico Battocchi



Quella dei Garamanti fu una popolazione berbera che sarebbe stata relegata ad una nota a piè di pagina, o ad un posto di non particolare rilievo negli elenchi di popoli delle versioni di latino, se non ci fossero state sorprendenti scoperte nelle campagne archeologiche condotte nel Fezzan della Libia sudoccidentale. Il loro nome, legato alla capitale Garama (l'attuale Germa), era noto fin dai racconti un po' fantasiosi di Erodoto, che li descriveva come degli eremiti sprovvisti di armi e ciononostante cacciatori di “Etiopi trogloditi”, che inseguivano a bordo di carri trainati da quattro cavalli; le fonti romane, più tardi, li citano con tono quasi sprezzante, per segnalare i trionfi dell'Urbe contro genti rozze, primitive, dedite alla razzia. Dai ritrovamenti più recenti si sono rivelati invece una vera e propria civiltà, con almeno una decina di centri urbani, dotata di scrittura (un antenato diretto dell'attuale alfabeto Tuareg) e di un'organizzazione statale accentrata, di tipo monarchico, che gli archeologi talvolta si spingono a definire impero.

Il Fezzan, pur essendo in pieno Sahara, non è solo erg, ovvero deserto pianeggiante popolato da enormi dune sabbiose in movimento continuo, come quello che ci è familiare da tanti film. È invece una zona con montagne e altipiani, solcata da numerose valli (wadi) di fiumi scomparsi o torrenti stagionali. I berberi che sarebbero diventati Garamanti, probabilmente, si trovavano già in quei luoghi quando il Sahara era ancora umido e rigoglioso: ma quel periodo stava terminando a favore dell'attuale fase arida. Gli abitanti del Fezzan, da nomadi cacciatori-raccoglitori che erano, risposero ai mutamenti climatici in maniera apparentemente controintuitiva: adottando cioè la pastorizia e l'agricoltura. Può in effetti suonare strano, abituati come siamo a considerare questi modi di produzione come “più avanzati” rispetto a quello “primitivo” delle popolazioni nomadi, che i berberi non avessero sfruttato la fortuna di trovarsi in un Sahara fertile, fintanto che durò, usandolo come terreno agricolo. Il passaggio all'agricoltura come risposta a condizioni (in questo caso climatiche) mutate verso il peggio ricorda invece la posizione espressa da un vecchio articolo di Jared Diamond.

Secondo Diamond il confronto con la situazione degli ultimi cacciatori-raccoglitori rimasti, e i dati che si possono evincere dall'analisi paleopatologica delle sepolture risalenti al periodo di transizione tra vita nomade e modo di produzione agricolo-pastorale, mostra che tale passaggio fu drammatico: l'alimentazione peggiorò in qualità, le epidemie infettive si diffusero col loro tributo di sangue, l'organizzazione sociale virò verso strutture piramidali basate sulla forza e sul furto. Insomma, tanti e tali erano i “contro” dell'agricoltura che essa fu adottata solo come risposta ad una situazione di difficoltà, in cui il modo di vita dei cacciatori-raccoglitori non era più possibile.
La teoria di Diamond può apparire antimoderna e provocatoria, ma in questo caso spiega piuttosto bene la concomitanza temporale tra peggioramento delle condizioni climatiche e l'avvicendamento dei modi di produzione nel caso dei berberi del Fezzan, anche alla luce di una ulteriore difficoltà: nel Sahara che si desertificava, non solo stavano scomparendo la flora e la fauna selvatiche che avevano sostenuto per lungo tempo la sparuta popolazione locale, ma stava venendo meno la base stessa della vita, l'acqua. Le tribù si concentrarono quindi nei pochi luoghi in cui restavano delle sorgenti attive, che ebbero però breve durata, e a quanto pare si esaurirono prima del 1000 a.C.
Il modo di produzione agricolo, pur richiedendo anche maggiori quantità di acqua rispetto allo stile di vita dei nomadi, aveva tuttavia un atout. Permetteva infatti l'elevato grado di complessità sociale necessario perché i berberi potessero recuperare l'acqua dall'unico posto in cui la si può trovare in mezzo ad un deserto: le falde sotterranee. Costruirono quindi una gigantesca rete di foggara, ovvero dei tunnel “quasi orizzontali” che intercettavano le falde sulle alture e sfruttavano la pendenza per convogliare l'acqua verso valle. Pur essendo una tecnica che non richiede grandi quantità di energia per il funzionamento - a differenza dei pozzi verticali in cui bisogna fare lavoro per portare l'acqua al livello del suolo - la costruzione e il mantenimento in attività erano questioni decisamente complicate, soprattutto considerando le proporzioni di cui parliamo: decine di gallerie lunghe anche centinaia di chilometri. Serviva quindi una civiltà di tipo urbano (si calcola che le città fossero almeno una decina) e con un'organizzazione statale e accentrata, quindi sotto il comando di un sovrano: innovazioni che, sempre seguendo Diamond, non sono affatto aliene, ma anzi sempre conseguenti, all'adozione dell'agricoltura.
La tecnica dei foggara fu importata in Nord Africa dalla Persia, dove furono inventati col nome di qanat. Nell'immagine da Wikipedia, uno schema di un tipico qanat, che ne mostra il principio di funzionamento.
Serviva soprattutto una fonte energetica sufficientemente potente e versatile. Questa, all'epoca, era rappresentata dal lavoro degli schiavi, di cui i Garamanti divennero mercanti, sfruttando con spirito d'intraprendenza molto mediterraneo la vicinanza con Roma e il vantaggio territoriale in un luogo facile da difendere ma difficile da attaccare. I Romani infatti non riuscirono mai a conquistarli, nonostante alcune campagne nel I sec. a.C. e nel I d.C., in cui si ipotizza - le fonti non sono troppo esplicite al riguardo - che il massimo risultato fu quello di ridurre i Garamanti a stato cliente: una sorta di formalizzazione di un rapporto di interdipendenza che sussisteva già da tempo.

In effetti, anzi, i Garamanti durarono più a lungo di Roma: dai ritrovamenti possiamo dedurre che fossero già una potenza in ascesa intorno al 500, quando i Romani erano ancora dominati dagli Etruschi; sopravvissero inoltre all'Impero d'Occidente, tanto da stringere, nel 569 d.C., una tregua con Giustino II di Bisanzio, convertendosi al Cristianesimo. Furono infine conquistati dagli Arabi solo nel 668.
In realtà gli ultimi secoli della loro storia videro un sostanziale declino. È vero che i Garamanti poterono attingere alle falde acquifere per più di 1000 anni, ma alla fine l'acqua finì, o meglio, divenne troppo scarsa e difficile da estrarre. Possiamo immaginare che in questo millennio di storia le tecniche usate venissero affinate, ma ciò non impedì che la risorsa si esaurisse, probabilmente con una curva come quella di Hubbert, e con ritorni decrescenti, in cui ad un certo punto gran parte dell'acqua faticosamente estratta serviva solo a mantenere le strutture sociali e materiali impiegate per recuperarla. Mano a mano che si esaurivano le falde più ricche e “facili”, dovevano essere scavati nuovi foggara, sempre più dispendiosi in termini di lavoro e meno fruttuosi in termini di resa (insomma, l'EROEI nel tempo andò a decrescere). Nel frattempo, il Sahara continuava a desertificarsi e le condizioni ambientali peggioravano. Completava il quadro il declino del principale partner commerciale, l'Impero Romano.
E nonostante 1000 anni di acqua dove non ve ne era, di forza lavoro sotto forma di schiavi, e di “civilizzazione” capace di uno sviluppo agricolo rilevante, i Garamanti non riuscirono a sfuggire alla condanna del mutamento climatico e ai limiti fisiologici della loro situazione. Il cambiamento che avevano apportato al deserto era fragile, basato su una fonte - benché non energetica in senso stretto - non rinnovabile: possiamo definirlo epidermico, troppo effimero e superficiale per essere duraturo. Per analogia con altre curve di crescita e declino, è anche possibile ipotizzare che il “picco” dell'acqua di falda di cui si servivano sia sopraggiunto circa a metà della loro storia, magari proprio intorno al 70 d.C., quando Valerio Festo, a capo di una spedizione punitiva, impose loro lo status di clientes, assoggettandoli quindi ad un tributo. In quell'occasione, i Romani usarono per la prima volta i cammelli in una campagna militare e, secondo Plinio, scoprirono una via più diretta per il Fezzan, quella che ai berberi era ben nota e che usavano per i propri traffici: un segno del fatto che stava venendo meno il vantaggio grazie al quale i Garamanti avevano tenuto testa al più potente impero dell'epoca. Forse si salvarono dalla conquista effettiva perché anche i Romani cominciavano a trovarsi in affanno a gestire l'elevato livello di complessità raggiunto: in altre parole, non era possibile controllare direttamente un territorio così inospitale, e un equilibrio così fragile, senza la spinta dinamica che Roma stava ormai perdendo.
Le dimensioni dell'opera dei Garamanti, intuite solo in tempi recenti, non erano ancora note quando il governo libico di Gheddafi lanciò il progetto del Grande Fiume Artificiale. Questa titanica impresa permette di attingere ad una riserva d'acqua sotterranea, di estensione tanto grande da poter sulla carta durare migliaia d'anni al tasso attuale di sfruttamento. Ma le cose non sono così lineari, come impararono a proprie spese i Garamanti: l'acqua non sarà interamente recuperabile, perché è difficile che si trovi in forma libera, e di solito è contenuta in rocce porose impregnate come spugne. Inoltre, l'estrazione è molto energivora, e se oggi può contare sul petrolio abbondante e a buon mercato, le circostanze non saranno sempre così favorevoli. Infine, prima o poi l'estrazione passerà un picco, e quello che sembrava facile diventerà ogni giorno più difficile.
C'è un epilogo, che se creato per la narrativa o il cinema sarebbe probabilmente didascalico, ma - in quanto reale - non può essere taciuto per amore della forma, anche astenendosi dal volerlo inquadrare in un apologo.Secoli dopo il declino dei Garamanti, in quegli stessi luoghi fu scoperto il petrolio. Il principale giacimento, di oltre mezzo miliardo di barili, è chiamato “Elefante”: non per le sue dimensioni, tutto sommato non eccezionali per gli standard libici, ma per la vicinanza con un petroglifo raffigurante un pachiderma. Uno dei lasciti dei Garamanti del Fezzan, oltre alle centinaia di chilometri di gallerie scavate nelle montagne e ai circa 100.000 condotti verticali usati per la loro costruzione, è infatti una ricca serie di graffiti rupestri risalenti al loro periodo preagricolo: si tratta della collezione più importante dell'Africa e forse tra le più estese al mondo. Il petrolio che viene estratto, insieme con l'acqua del Grande Fiume Artificiale, sta facendo tornare l'agricoltura nel deserto, sotto la curiosa forma di campi circolari giustapposti come se fossero fiches di un megapoker. Ma, nell'imitare i Garamanti, l'estrazione petrolifera sta mettendo a serio rischio il patrimonio artistico dell'antico popolo. Secondo gli esperti i danni causati sono già paragonabili alla perdita dei Buddha di Bamyan, fatti esplodere dai talebani nel 2001.
Le fonti usate per la redazione di questo articolo, oltre ai link segnalati nel testo:
· http://www.cru.uea.ac.uk/~e118/Fezzan/fezzan_home.html
· Louis Werner. Libya's Forgotten Desert Kingdom. Saudi Aramco World May/June 2004 , pp.8-13
· Gabriel Camps. Les Garamantes, conducteurs de chars et bâtisseurs dans le Fezzan antique. Clio.fr (2002).
· http://www.livinghistoryengineer.com/roman/north_africa.htm

9 commenti:

Frank Galvagno ha detto...

Grazie per questo ottimo post Enrico, che mette in evidenza come il destino dei popoli sia sottilmente dipendente dalla risorsa-leader adottata per il proprio "sviluppo".

Per assonanza ri-linko un post di Ugo sulle risorse idriche del sottosuolo libico:
http://aspoitalia.blogspot.com/2007/04/il-grande-fiume-fatto-dalluomo.html

Lopo ha detto...

Grazie, appena ho incontrato il primo riferimento ai Garamanti l'idea di approfondire ed eviscerare una lettura "picchista" della loro Storia è stata automatica.

Ovviamente mi sono dovuto limitare ad un'equivalente "storico" di un calcolo back-on-the-envelope, come si dice. Ma meriterebbero senza dubbio un'indagine più accurata, magari sulla falsariga di Tainter.

roberto ha detto...

be!! e' proprio vero che non si finisce mai di imparare.
roberto de falco

Anonimo ha detto...

Bello.

Però la tesi di Diamond sull'agricoltura come fonte d'ogni male strappa qualche sorriso.

Le malattie, più che da una variazione della dieta, è probabile che venissero dal sovraffollamento: all'aumentare delle popolazioni, e della dimensione delle città, non possono non essersi diffuse epidemie che erano sconosciute ai minuscoli gruppi di nomadi dell'era preagricola.

La soluzione non è mangiare carne e bacche (cosa peraltro fattibile, entro certi limiti): è semmai quella di limitare la dimensione dei gruppi umani ed i contatti con altri gruppi. Improponibile oggi, visto il numero totale di bipedi esistenti al mondo.

Lopo ha detto...

Diamond infatti parla di un concorso di fattori, citando proprio la sovrappopolazione insieme all'impoverimento della dieta. In "Armi, acciaio e malattie" il punto è sviluppato in modo forse meno provocatorio e con maggiore dettaglio (spiegando anche come mai, ad esempio, gli europei hanno portato epidemie devastanti in America e in Australia, senza importarne di paragonabili).

Lopo ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Lopo ha detto...

Una postilla: in "Home", il film appena reso disponibile gratis su YouTube, c'è una parte con splendide immagini sui campi irrigati ad acqua fossile nel deserto dell'Arabia Saudita. Stando alla descrizione, sono campi adesso abbandonati, perché le falde acquifere sono esaurite.
Il video è qui, la parte a cui mi riferisco è da 39:16 in poi

Anonimo ha detto...

Credo di aver realizzato cosa c'era che non mi tornava nelle asserzioni di Diamond. Ci ho pensato tante, tante volte, e qualcosa mi disturbava in tutta quella litania sui cacciatori alti, bravi e furbi e sui contadini gobbi, fessi e somari.

L'autore ci descrive, tramite dati di notevole rilievo, una situazione nella quale una popolazione, da un certo istante in poi, prende a soffrire la fame, cambia stile di vita e cambia regime alimentare. La sua teoria è che questi signori, stanchi di vivere felici e beati nelle foreste, ad un certo punto abbiano deciso di dedicarsi ad una esistenza di miserie e fatiche, rinunciando alle prelibatezze della caccia e della raccolta e riempiendosi la pancia di granaglie crude ed insipide.

Personalmente, ho l'impressione che possa esserci spazio per una interpretazione alternativa, e magari meno intrisa di ideologia.

Non sarà per caso che questi mitici cacciatori/raccoglitori, peraltro già capaci di condurre qualche primitiva coltura e forma di allevamento brado, avessero sovrasfruttato l'ambiente che li ospitava?

Sappiamo che l'avvento delle comunità antiche di ominidi ha portato all'estinzione una folta schiera di specie, in particolare mammiferi ambiti come preda. Sappiamo anche che la colonizzazione delle terre emerse era già avvenuta da tempo immemore, ben prima che l'agricoltura facesse capolino. E sappiamo che ad un certo punto gli umani hanno cominciato a patir fame, e la loro già breve vita si è accorciata di qualche anno. In quell'istante, l'agricoltura si è fatta strada.

Per come la vedo io, questa faccenda è semplice: le comunità primitive erano una primissima "società della crescita", che produceva bipedi in tale esagerato sovrannumero da poterli spedire a colonizzare praticamente ogni luogo del mondo (un fatto accertato). Ad un certo momento, non perfettamente sincrono nelle varie aree considerate, questi signori hanno sfondato i limiti dei loro habitat: estinzioni di mammiferi e di piante utili (tanto famose che ce le propinano anche alle scuole elementari), danni al patrimonio boschivo, scarsità di cibo e via discorrendo. In quel momento, sono stati costretti a cambiare risorsa: è arrivata l'agricoltura. Non avevano più scelta.

Nella pratica, questi signori non avrebbero fatto altro che "saltare da una curva a campana all'altra", come si usa dire oggi. Hanno raggiunto il "picco della caccia e della raccolta", il primo picco della Storia, e sono stati costretti a cercare un'altra fonte di sostentamento. Il fatto sfugge all'osservazione semplicemente perchè la curva di incremento della loro popolazione ha una pendenza modesta: e quindi capita di scambiarla per uno stato stazionario. Ma non è così.

Altro che Giardino dell'Eden: quesi nostri lontani parenti, forse, sono stati capaci di innescare il primo evento di sovrasfruttamento e collasso di cui ci siamo resi protagonisti. Avranno sovrasfruttato le lepri ed i tuberi anziché il carbone, ma il concetto non cambia di molto. Decisamente una conferma del fatto che discendiamo da loro, e che abbiamo ereditato da loro i nostri difetti peggiori.

Chissà se un giorno uno studioso, analizzando la debilitazione e le malattie degli uomini che vissero alla fine del ventunesimo secolo, si domanderà perchè diavolo fossero stati così imbecilli da abbandonare la vita opulenta e piacevole che conducevano appena settant'anni prima.

fausto

Lopo ha detto...

Caro Fausto, sei un po' ingeneroso nel riassumere la tesi di Diamond con un "La sua teoria è che questi signori, stanchi di vivere felici e beati nelle foreste, ad un certo punto abbiano deciso di dedicarsi ad una esistenza di miserie e fatiche, rinunciando alle prelibatezze della caccia e della raccolta e riempiendosi la pancia di granaglie crude ed insipide."

Diamond afferma esplicitamente che il salto sarebbe avvenuto non per capriccio, ma per mutamento delle condizioni: "Le prove suggeriscono che gli indiani a Dickson Mounds, come molti altri popoli primitivi, intrapresero l’agricoltura non per scelta ma per necessità, in modo da nutrire il loro numero in costante crescita."
L'idea di fondo è che, mentre gli animali seguono ritmi di espansione e contrazione secondo le equazioni di Volterra, gli uomini in molti casi sono stati capaci di fare un "salto di paradigma".

Quello su cui hai ragione è che le argomentazioni di Diamond non parlano il linguaggio della sostenibilità o della dinamica dei sistemi. In tal senso va aggiornato, non deriso per il suo tono appunto provocatorio, esplicitamente polemico nei confronti del pensiero progressivista/storicista dominante (e di molto addolcito nelle più complesse analisi successive).