martedì, dicembre 09, 2008

L'ossessione del PIL

Non abbiate paura, il PIL a cui faccio riferimento in questo articolo, non è quello evocato dal comico Albanese nella trasmissione “Che tempo che fa” ma, ovviamente, il Prodotto Interno Lordo, lo strumento di misurazione del benessere economico venerato dalle società contemporanee come dogma intoccabile.
Se il PIL non aumenta, la casta sacerdotale degli economisti si abbandona ad acute lamentazioni e i politici, sagrestani fedeli, si strappano i capelli lanciando fosche profezie sul futuro del genere umano. La parola recessione, cioè la diminuzione del PIL, è da costoro considerata alla stregua di una bestemmia e, come in questi giorni di acuta crisi economica, si riuniscono in febbrili riunioni per escogitare provvedimenti idonei a rilanciare produzione, investimenti e consumi.
Ma siamo proprio sicuri che il PIL rappresenti in maniera efficace il benessere umano e, soprattutto, che la sua continua crescita sia un evento auspicabile?
Ci aiutano in questa critica alcuni economisti non ortodossi, riuniti nell’ International Society for Ecological Economics, che hanno posto le basi teoriche per un’economia dello “stato stazionario”, che persegua uno “sviluppo sostenibile”. Tra i più famosi di questi economisti si può certamente annoverare Herman Daly, di cui consiglio la lettura del libro “Oltre la crescita”. Egli si rifà alla lezione degli economisti classici come John Stuart Mill, che già nel lontano 1857 aveva ipotizzato uno stato stazionario dell’economia, da lui inteso come una situazione di crescita zero della popolazione e dello stock di capitale fisico, ma con miglioramenti continui nella tecnologia e nell’etica. Tale lezione sarebbe poi stata ripudiata dagli economisti neoclassici in nome della crescita economica illimitata.

“Lo sviluppo sostenibile”, sostiene Daly, “è un termine che piace a tutti, ma il cui significato non è chiaro a nessuno. Il termine ha assunto il rilievo di un mantra”, … in seguito alla pubblicazione del Rapporto Bruntland delle Nazioni Unite nel 1987, che definiva il termine come “sviluppo che soddisfa le necessità del presente senza sacrificare la possibilità di soddisfare le necessità del futuro. Questa definizione, benché tutt’altro che vuota di contenuto, era sufficientemente vaga da permettere un ampio consenso”. Daly, cerca invece di fondare su solide basi concettuali ed analitiche il concetto di sviluppo sostenibile, che “richiede un cambiamento … di quale sia il rapporto tra le attività economiche degli esseri umani e il mondo naturale – un ecosistema che è finito, non crescente e materialmente chiuso. La condizione per lo sviluppo sostenibile è … che le richieste di tali attività nei confronti dell’ecosistema che le contiene, … vengano mantenute a livelli ecologicamente sostenibili. Questo cambiamento di visione comporta la sostituzione del modello economico dell’espansione quantitativa (crescita) con quello del miglioramento qualitativo (sviluppo)…”.
Una parte del libro è dedicata all’analisi della scala ottimale dell’economia. “Una condizione necessaria perché la scala dell’economia sia ottimale è che il volume della produzione, vale a dire il flusso che ha inizio con l’estrazione delle materie prime e prosegue con la loro conversione in beni e infine in output di scarto, si mantenga entro le capacità di assorbimento dell’ecosistema. L’intera idea di sviluppo sostenibile è che il sottosistema economico non debba crescere oltre la scala che può essere sostenuta dall’ecosistema che lo contiene”. Molto efficace è l’esempio della nave che rischia di affondare per uno squilibrio del carico. Riposizionando il carico in maniera corretta la nave si stabilizza, ma se si continua a riempirla in maniera equilibrata, a un certo punto affonda ugualmente. Un esempio di politiche economiche efficaci che tengano conto del fattore di scala ecologico è illustrata nel caso dei permessi di emissione trasferibili. La quantità dei diritti di emissione è stabilita in modo da non essere superiore alla capacità di assorbimento dell’ecosistema, “in altre parole, l’impatto di scala è limitato a un livello ritenuto ecologicamente sostenibile”. In secondo luogo i permessi vengono distribuiti e, infine, “dopo aver scelto collettivamente una scala ecologicamente sostenibile e una distribuzione iniziale ritenuta giusta da un punto di vista etico, si è nella posizione di consentire una riallocazione dei permessi attraverso un meccanismo di mercato fra gli individui interessati, nell’interesse dell’efficienza”.
Ma la parte più interessante dal punto di vista operativo è quella relativa alla critica del PIL e all’introduzione di strumenti economici in grado di eliminarne le sempre più evidenti distorsioni economiche, ambientali e sociali.
Nel libro “Un economia per il bene comune”, Daly aveva già costruito per gli Stati Uniti, insieme a John Cobb, un indice di benessere economico sostenibile (Index of Sustainable Economic Welfare) partendo dai consumi personali e apportando alcune modifiche per tener conto dell’incremento intervenuto nel grado di disuguaglianza della distribuzione del reddito, dell’impoverimento del capitale naturale, dell’aumento del debito estero, e di parecchi altri elementi ritenuti rilevanti per arrivare a una misura più veritiera del benessere economico e della sua sostenibilità. Lo studio rilevò che tra il 1950 e il 1970 il PIL e l’ISEW erano cresciuti insieme. Dai primi anni Settanta l’ISEW è rimasto invariato, declinando alquanto verso la fine degli anni Ottanta, mentre il PIL ha continuato a crescere durante tutto il periodo. In altre parole, non vi era evidenza scientifica che, a partire dal 1970 la crescita del PIL abbia accresciuto il benessere economico. Lo stesso Daly, però, pur ritenendo l’ISEW uno strumento di misurazione più corretto del PIL, non lo ritiene esente da difetti. “Se il PIL fosse una sigaretta, l’ISEW sarebbe una sigaretta con il filtro. Se si è schiavi delle misure numeriche del benessere, allora è meglio usare l’ISEW, ma non dovremmo esserne compiaciuti e dovremmo anzi cominciare ad abbandonarle” perché qualsiasi indice numerico di benessere è un espressione distorta della realtà e non la realtà stessa.
Daly perciò, dedica maggiore attenzione al modo di migliorare la misurazione del reddito e di come rendere il reddito nazionale netto una misura più accurata del reddito vero.
Secondo Daly, “Il reddito non è un concetto teorico preciso, ma piuttosto un’indicazione pratica della quantità massima che può essere consumata da una nazione senza che essa alla fine si impoverisca. Se consumassimo l’intero PIL non ci sarebbero più fondi con cui reintegrare i macchinari, gli edifici, le strade e così via man mano che essi vengono usurati. Per questa ragione sottraiamo gli ammortamenti e otteniamo il Prodotto Interno Netto (PIN). Ma potremmo davvero consumare solo il PIN anno dopo anno senza impoverirci? No, non potremmo perché la produzione del PIN richiede attività di supporto che non sono biofisicamente sostenibili, e la misurazione del PIN sovrastima perciò il massimo prodotto netto disponibile per il consumo. Il PIN non tiene conto dell’impoverimento del capitale rinnovabile naturale (foreste, zone di pesca e così via) e dell’esaurimento di scorte naturali non rinnovabili (petrolio, gas). Per rendere il PIN un’approssimazione più accurata del concetto di reddito, e una migliore guida a un comportamento prudente, sono necessarie due modifiche. La prima consiste semplicemente nell’estendere il principio dell’ammortamento anche al consumo degli stock di capitale naturale impoveriti dalle attività di produzione. La seconda consiste nel sottrarre le spese difensive o riparatrici, vale a dire quelle spese, altrimenti non desiderate, che divengono necessarie per difenderci dagli effetti collaterali della nostra produzione e del nostro consumo aggregati. Possiamo perciò definire il concetto di reddito così corretto, il “prodotto interno netto sociale sostenibile” (PINSS), come il prodotto interno netto (PIN) meno le spese difensive (SD) e l’ammortamento del capitale naturale (ACN). Pertanto: PINSS = PIN – SD – ACN.
Infine, Daly propone di rivedere i criteri della contabilità nazionale fondati sul PIL che, attualmente somma impropriamente fattori incongruenti, come servizi cioè benefici, produzione fisica cioè costi e l’accumulazione netta, cioè una variazione di stock e fondi. Nel primo termine non vengono conteggiati i servizi resi dagli ecosistemi naturali, l’ultimo termine, inteso come investimento netto, non include però “le variazioni negli stock e nei fondi di risorse naturali, quali la riduzione di stock geologici, l’interruzione di funzioni ambientali, o l’estinzione di fondi ecologici di altre specie dalle quali dipendiamo. L’esaurimento di minerali e il deprezzamento del capitale ecologico essenziale alla vita del pianeta e accumulato nel corso di millenni non viene sottratto nel calcolo delle variazioni degli stock e dei fondi, così come dal valore dei servizi correnti resi dai manufatti prodotti non viene sottratto il valore dei servizi delle funzioni ecologiche che vanno perdute nel medesimo periodo. Al contrario, lo sforzo di difenderci dagli effetti dell’inquinamento genera un’ulteriore domanda di beni e servizi, quindi si traduce in un aumento del PIL…. Che senso ha sommare queste grandezze fra loro incongruenti? Non è un po’ come se il contabile di un commerciante sommasse ricavi, spese e variazioni nell’inventario?”
Per superare questa impostazione assurda del PIL, propone perciò un diverso approccio che fornisca maggiori informazioni e migliori l’accuratezza della nostra percezione dei costi e dei benefici sociali. Invece di un unico conto (il PIL), occorrerebbe tenerne tre, uno per ciascuna delle grandezze fondamentali, cioè un conto dei benefici, un conto dei costi compresi quelli ambientali, un conto del capitale incluso quello naturale.
Terminata questa breve e certamente non esaustiva recensione, rimane da chiedersi se l’auspicabile adozione dei sistemi di valutazione dello sviluppo economico diversi dal PIL ipotizzati dagli economisti ecologisti, possa essere sufficiente a modificare la tendenza del genere umano a consumare e dissipare le risorse naturali al fine di accrescere la propria ricchezza economica. Temo di no. Forse gli economisti classici hanno adottato uno strumento di valutazione rozzo come il PIL, non per misurare realmente qualcosa, ma solo per giustificare a posteriori un modello di sviluppo insostenibile.

11 commenti:

Anonimo ha detto...

Penso che gli economisti in generale siano dei maldestri matematici per non dire proprio in malafede.
Il costo del petrolio ne è un esempio lampante, non tiene conto di tutti i disastri naturali, inquinamento, malattie, guerre che sottendono il suo prezzo al barile.
Come cambiare il PIL con un altro indicatore che se non perfetto sia almeno più vicino alla realtà?
Semplice, ho sentito che al prossimo vertice G8 ne parleranno visto che tutti dicono che bisogna riformare l'economia. Ma forse era il sogno che ho fatto questa notte, non so, sono confuso...

Anonimo ha detto...

Più soldi non significa più benessere. Il PIL è solo un parametro che misura il grado di avidità di questa società ormai in declino.

Anonimo ha detto...

Gli economisti sono una casta sacerdotale, il PIL è il loro totem e tabù. La loro influenza sui politici è circonvenzione d'incapace.

Anonimo ha detto...

Eseste una scienza economica studiata da economisti capaci, che pero prendono la parola solo quando la torma di economisti d'accatto, quelli da rotocalco per intenderci, o quelli avvelenati da conflitti di interesse plurimi, sono stati messi a tacere dall'ennesimo rovescio, e le scuse a posteriori non bastano piu'.

Ma d'altronde siamo noi stessi a selezionare comportamenti simili, perchè amiamo sentirci dire solo buone notizie e vederci soddisfare sempre sempre e comunque. Per questo si sono inventiati un indice, il PIL, che assomiglia molto all'entropia, cresce quasi sempre.

Ora la prossima mossa è trovare un capro espiatorio a cui dare tutte le colpe, suddividere il male e i conti da pagare sul popolo ignorante, che lo accoglierà come sempre come uno dei rovesci imprevedibili della sorte.

Peccato che questa volta sarà un rovescio di proporzioni tali da cambiare per sempre la storia (a proposito, chi è quel pirla che aveva parlato di Fine della Grande Narrazione?).

DI recente, ho letto la notizia che tre istituti bancari europei sono cosi' in crisi con i pagamenti trimestrali sui Credit Default Swap (CDS) che sono al di la delle possibilità di salvataggio delle nazioni stesse. Si prospetta il blocco dei pagamenti dei CDS.

Ora vi spiego perchè questa notizia è cosi' importante: un blocco dei CDS equivale a forare la diga mondiale del mercato dei CDS. Il valore nozionale del mercato mondiale dei CDS è 700.000.000.000.000 dollari (avete capito bene, settecentomila miliardi di dollari).
Pari a circa 10 volte il valore di tutti i beni immobili della terra.

Altro che tsunami finanziario. Un buco nero, ma di quelli veri, in senso astrofisico, si aprirebbe sulla ricchezza mondiale, lasciando nulla di nulla al passaggio.

Non ho neanche la più vaga idea di quello che potrebbe manifestarsi.

Io sto pensando di convertire il denaro in oggetti materiali, soprattutto terra coltivabile e attrezzi manuali. Tra non molto il valore monetario di qualunque cosa potrebbe non avere più significato

Anonimo ha detto...

Capitalismo e decrescita sono matematicamente incompatibili.
Nel ciclo D-M-D', D' deve essere maggiore di D. Nessuna azienda lavora in perdita in un sistema capitalista.

http://www.quinterna.org/pubblicazioni/rivista/23/partigiani_decrescita.htm

roberto ha detto...

Ma siamo proprio sicuri che il PIL rappresenti in maniera efficace il benessere umano e, soprattutto, che la sua continua crescita sia un evento auspicabile?

il pil e' il pil. come il metro e' il metro , poi a dire che uno e' un nano o uno spilungone non spetta all'unita' di misura.
uno strumento dice quello che dice, e' come lo interpreti che fa la differenza , il pil non e' sbagliato come non e' sbagliata la percentuale sono solo strumenti.
inventarne di migliori si, ma demolire quei pochi che si hanno senza un valido sostituto non va bene
roberto de falco

Anonimo ha detto...

PIL contro la dimensione Tempo

Penso che il criterio da utilizare per misurare il benessere dell'umanità sia la dimensione Tempo. Una popolazione (per estensione tutta l'umanità) sta bene quando soddisfa adeguatamente i propri bisogni ma che ha la più lunga prospettiva di vita. Penso che ogni scelta umana debba essere valutata in questa prospettiva. Quindi una scelta è valida se allunga le prospettive di vita dell'umanità.
Una scelta che si inquadra in questa prospettiva? La riduzione della popolazione!!
Armando

Anonimo ha detto...

Considerare l'allungamento della vita come parametro di felicità? Non sempre vivere più a lungo coincide con stare meglio. Come diceva il filosofo, più che allungare la vita, bisognerebbe allargarla.

Anonimo ha detto...

Fhitio,
mi riferivo all'allungamento delle prospettive di vita dell'umanità, non all'aumento della vita media degli individui.

Armando

Anonimo ha detto...

Sottoscrivo in pieno il commento di PHITIO... io appartengo alla categoria di economisti illuminati alla Lester Brown e penso che i problemi siano: 1) l'incapacità di concepire un mondo diverso da quello attuale (il cui misuratore di benessere è appunto il PIL) 2)l'eccessiva specializzazione delle discipline che ha finito per perdere completamente la visione di insieme dei problemi e il loro approcciarsi in maniera sistematica.

JEVONS era allo stesso un economista industriale ed un ingegnere e questo gli permise di capire il meccanismo che provocava l'EFFETTO RIMBALZO.

Oggi i tecnici sono troppo tecnici e gli economisti sono troppo economisti in nome di una specializzazione microeconomicamente vantaggiosa ma macroeconimicamente deleteria.

Il Senato americano non è riuscito a trovare un compromesso per votare il piano di salvataggio (fino a 15 miliardi di dollari) delle industrie automobilistiche.
Si avvicina, quindi, lo spettro del fallimento per i big dell'auto. Chrysler, ha detto in un'intervista il vice-presidente Tim La Sorda, ha in cassa denaro sufficiente a far fronte ai pagamenti fino al 1 gennaio, poi avrà problemi a pagare le fatture. Anche General Motors ha avvertito che per la società il collasso è prossimo se non arrivano gli aiuti pubblici e dopo gennaio potrebbe avviare le procedure per il fallimento. Va leggermente meglio per Ford, ma la situazione è critica.
Per inciso, il fallimento della GM porterà con se anche il crollo di un gigantesco fondo previdenziale e sanitario che rappresenta 1/3 del business dell'azienda...

Purtroppo i cambiamenti avvengono sempre in seguito ad eventi traumatici (guerre, carestie, epidemie, crisi sistemiche dell'economia) perchè le persone illuminate sono una ristrettissima minoranza in un mondo che non riesce a guardare più avanti del proprio naso...
L'industria americana dell'auto si è scavata la fossa da sola con una strategia di crescita palesemente insostenible e su una progettazione di veicoli tecnologicamente obsoleti e sostanzialmente a scarsissima efficienza energetica.

Purtroppo il PIL è però connesso ad un aspetto terribile e drammatico ovvero il lavoro e la vita di milioni di persone che in qs giorni sono finite in cassa integrazione (i + fortunati) o sono stati licenziate ed a qs persone è difficile ora parlare di decriscita felice ed economia stazionaria...

Anonimo ha detto...

Gli economisti non ambiscono necessariamente a misurare il pil, o sue "trasformazioni lineari".