venerdì, febbraio 05, 2010

Petrolio e mammut


created by Massimo Nicolazzi


Resta il dubbio se sia genetica, oppure Berlusconi. Per miseria che sia a perdita d’occhio, dalla necropoli del Cairo all’ultima favela, in principio è antenna; e spesso neanche dopo è acqua, per non dire di frigoriferi. Malnutrito e denutrito è meglio che scollegato. Non è la parabola della televisione. E’ quella del nostro consumare. Esagerare è giusto; e astenersene contronatura.

Forse è solo corteccia e neuroni, e dunque fisiologia del cerebro. Fino a ieri eri giusto cacciatore, ed il cibo da cacciatore te lo conquisti giorno per giorno. Nel lungo processo che ci ha infine reso (anche) agricoltori il cerebro ci è enormemente ingrossato. Il fenomeno, unito all’abilità di piegare il pollice, ci ha dato un notevole vantaggio competitivo su tacchini e leoni; vantaggio usato però sempre e (quasi) solo per risolvere il problema del quotidiano e del suo cibo. Se non sei sicuro di mangiare oggi, è duretta pensare che tu ti prepari il domani. Lo stimolo ad adattarsi alla necessità di pensare lungo tende allo zero o meno; e nel dubbio tra risparmiare e consumare potendo si esagera.

Forse invece è il modello velina, e dunque corruzione del cerebro. Al mondo ci sono meno cose di quel che voglio; e comunque le voglio tutte. Oggi lei ha più scarpe che giorni un anno e lui in SUV magnum si beve in un metro il petrolio che gli basterebbe a farne cento. L’esagerazione del moderno. Già tante decine di secoli prima però l’ava e l’avo per conquistare cibo i mammut nel burrone ce li facevano cascare a branchi interi. Cibo ogni volta per un anno; e però proteicamente inutile dopo poco più di un giorno e destinato a rivertere indigerito a cenere se non lo sapevi conservare. La tecnologia non sempre assiste tempestiva. La capacità di conservare, insomma il congelatore, ce la siamo inventata solo tanti millenni dopo; e nel frattempo l’esagerazione ha estinto il mammut.

Dice che il consumare è figlio del capitalismo, e la sua patologia estrema e globale si alimenta di media e pubblicità. Fosse del tutto vero, il mammut ne sarebbe stato felicissimo. Il capitalismo è un potentissimo coadiuvante ed anche carburante di proprio; però il mammut potrebbe spiegarti e forse anche convincerti che a farti esagerare basta l’abbondanza del presente, se non anche solo la sua percezione.

La storia moderna dell’energia si è in qualche modo sempre intrecciata con la storia dell’esagerazione. All’inizio è giusto storia dei nostri muscoli. Il senso di ogni giornata del tuo passaggio in terra si conchiude nel trovare abbastanza cibo da alimentarli. Però non solo per alimentare i tuoi. Devi alimentare anche quelli dei tuoi cuccioli. Più mammut si ammazzano e più bambini mangiano. Oggi, che del domani non c’è certezza. E così ti sviluppi da subito, come specie, ammazzando biodiversità. Ogni tanto adesso ti dicono che erano i tempi felici della parsimonia e dello stato di natura. In realtà era parsimonia solo quando (ed era la regola) non c’era trippa per esagerare e sembrava natura perchè a parità di Terra in sessantamila che si era allora ne ammazzavi per esagerato che tu fossi sempre meno che in sei miliardi e mezzo adesso. Però in pochi si era già abbastanza da cancellare per intero i mammut e qualche altra specie incauta.

Poi siamo diventati agricoli. Prima la sovrabbondanza era occasionale (un branco di mammut non è roba di tutti i giorni); però in fondo “comunitaria” (mangiava e sprecava l’intera tribù). Adesso ti diventa quotidiana però elitaria. E’ nato il surplus, che è roba per quelli che comandano. Dalla sovrabbondanza naturale (un mammut lo consumi in forma di mammut, o comunque dei suoi pezzi) a quella artificiale. Quella per cui si compie via surplus la trasformazione del frumento in eserciti, e burocrazia, e monili per la Faraona. E’ la nuova forma dell’esagerazione; questa volta socialmente organizzata. Fino adesso potevi dire che estinguevi il mammut per carenza di tue connessioni neurali, insomma per genetica. Da adesso c’entra anche Nabuccodonosor/Berlusconi, insomma la “cultura” e tutto quel che si accompagna al complicarsi dell’organizzazione sociale. Però l’esagerazione sembra piacere ad entrambe. Il surplus non è determinato dalle necessità del sociale. Sono i bisogni delle élites ad essere definiti dal surplus. Siamo al dispotismo orientale (per dirla con Wittfogel), e ancora lontani poco meno di duemila anni dall’Occidente capitalistico. Però al netto del sistema economico la regola del consumo, per i beneficiari del surplus, è quella di sempre. The more the better.

L’energia nel frattempo oltre che i muscoli nostri ce la davano anche quelli degli animali che con qualche millennio di pratica ci era riuscito di domesticare. E (inaudito!) ci riusciva anche di imbrigliare qualche forza e risorsa della natura. La legna, anzitutto; e poi vento ed acqua, che tra le tante ti fanno anche girare le pale dei mulini. Adesso insieme le chiamano anche alternative; ma carbone e petrolio, quando arrivarono, furono alternativi a loro.

Per secoli e secoli il “progresso” tecnologico fu una paziente ottimizzazione di quel che c’era. Come far spingere meglio cavallo e bue, e come far girare di più la ruota. La descrizione dell’evoluzione di gioghi, basti ed aratri e quella dell’evoluzione parallela delle razze bovine ed equine prende quasi un capitolo intero della Storia dell’Energia di Smil. Non è precisamente il capitolo più emozionante; ma non è il caso di prendersela con l’Autore. L’energia non è né arte né bellezza. E’ giusto un mezzo. Potere calorifico trasformato in lavoro. L’unità di misura dell’energia è il lavoro; e non c’è unità di lavoro senza energia. L’energia di cui disponi detta il limite del tuo fare; e perciò e per inclusione anche del tuo produrre. Dopo qualche decina di migliaia d’anni di avventure, il moderno homo sapiens è arrivato a trecento anni fa che aveva messo assieme come fonti legna,cibo, aria ed acqua; e come “macchine” per produrne lavoro le pale dei mulini, ed il corpo suo e quello degli animali amici. Poco per garantire l’esagerazione di massa. Il surplus che riesci a produrre resta per pochi; ed il cibo che riesci a produrre è poco per molti.

Poi è l’esplosione. Di nuove fonti e di nuove macchine. Carbone e petrolio e gas. Macchina a vapore e motore e turbina. Lavoro a volontà. Nasce l’elettricità, e sono industrialmente poco più di cento anni e però già da tempo non ne trovi più uno che si capaciti del come si possa vivere senza. Nasce il trattore, e ne basta uno per fare il lavoro di quindici contadini pur dotati di proprio di buoi e cavalli; e succede in pochi anni in qualche punto d’ Occidente che si passi dal 70 al 2% di popolazione impiegata in agricoltura, e però insieme dal deficit al surplus agricolo. Nasce l’automobile, e con lei camion e corriera, e persino aereo, e la mobilità di qualunque persona e di qualunque merce tra qualunque due punti nel mondo. Prova a togliere il petrolio dalla globalizzazione; e se ti va benissimo ti ritrovi i Granducati. Nasciamo infine anche noi. E tanti. Da meno di un miliardo a più di sei in un solo secolo. Dicono nove e mezzo a metà di questo. Cominciate a stringervi.

Un’esagerazione di lavoro. Un’esagerazione di fertilità. Un’esagerazione di consumi. Tutte scatenate dall’esagerazione primaria. L’esagerazione di energia. Che poi coincide perfettamente con lo sbarco dei combustibili fossili. Carbone, gas e petrolio. Pronunciati tutti assieme adesso quasi scatenano l’esorcismo, per quanto puzzano e sporcano e scaldano (l’atmosfera). Però toglili e della nostra moderna civiltà non (ri)conosci più nulla. Non c’è mai stata fonte così poco costosa e così efficiente; ed altro non si vede che la eguagli. Al lordo di petrolchimica e fertilizzanti per l’agricoltura,la combinazione delle fonti fossili e delle loro macchine ci ha modellato il novecento. Se non ci credete, provate giusto a staccare la corrente, rinunciare alla vostra mobilità privata ed eliminare tutte le componenti plastiche di casa. Mio nonno ci è sopravvissuto per buona parte della sua vita. Noi tanti auguri.

(Ri)adattarsi non sarebbe e non è semplice. Il surplus diffuso del novecento ci resta attaccato dentro, quasi fosse lui ad essersi trasformato in pochi decenni da cultura in genetica. E’ successo che il petrolio al posto della legna e il trattore al posto del bue e il modello T al posto del calesse, insomma l’energia facile e le sue manifestazioni siano sembrate togliere ogni limite alla capacità di lavoro, e dunque al fare e al produrre. L’illimitatezza dello sviluppo delle forze produttive. Togli dalla Storia i combustibili fossili, e neanche ti passava per la mente.

Dalla produzione illimitabile al consumo illimitato. Amavamo esagerare già ai tempi del mammut. Figurarsi nel secolo dell’embarras de richesse. Astenersi moralisti. L’uno e’ alimento necessario dell’altro, e viceversa. Non puoi lodare il produrre e bandire l’illimitatezza del consumare. Eppure in un pezzo della sinistra del ‘900, e altrove, andava di moda. Me lo spiegate come si sviluppano le forze produttive (o anche solo, vulgariter, il PIL) se non si sviluppano i consumi? Adesso sembra quasi banale, ma se la scrivevo trent’anni fa mi bandivano con disonore.

Dicono oggi dei fossili, tra le tante, due cose. Una è che dobbiamo starne lontano o comunque ridurli in fretta perché ci surriscaldano il pianeta. L’altra è che stanno per finirci. Premessa.Il processo di formazione di un idrocarburo dura da uno a qualche milione di anni. Abbastanza, se raffrontato alla nostra aspettativa media di vita, per farcelo considerare una risorsa “finita”; e che perciò se prodotta prima o poi “finisce”. Il problema però non è se “finisce”. Il problema è se ci riesce di metterci ad usare qualcos’altro prima che ci scarseggi, e che perciò il suo prezzo ci aumenti al punto da forzarci a cambiare abitudini e modello di vita. Il problema è insomma se la sostituzione sarà traumatica, o dolce. L’esplosione è stata una combinazione di fossile e di tecnologia. Fonte e macchina. Nella storia hanno sempre progredito in parallelo. Dal muscolo alla turbina, e dalla legna all’idrocarburo. Però (storicamente) rivelano un’asimmetria. La macchina è cultura, insomma roba umana. La fonte sino ad oggi è stata prevalentemente natura, e dunque uso umano di quel che abbiamo trovato nella e sulla terra. Noi non sappiamo quale nuova macchina (o financo fonte...) ci regalerà la tecnologia di domani. Però sappiamo che oggi, a parità di condizioni, siamo lontani dall’aver trovato in terra e dintorni un credibile sostituto dell’idrocarburo. In giro non si vede se non marginalmente nulla che costi meno e/o renda di più. Nel futuro non vi è nulla di usuale, ed è persino possibile che fonti di domani travolgano l’asimmetria e siano infine frutto d’ invenzione anziché di natura ; però è certo che oggi e nella presente condizione del sapere la sostituzione sarebbe traumatica.

Fine dell’intervallo felix della sovrabbondanza. Meno consumi. Più basso tenore di vita. Per qualcuno decrescita, se ben gestita, è pure bello. Ma il tema è anzitutto tema di consenso, e di tenuta sociale. Dai mammut al Suv, la propensione all’esagerare pare maggioritaria. Il modello San Francesco può andare bene alle feste comandate; ma se fai un referendum ti stravince Nabuccodonosor. Bello per pochi può essere rivoluzione, e violenta, per molti.

Clima. E consenso. Bandire l’idrocarburo a tappe forzate, per evitare di stravolgere il clima della terra, e la terra stessa. Kyoto. Copenhagen. Mi astengo dal merito. Nel metodo, e cioè in punto di consenso, sin qui è storia di obiettivi clamorosamente falliti dalla politica e che forse raggiungeremo malgré nous per cinicità del destino. E’ la dannazione del nesso tra energia (fossile) e sviluppo in forma di PIL. Sino ad oggi non ti è riuscito, checchè te ne scrivano, di trovare il modo di essere drastico coi fossili senza toccare (anche) lo sviluppo. Ci siamo dati “politicamente” degli obiettivi (da Kyoto al 20-20-20 europeo); e poi “politicamente” ce ne siamo di regola allontanati in corso d’opera. Il che, se la politica è (anche) consenso, sembra suggerirti che il consenso sia predicato sull’ambiente quando si parla, e tutt’ora sull’idrocarburo quando si va a fare spesa. Poi comunque sono arrivati Lehman, ed il tentativo (men che riuscitissimo) di rimandare in onda la Grande Depressione. Recessione, e brutale, è comunque stata. E non senza un qualche (perdurante) sommovimento sociale. Però la dannazione del nesso se rigiri la frittata è anche benedizione (?). Sono venuti giù alla grande i consumi di combustibili fossili , e alla grandissima le emissioni di anidride carbonica. La crisi ci condanna alla virtù, e forse grazie a lei raggiungeremo gli obiettivi della parola politica. Che è come dire che sino ad oggi non c’è riuscito di frenare significativamente la strage dei mammut per via di consenso; ma solo per via di recessione.

Dice che adesso però cambia. Il limite sta diventando cultura, e perciò consenso. Basta esagerazione demografica. A metà secolo ci fermiamo. Saremo solo nove miliardi e mezzo. Buon appetito a tutti. Poi dice che cambia anche il sentire. Basta esagerazione dei consumi. Sempre più qualità della vita, e sempre meno PIL. Un nuovo Occidente. Colto, bucolico e affettivo. Voglioso insomma del limite. A Stuart Mill sarebbe piaciuto, e io mi ci riconosco appieno. Il dubbio è se sia cultura, o non giusto la sindrome del sazio che vorrebbe evitare l’obesità. Quanto si riconoscono in questo sentire tre miliardi di cinesi e a ruota tutti gli africani potrebbe essere un buon test. Per male che vada, ci dovrebbero essere grati d’aver scelto le alghe lasciandogli i mammut.

L’esagerazione del lavoro, almeno in qualche versione, invece resta. Il vecchio tabù dello sviluppo illimitato. Tradotto col dire che il produrre rinnovabili ed alternative genererà più nuova occupazione; e che le alternative in quanto rinnovabili possono produrre per definizione lavoro illimitato. I numeri sarebbero lunghi. E la mia formazione provinciale qualche dubbio me lo impone. Che l’industria eolica possa generare occupazione comparabile a quella automobilistica, ad esempio. O che il futuro rovesci la storia, e si metta a produrre a intensità di lavoro crescente per unità di prodotto. O che in queste condizioni e contro ogni evidenza il lavoro generato oltre che illimitato possa essere anche efficiente. Se è questo quello che vogliono fargli dire, il tabù praticato in versione rinnovabile c’e’ rischio che degradi. Non piu’ cultura, e neanche mito del progresso; ma solo tecnica di consenso. Per limitare l’esagerazione dell’energia fossile ti tocca promettere l’immortalità dell’esagerazione tout-court. Energia, consenso e demagogia. Quasi il titolo di una tesi di laurea.

Per centocinquant’anni abbiamo trattato il petrolio allo stesso modo dei mammut. Della cui strage, peraltro, non abbiamo avuto occasione di pentimento. Estinti loro, siamo riusciti a domesticare bestiame in quantità più che copiose; e il mammut magari sarebbe finito estinto dalla concorrenza del manzo argentino. Con il petrolio ci dicono che non è lo stesso. La Terra non ha altre fonti di esagerazione da offrirci, oltre a quelle che andiamo esaurendo. Il Sole è lontano. L’invenzione ritarda. Dovremmo - dicono – riuscire perciò ad andare contro genetica e Berlusconi, e ad adattare le nostre connessioni neurali e la nostra cultura alla bellezza del limitarsi. Non possiamo abbandonarci e affidarci interamente all’idea che il futuro ci riservi un’esagerazione compensativa di energia alternativa, e magari anche pulita. Sarebbe follia. In gioco sono (sarebbero?)l’equilibrio climatico del Pianeta; e la possibilita’ di fuoruscire in forme non violente dalla civiltà a propulsione fossile.

Questo se Stern vi ha convinto (a proposito di consenso e sue tecniche...), e se non vi fidate dell’idea che il futuro magari in forma di mercato ci riservi comunque abbondanza di chianine e scottone più buone e soprattutto più nutrienti del mammut ( e qui mi metto tra quelli che non si fidano). Non stiamo climaticamente parlando dell’imminente estinzione della specie umana . Che si possa sopravvivere con qualche previdente adattamento all’innalzarsi delle acque ce lo ha già testimoniato Noè. Stiamo però parlando del rischio di un potenziale altissimo di sconvolgimento sociale ; e del se ci convenga investire e nel caso in che misura nella prevenzione, nell’adattamento o in una misura/mistura di entrambi. Ci stiamo interrogando (Costi/benefici? O vi pare metodo troppo poco religioso?) sul se convenga investire per prevenire conflitti tra umani; e non (almeno immediatamente) la fine stessa degli umani.

Attorno all’idea che il petrolio finisca stiamo discettando della stessa cosa. C’e’ il rischio, se non lo sostituiamo in tempo, che ci scompaia non solo un modello sociale basato sulla mobilità; ma anche che ci scompaia, assieme all’efficienza ed al costo irrisorio del suo combustibile, buona parte del surplus che ci si accompagnava. Genetica e Nabuccodonosor continuano a compellere al tutto, subito ed esagerato . Pero’ rimanca la trippa su cui sfogare la compulsione. Mentre diventi nove miliardi e mezzo, che il surplus possa ridiventarti roba riservata in proporzioni sumero-babilonesi a chi comanda è ipotesi cruenta. Difficile che ci si rassegni a non esagerare senza combattere. Se la civiltà fossile ci agonizzasse male ci sarebbe il rischio di scoprire di botto, e dopo un secolo di intervallo felix, che un conflitto globale può essere più devastante di un conflitto mondiale. Di nuovo niente a che vedere con la sopravvivenza della specie. Solo con quella del nostro modello sociale, e con l’opportunità (o meno) di investire nell’eutanasia di una civiltà.

9 commenti:

Matteo Terrevazzi ha detto...

Lo stile di Massimo Nicolazzi mi appassiona sempre ed è efficace e stimolante. Così come le sue convinzioni, qui sintetiche ma ne "Il prezzo del petrolio" ben più sviscerate e strutturate, mi trovano assolutamente d'accordo.

Di mammum (o di lepri, per le volpi) non ce ne sono più, però ci si può ancora riuscire a cibare con altro (o porcospini e istrici, per le volpi). Certo è che il mondo così come lo vogliamo, a misura di mammut, non è facilmente replicabile in futuro.

E questo, detto da un "petroliere" come Nicolazzi, gli fa ancora più onore.

Che poi qui a San Donato Milanese, detto da me che sono un neoassunto, petrolieri di questo calibro ne mancano.

Daniele ha detto...

Articolo Assolutamente Spettacolare!

Gianni Comoretto ha detto...

Sono solo io a trovare illeggibile questo testo? Niente da dire sui contenuti, ma mi ricorda vagamente i discorsi che a Palazzo Vecchio ti fa un'attrice vestita da Eleonora da Toledo, per metterti in atmosfera medicea. Con un tocco di "Amici miei".

A chi e' diretto? A qualche letterato? Onestamente non capisco. Spero che altri trovino il tutto più "leggero" di quanto riesca io, pure divertente. Io ho dovuto rileggere il primo capoverso tre volte.

Straythesupercat ha detto...

A chi non apprezza raccomando di non farsene un cruccio. Alle volte, la cultura, il gusto, lo stile, sono parte del DNA. Se non ce n'è, non ce n'è.

Frank Galvagno ha detto...

Anch'io ho dovuto rileggere i paragrafi qualche volta ... :-)

Come dice Carlo Durante, lo stile è stile, ognuno ha il suo; e come Gianni Comoretto, anch'io mi trovo molto più a mio agio a leggere (e scrivere) pezzi più "scheletrici", in cui risaltino più numeri e sostanza rispetto all'estetica.

Ma devo ammettere che questo scritto di Nicolazzi sa anche essere accattivante e offre degli spunti su cui meditare

Gianni Comoretto ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Marco C ha detto...

Articolo piuttosto interessante, ma ammetto candidamente di trovare indigesto e poco gradevole lo stile di scrittura... Solo questione di gusto.

Marco C.

Noel ha detto...

Articolo interessante, ma con un'inesattezza iniziale: l'uomo era (è) di natura l'80% frugivoro e raccoglitore, solo un 20% cacciatore.

Weissbach ha detto...

@Carlo Durante:
di cultura, gusto e stile non ce n'è un tipo solo.
Così come c'è più di un modo per essere maleducati ;-)