lunedì, agosto 25, 2008

Perché Geordie fu impiccato

Così lo impiccheranno con una corda d'oro
E' un privilegio raro
Rubò sei cervi dal parco del Re
Vendendoli per denaro.

Fabrizio de Andrè, "Geordie", 1965,

Nella canzone, il conflitto si è risolto a favore del Re, e Geordie è finito impiccato. Potremmo immaginarci una fine diversa, in cui Geordie capeggia una rivoluzione contadina, prende d'assalto il castello e fa tagliare la testa al Re. Dopodiché, viene dichiarata la repubblica il bosco dei cervi diventa proprietà del popolo. Si tagliano gli alberi e si sterminano tutti i cervi. Il popolo decide spontaneamente di usare i ricavi della vendita del legno e della carne di cervo per erigere una gigantesca statua di bronzo a Geordie. Il Soviet supremo, capeggiato da Geordie, istituisce l'agricoltura collettivizzata e fa piantare il grano nell'area che era una volta il bosco dei cervi. I Kulaki che si oppongono alla collettivizzazione vengono sterminati. Le rese agricole calano in ragione del sovrasfruttamento e non corrispondono a quelle stabilite dal piano quinquennale. In risposta, il Soviet supremo fa fucilare i sabotatori e i nemici del popolo. La carestia viene esacerbata dai provvedimenti draconiani del governo che vietano ai contadini di spigolare nei campi incolti. L'erosione dovuta alla deforestazione riduce ulteriormente la resa dei raccolti e causa ulteriore carestia, ma le rivolte sono ferocemente represse e i nemici del popolo impiccati in gran numero. A questo punto, un contadino che scava nel suo orto scopre un pozzo di petrolio. Vende i diritti di sfruttamento a una multinazionale e con i profitti importa cibo dall'estero per nutrire la popolazione. Questa si rivolta in massa contro Geordie e i suoi, li caccia via, abbatte la gigantesca statua di bronzo di Geordie e incorona Re il contadino. Quest'ultimo procede a ripiantare il bosco e introdurvi dei cervi. Chi si azzarda a rubarne uno verrà impiccato con una corda d'oro.


La "Canzone di Geordie" di Fabrizio de Andrè è un adattamento di un'antica canzone popolare inglese. Ne esistono varie versioni, in tutte la forza del testo deriva dal contrasto fra la pena dell'impiccagione e quello che a noi sembra un crimine non grave: il furto di un certo numero di cervi, venduti "per denaro" nella versione italiana mentre in inglese vengono venduti a "Boheny", una città non bene identificata. In tutte le versioni si parla di impiccagione con una "corda d'oro" a indicare la severità della punizione.

Queste ballate popolari di solito hanno una base umana e sociale ben definita e raccontano di conflitti reali, anche se in forma poetica. Così, ci deve essere una tagione se la ballata ci racconta esattamente questa storia e ci deve essere una ragione per la quale rubare "i cervi del parco del re" è un crimine tanto grave da meritare l'impiccagione. Proviamo a ragionarci sopra.

Dal punto di vista dell'economia classica, i cervi sono una risorsa che ha un valore monetario in un'economia di mercato. Se avete studiato economia, vedrete che nei libri di testo si parla di "ditte" o "operatori" che ottimizzano i loro profitti o, detto in modo più formale, "massimizzano la loro funzione utilità". Ma questa ottimizzazione avviene sempre in un contesto in cui un operatore ha il completo controllo dei mezzi con cui produce qualcosa. In altre parole, si lavora in un regime di proprietà privata delle risorse.

Quando si tratta di cervi, però, la cosa si fa più complicata. Di chi sono i cervi che vagano liberamente nei boschi? Nel diritto romano, la selvaggina era definita come "res nullius", cosa di nessuno. Chiunque, in linea di principio, poteva appropriarsene. Oggi, definiamo lo stesso concetto con il termine di risorse di "libero accesso" ("free access"). Il problema delle risorse free access, è che chi le sfrutta non può ottimizzare la produzione a seconda delle condizioni del mercato. In un regime di free access, se ti capita di incontrare un cervo nel bosco, non puoi metterti a ragionare sul suo valore di mercato e se ti conviene ammazzarlo o no. Sai che se non lo ammazzi tu adesso non è detto che lo ritroverai quando sarà più conveniente ammazzarlo e se non lo ritrovi tu lo ammazzerà qualcun altro. Quindi ti conviene ammazzarlo ora, anche se sai bene che il mercato è saturo di cervi e a venderlo non ci guadagnerai quasi niente.

Questo tipo di problemi delle risorse di free access è ben noto in economia fin dagli anni 1950, quando si cominciò a modellizzare la pesca. Si scoprì che c'era una buona ragione per la quale i pescatori sono di solito poveri: non possono ottimizzare la loro produzione. Più tardi, Garrett Hardin descrisse il problema con il nome della "Tragedia dei beni comuni" (the Tragedy of the Commons). Nel linguaggio di Hardin, "beni comuni" aveva lo stesso significato di "risorsa di libero accesso", anche se si riferiva a degli ipotetici pascoli liberi piuttosto che al caso reale dell'industria della pesca.

Il problema delle risorse free access non è solo quello dell'impossibiltà per gli operatori di ottimizzare i loro profitti. E' molto più grave: se, come si diceva, ogni cacciatore trova conveniente ammazzare ogni cervo che incontra, finirà che si ammazzano più cervi di quanto i cervi non si possano riprodurre. Questo vuol dire che si preleva una quantità di risorsa superiore a quella con la quale la risorsa si riproduce. Alla fine, non rimangono più cervi da cacciare. Questo fenomeno si chiama "overshoot" (sovrasfruttamento). E' tipico anche questo della pesca, basti pensare alla caccia alla balena nel secolo XIX che ha sterminato fino quasi all'estinzione le specie cacciate a quell'epoca. Non tutti lo sanno, ma la teoria di Hardin è quella che genera il "Picco di Produzione" che si trova nel caso del petrolio e tante risorse minerarie - ma non approfondiamo qui questo argomento.

In pratica, per evitare l'overshoot non c'è che mettere la risorsa sotto controllo di un'autorità; ovvero privatizzarla o affidarla alla gestione da parte di un'autorità pubblica. Nel caso dei cervi, quello che usiamo oggi è un sistema di quote e licenze stabilite dal governo, accoppiate alla chiusura della caccia per certi periodi. Al tempo di Geordie, i cervi erano proprietà del re, e chi li rubava finiva impiccato. In entrambe i casi, la risorsa non è più "free access". E' stata privatizzata esplicitamente nel caso del parco del re, un po' meno esplicitamente nel caso della gestione moderna della caccia; ma il concetto è quello.

Quindi, capite le ragioni del conflitto che sentiamo descritto nella canzone di Geordie. Il valore economico dei cervi per chi li poteva vendere sul mercato era molto superiore a quello che il re ne poteva trarre tenendoli nel suo parco. In effetti, la storia dell'umanità si può vedere come una serie di conflitti fra chi vedeva le risorse come dei "commons" e chi le vedeva come proprietà privata. E' uno dei temi cari a un certo filone dei film western: la lotta dei contadini che volevano privatizzare la terra, e degli allevatori che volevano tenerla come pascolo "free access". Nel complesso, la gestione delle risorse come "commons" si è rivelata fallimentare nella storia umana, a parte per certe risorse che non si prestano al sovrasfruttamento, (pensate per esempio alla legna nel bosco; è impossibile sovrasfruttarla finché uno si limita a raccogliere rami secchi caduti). Hardin aveva ragione quando parlava di "tragedia dei commons".

Ai nostri tempi, la tragedia dei commons si sta verificando con il petrolio. Questa affermazione farà sobbalzare più di un economista sulla sedia. Ma quale free access? I giacimenti di petrolio sono proprietà privata. Vero, però pensateci sopra un attimo. La proprietà del giacimento esiste solo dal momento in cui viene identificato. Prima di trivellare, non si sa se il petrolio c'è o non c'è in un certo posto. Il mondo è un'unica immensa foresta dove i cervi (i giacimenti di petrolio) si nascondono. Una volta catturato, il cervo è di proprietà del cacciatore, ma finché non si sa dov'è, è una risorsa free access. L'esplorazione petrolifera è un tipico esempio di free access a una risorsa.

Certo, una volta che il petrolio è stato trovato, niente vieterebbe al proprietario di lasciarlo dov'è senza sfruttarlo. Questa è una cosa che non si può fare con un cervo morto, che va a male, ma con un pozzo di petrolio, si. Nella pratica, tuttavia, fino ad oggi tutti i possessori di pozzi di petrolio si sono affrettati a sfruttare i pozzi alla massima velocità possibile, vendendo "per denaro" il petrolio estratto proprio come Geordie aveva fatto con i cervi del parco del re.

Questa strage petrolifera non corrisponde a come gli operatori si dovrebbero comportare secondo la teoria economica corrente. Su questo punto, Harold Hotelling aveva presentato negli anni '30 un suo modello, oggi noto come "La regola di Hotelling". Secondo Hotelling, il possessore di una risorsa non rinnovabile poteva massimizzare la propria funzione utilità estraendo piano piano e sempre meno in vista dell'arrivo futuro di un'altra risorsa (detta "backstop") che avrebbe rimpiazzato quella in uso. Ma non è così che si sono comportati i proprietari dei giacimenti petroliferi fino ad oggi.

Il fallimento della regola di Hotelling applicata ai pozzi del petrolio ha probabilmente a che fare con il postulato di base che Hotelling aveva usato. Hotelling aveva ragionato che un bene vale sempre meno a seconda di quanto è lontano nel tempo il suo godimento (meglio un uovo oggi che una gallina domani). Questa riduzione di valore viene detta "funzione di discount" e, secondo l'economia classica, è un esponenziale negativo. In realtà, sembra che la funzione reale per la maggior parte degli esseri umani scenda in modo molto più ripido di un esponenziale. Quello che è successo è che per gli operatori petroliferi la prospettiva di un esaurimento della possibilità di trovare ulteriore petrolio era sufficientemente lontana nel tempo che il valore dei pozzi in quel futuro era considerato zero. In altre parole, si sono comportati come se pensassero che il petrolio fosse infinito. Quindi, non hanno minimamente pensato a ottimizzare la produzione a lungo termine, come avrebbe voluto Hotelling.

Le cose potrebbero cambiare nel futuro e ci sono evidenti elementi che fanno pensare che i proprietari dei giacimenti stanno cominciando a pensare che non è il caso di estrarre sempre e comunque alla massima velocità possibile. Sta entrando in azione un nuovo meccanismo che non è più quello descritto dai "commons" di Hardin, ma che potrebbe essere proprio quello descritto da Hotelling. Oggi, chi possiede un giacimento, comincia a ragionare che, una volta esaurito, non sarà facile trovarne un altro. Pertanto, comincia a stringere sui rubinetti e a ridurre la velocità di estrazione. Questo non renderà il petrolio infinito, ma è uno dei fattori che causano il picco del petrolio. Potrebbe, fra le altre cose, rendere la discesa del dopo-picco molto più rapida di quella che era stata la salita.

Così, a questo stadio della storia del petrolio, si ricrea il conflitto fra "commons" e privatizzazione; fra Geordie e il Re. I paesi consumatori (Geordie) chiedono a gran voce che si estragga il petrolio (i cervi) e lo si venda "per denaro". I paesi produttori (il Re) non hanno nessuna intenzione di sprecare il loro petrolio (i cervi) in questo modo. E' un conflitto ancora embrionale, ma con l'invasione dell'Iraq può darsi che ne abbiamo visto una prima avvisaglia. E' tutto da vedere chi finirà impiccato alla fine.

16 commenti:

Frank Galvagno ha detto...

Interessante la storiella che si ripete, sembra parente delle reazioni oscillanti (per chi non è del ramo, quelle in cui i reagenti si trasformano in prodotti, poi viceversa, poi di nuovo daccapo etc. , secondo un certo periodo)

E' uno scorcio di dinamica dei sistemi.

Nel marasma totale, tuttavia, trovare modi per "risparmiare" petrolio sono a mio avviso auspicabili. Sperando di rimanere in ambito "civile" e di non cadere in dittature e repressioni. Questo sarà tanto più facile quanto più la popolazione sarà informata, e nel contempo i governi ridurranno l'aspetto "corruzione" e "convenienza personale".

Corrado ha detto...

Analisi come sempre illuminante. Però non mi convince del tutto l'equazione "regolazione (della caccia) = privatizzazione". Equazione che è funzionale al discorso complessivo, ma occulta il fatto che:
1) i commons potrebbero essere gestiti in modo collettivo e non privatistico senza cadere nella "tragedia" qualora fossero affidati a trust che abbiano obiettivi di lungo periodo e vincoli normativi forti (è, in pillole, la proposta fatta da Peter Barnes nel suo "Capitalismo 3.0=", aureo libretto che non mi stanco di citare)
2) ci sono commons per definizione inesauribili (la conoscenza, internet, in genere i beni immateriali, e ovviamente l'aria e il sole), la cui privatizzazione è, altrettanto per definizione, il contrario di un mezzo per proteggerli.

Anonimo ha detto...

… interessante analogia al di là della quale viene un brivido a pensare che un "Re" impiccato in Iraq c'è stato veramente…

Fabrizio De Andrè - Geordie:
http://it.youtube.com/watch?v=oolJ5G5Njxc

Anonimo ha detto...

La notizia di ieri è che a fronte della "discesa" dei prezzi del greggio alcuni paesi OPEC (IRAN, Venezuela, ecc.) chiederanno una riduzione della produzione per sostenere i prezzi!
Su chi finirà impiccato mi sembra evidente: tutti i Re. E forse più che impiccati bombardati e forse a lungo andare magari vedremo anche guerre per il possesso delle risorse fra i vari "Geordie".

Valdo

Marco C ha detto...

Aargh!!!! De André non tradusse Geordie nel 1975 ma nel 1966!


http://www.viadelcampo.com/html/45_giri.html

(l'autore di questo sito ha curato un'ottima discografia di De André).

Scusate l'intrusione, ma sono un po' fanatico eheh! Complimenti per l'ottimo post, come sempre.

Marco C.

Quesalid ha detto...

...i miti si autoavverano e gli uomini finiscono per essere quello che credono di essere.

Il mito della "Tragedy of Commons"

...pertanto sarebbe opportuno che credessimo di essere differenti.

Cordiali saluti
Q

Gianni Comoretto ha detto...

La storia dei "commons" intesa in questo modo (res nullius) mi ha lasciato un po' perplesso. Perché ho presente la situazione delle comunità montane, che sono vissute per secoli in equilibrio con i loro "commons" gestiti in modo collettivo. Il pascolo comune non era qualcosa di nessuno, ma di tutti, e il sovrasfruttamento veniva evitato dal controllo sociale.

Mi sembra che con lo stesso termine si parli quindi di due realtà ben diverse, cioè sia beni considerati "del primo che li prende", come il cervo, che considerati "della comunità", come un pascolo, o un terreno di caccia in cui puoi prenderti solo un certo numero di capi l'anno, senno' gli altri utenti si arrabbiano.

Confusione che temo sia voluta, e funzionale ad una certa ideologia, che vede la privatizzazione come toccasana per tutto. Ma, come nota il post, un imprenditore ha una "funzione di sconto" molto ripida, con tempi scala che non vanno mai oltre qualche decennio e spesso solo pochi anni. Mentre i commons delle nostre società preindustriali sono durati secoli.

Eugenio Saraceno ha detto...

Un paio di note su questo interessante proseguo del discorso sui common iniziato col post sugli storioni.
Da tempi immemorabili esistono modelli di gestione dei commons che non hanno a che fare nè con la privatizzazione (come la intendiamo noi cioè l'azienda che ottiene una concessione esclusiva) nè con la collettivizzazione (quella forzata sul modello URSS o Maoista). In un paesino dell'appennino abruzzese un anziano mi ha raccontato di come fino a qualche decennio fa la raccolta del fieno e della legna sulle montagne circostanti seguivano un modello di quote per famiglia probabilmente di origine feudale (Erbatico, Legnatico) ma che dopo l'Unità era supervisionato dal comune.
Questo sistema deve aver funzionato per secoli finchè qualcosa non lo ha turbato (la crescita demografica??)
Ho appreso infatti di come si cercò con un accordo tra allevatori di porre rimedio al problema del sovrasfruttamento dei pascoli eliminando completamente le capre che sono i ruminanti più dannosi.
Infine gli ex pascoli ricaddero in un area naturale protetta con evidente ricrescita del manto forestale su tutti i pendii che, mi è stato detto, erano pascoli brulli ai tempi dell'infanzia del mio interlocutore.
Aggiungo io grazie al petrolio che ha permesso di importare cibo da fuori e limitare il consumo di legna anche con la popolazione in stato di squilibrio con le risorse locali. I nostri "re" si possono permettere di proteggere le risorse naturali senza dover impiccare nessuno perchè possono distribuire metano, pensioni e fondi comunitari ma fino a quando?
Se pensassimo di risolvere il problema evitando questi modelli di origine feudale e ricorrendo all'economia di mercato sempre nell'esempio del paesino i common verrebbero messi a gara ad esempio dal comune; una o più aziende o cooperative si aggiudicherebbero quote dei pascoli e delle foreste; logica vorrebbe che queste risorse rinnovabili fossero sfruttate sotto il loro livello di ripristino naturale, magari questo è scritto anche a chiare lettere nella convenzione col comune e così le nostre aziende iniziano a gestire il common secondo una logica di mercato.
In realtà si può individuare una contraddizione che secondo me porta o al fallimento della gestione privatistica del common o al fallimento della logica di mercato, ovvero ad una logica di mercato ben distante da quella che abbiamo ben presente.
Se infatti la logica di mercato vuole che un operatore economico produca dei profitti e che questi crescano nel tempo, il vincolo sullo sfruttamento del common (=offerta costante) impone che la crescita dei profitti avvenga con una riduzione dei costi (ad es. assoldare dei pastori o taglialegna immigrati alloggiandoli in una vecchia roulotte??) ma la riduzione dei costi non può proseguire all'infinito, ad un certo momento l'unica soluzione per aumentare i profitti è ricaricare sui clienti (questo lo si può fare se si è in regime di monopolio naturale). Si potrebbe anche aggirare il vincolo aumentando il tasso di sfruttamento se chi ha concesso la licenza non è in grado di controllare e sanzionare il concessionario. Ciò è ancor più conveniente per il concessionario nel caso la licenza sia concessa a scadenza, senza la certezza di rinnovo.
In sintesi direi che il meccanismo di mercato contiene in sè un germe analogo a quello che ha fatto fallire il meccanismo feudale del legnatico, il germe della crescita economica per il primo, demografica per il secondo. Un operatore privato, impegnato nella gestione di un common deve rinunciare ad un tratto fondamentale dell'economia di mercato, la ricerca di un profitto crescente.
Del resto se un common viene affidato ad un privato l'unica giustificazione per la creazione di un profitto per quest'ultimo su un bene che non gli apparteneva, è che questi si impegni a gestirlo in modo più efficiente e rispettoso dei limiti naturali della risorsa della gestione collettiva, ma il profitto non può essere maggiore del costo economico della inefficienza altrimenti agli utenti converrà senz'altro tornare alla gestione collettiva. Se infatti nella gestione collettiva al singolo capofamiglia era necessaria ipoteticamente una giornata di lavoro per raccogliere la legna della sua quota mentre in regime di concessione privata per ottenere la stessa quota egli dovesse pagare più del proprio salario giornaliero la cosa non quadrerebbe più; senza contare che per ottenere quel salario netto si è dovuto anche pagare le tasse, mentre raccogliendo da se no, per non parlare del disoccupato che di quel salario non dispone ma disporrebbe del tempo per la raccolta.
A ben vedere il sistema autoritario di gestione del common (il re fa impiccare i bracconieri) è l'unico che funziona sempre proprio perchè disinnesca ogni meccanismo di crescita; non sfrutta economicamente la risorsa attendendosi dei profitti, non permette la crescita della popolazione che insiste sulla risorsa regolando impietosamente il saggio demografico con la malnutrizione e la forca.
Insomma credo che siamo ben lontani dall'aver individuato una bacchetta magica per il problema dei commons se non andiamo alla radice del problema, quello della crescita.

Eugenio

Anonimo ha detto...

la tragedia dei commons si e' amplificata nel nostro tempo con la tecnologia che ampliato e potenziato il braccio dell'uomo. prima del'era industriale c'erano i limiti dell'uomo di distruggere e di appropriarsi dell'ambiente. Purtroppo la saggezza non e' aumentata di pari passo della tecnologia e questo ci dice che siamo animali uguali a tutte le altre specie che vivono su questo pianeta. pertanto siamo come il giglio nello stagno al 30° giorno.

Corrado ha detto...

eug1971 ha molte ragioni nell'analisi dei commons, che infatti concorda con le ipotesi fatte dal libro di Barnes che citavo.
Un po' schematica l'analisi della logica capitalista, perché dire che il capitalismo implica avere l'obiettivo di FAR CRESCERE il profitto è un po' semplificatorio. In linea teorica, basta che il profitto ci sia, anche se resta costante nel tempo.

Ciò non toglie che le comunanze agrarie sopravvissute dal medioevo e risparmiate dalle "recinzioni" sono davvero una bellissima storia. Nella Marche c'è un paese che si chiama, guarda un po' "Comunanza", dove ogni anno nella prima domenica di ottobre si tiene una incredibile fiera degli uccelli che sembra puro medioevo.
E lì vicino, a Foce, la terra della valle è appunto gestita tuttora in collettivo da una comunanza agraria...

Vernetto ha detto...

mah non mi sembra che i commons per forza non funzionino, in Val d'Aosta si sono tanti esempi di risorse collettive - tipo i ru di irrigazione - gestiti per secoli in modo cooperativo da tutti gli abitanti della zona. Fra comunismo puro e duro e capitalismo puro e duro ci sono tante sfumature intermedie abbastanza più efficaci degli estremi.

Anonimo ha detto...

Come molti commenti hanno ben messo in evidenza, direi che il post di Ugo rischia di essere completamente fuorviante, visto che confonde diverse nozioni di "commons", e assimila la libera appropriazione individuale di un bene naturale (ad esempio il cervo nella foresta liberamente accessibile a tutti) con la gestione e il controllo collettivo o comunitario di risorse di interesse generale. I pascoli comuni, le servitù comunali, e tanti altri strumenti dell'economia pre-capitalista erano in realtà dei veri e propri esempi di sostenibilità e di equità sociale, poi distrutti dal progressivo avanzare delle "enclosures" e delle appropriazioni private (l'inizio dell'accumulazione capitalistica). Direi che il post di Ugo confonde grandemente i termini e il messaggio che sembra derivarne ("privato è bello, gestione comunitaria e socialmente responsabile è brutto") si basa su un esempio sbagliato di "commons", ovvero quello, guarda caso privatistico, del libero accaparramento individuale di un bene naturalmente disponibile. Una cosa ben diversa da quello che storicamente è stata la gestione collettiva e comunitaria delle risorse, un modello che è durato, con successo, per mille anni prima dell'inizio dell'esplosione capitalistica.

Ugo Bardi ha detto...

Bene, grazie per la serie di commenti interessanti che sono andati un paio di tacche più in profondotà di quanto il mio post non abbia fatto.

In effetti, la questione dei commons è stata molto semplificata da Hardin che ha totalmente sbagliato esempio: i commons boschivi e deipascoli non sono quasi mai sovrasfruttati.

La domanda da farsi a questo punto è come mai certi commons portano al sovrasfruttamento e come mai certi altri no. Io credo di avere una risposta, o perlomeno ci sto rimuginando sopra: credo che sia una questione di EROEI.

Ovvero, per far partire il meccanismo del sovrasfruttamento occorre essere in grado di accumulare capitale. Certi commons sono talmente poveri che questa accumulazione non esiste o e molto lenta. Legnatici, fungatici, ecc, non ti fanno certo ricco. E' un concetto che ho già espresso nel mio post sulla spigolatura.

Ne consegue che per i commons "poveri" c'è il tempo per costruire sistemi sociali che contengono e bloccano il sovrasfruttamento. Il problema dei commons "ricchi" è che chi riesce ad accaparrarsi i beni per primi cresce in fretta e la regolazione non ce la fa a bloccarlo.

Il che vuol dire che i commons poveri, tipo i pascoli o la spigolatura (i rifiuti) possono e devono essere regolati come commons. Per quelli ricchi, come il petrolio, l'unica possibilità è privatizzare, sperando che la funzione di sconto del proprietario non sia troppo ripida.

Tutto questo dovrebbe essere oggetto di un post separato. Se eug1971 ha voglia di scrivere qualcosa, lo può mandare a Franco Galvagno, l'argomento, come sarete daccordo, è interessantissimo

Ugo Bardi ha detto...

X Marco. Grazie per la correzione. La data del 1975 per Geordie l'avevo trovata da qualche parte sul web. Ma se mi dici che è il 1965, ci credo e correggo

Anonimo ha detto...

Solo una nota aggiuntiva sull'obiettivo dell'impresa di aumentare i profitti: tra i sistemi per farlo non è stato elencato quello ad oggi considerato più importante, ovvero il fare efficienza migliorando i processi.

Nel caso della foresta, a pari sostenibilità si potrebbe agire sia sul tipo di piantumazione (piante più efficienti nello sfruttare le risorse), sul migliorare le condizioni del terreno, sul migliorare i trasporti a valle di quanto raccolto, sull'utilizzare sul posto gli scarti per produrre energia, e così via.

E' vero che l'epoca moderna è stata prodotta da energia sovrabbondante e semplice, ma ciò non toglie che a pari costo (per quanto basso) il più efficiente ed efficace comunque prevaleva. La tecnologia attuale è in grado di sfruttare l'energia come mai prima nella storia, e ciò non va dimenticato.

Anonimo ha detto...

A testimonianza della longevità, della persistenza e della sostenibilità degli usi civici di beni comuni valgano due splendidi racconti di Mario Rigoni Stern raccolti nel libro Uomini, boschi e api: "La Malga" e "Legnatico ad uso civico". In tutto l'arco Alpino ed Appenninico sopravvivono istituti medievali che regolano l'uso collettivo di proprietà indivise (pascoli, boschi) garantendo la suddivisione dei proventi e la riproducibilità delle risorse. Questi istituti dimostrano che è possibile conservare e gestire in maniera sostenibile beni comuni senza bisogno di una privatizzazione o statalizzazione (in alcuni casi la gestione da parte di un governo centrale ha seguito modalità sostenibili: si pensi alle peccete ad alto fusto della Valle di Fiemme sfruttate dalla Reppublica di Venezia per la costruzione delle navi). Rispetto al commento di Ugo, più che di risorse povere (il bosco, il pascolo fino all'avvento dei combustibili fossili non erano risorse tanto povere), parlerei di risorse scarse. I problemi secondo me si pongono con risorse apparentemente abbondanti che innescano forme di sfruttamento con tassi di prelievo/consumo superiori a quelli di rinnovamento. Il tema è vasto ed incredibilmente affascinante e il dibattito mi pare molto partecipato e ricco di stimoli. Meriterebbe un approfondimento.