domenica, dicembre 03, 2006

La Befana non ci porta più il Carbone

La befana, si sa, portava regali ai bambini buoni, ma a quelli cattivi portava il carbone. Oggi, se la sera del 5 gennaio qualche bambino mette ancora la calza della befana attaccata al caminetto, anche un genitore un po’ crudele che volesse punirlo non saprebbe dove trovare il carbone. Certo, ai supermercati si vende ancora – a caro prezzo – la “carbonella”, il carbone vegetale che si usa la domenica per fare il barbecue in terrazza. Ma il carbone “vero”, quello minerale, quello che una volta si metteva tutti i giorni nelle stufe e nelle caldaie, quello è scomparso senza lasciare tracce; ci siamo quasi dimenticati che era esistito.

Eppure, il carbone ha accompagnato la nostra storia per secoli. Anche nelle usanze dell’epifania possiamo vedere un riflesso di un’epoca ormai remota, ma che è stata la vita quotidiana dei nostri avi. I bambini “cattivi”, ovvero quelli poveri, probabilmente trovavano davvero qualche pezzo di carbone nella calza per mancanza di altre cose da metterci. Forse non ne erano nemmeno dispiaciuti in un tempo in cui il carbone serviva per scaldarsi e per i poveri non ce n’era poi neanche tanto.

Proviamo a immaginarci un tempo non remotissimo, ma molto diverso dal nostro. Immaginiamoci la Toscana della metà dell’800. Probabilmente ce la immaginiamo come una regione agricola, e lo era; ma non era solo questo. Se pensiamo al porto di Livorno di quel tempo, lo vedremo frequentato da navi a vela sporche e grigie. Sono le carboniere che arrivano da Londra. Dalle stive di queste navi il carbone viene scaricato a mano, caricato su delle chiatte e laboriosamente trascinato controcorrente sull’Arno; allora regimato in modo da renderlo navigabile.

Telemaco Signorini, pittore fiorentino, ci ha lasciato uno splendido quadro del 1865 che ci mostra la fatica degli uomini che tiravano pesanti chiatte cariche di carbone su per l’Arno, fino al porto fluviale di Firenze, nella zona detta del “Pignone”. Intorno al Pignone, fuori delle mura, era la zona detta la “Sardigna”, per secoli la pattumiera della città che tuttavia il carbone aveva trasformato in zona industriale. Dalla Sardigna sarebbero poi nati i quartieri operai storici fiorentini.

A quel tempo, il carbone dava energia alle industrie e calore agli edifici; una parte invece si buttava nei “gasometri”, i resti di uno di questi impianti esistono ancora oggi a Firenze, nella zona che un tempo era la Sardigna. Nel gasometro si gassificava il carbone e con il gas si accendevano i lampioni a gas.

Pensateci: per millenni le città erano state al buio la notte; ma dal 1840 o giù di li, le strade erano illuminate. Più tardi i lampioni saranno elettrificati; ma non è lo stesso grande cambiamento che è passare dal buio totale alla luce; è quasi un atto divino. Il Granduca Pietro Leopoldo di Toscana si compiace dell’illuminazione a gas di Firenze; crede onestamente di aver fatto un regalo ai cittadini, Nessuno pensa alla fatica di chi ha tirato le chiatte e ancora di meno alla fatica dei minatori inglesi che lavoravano 14 ore al giorno in miniera, fin da bambini, per poi uscire la sera ad ammirare la nebbia. Le condizioni di vita spaventose dei minatori inglesi furono uno degli elementi che ispirarono Karl Marx a scrivere il suo “Capitale”.

La saga del carbone è cominciata già verso la fine del ‘600. La storia geologica del pianeta ha regalato all’Inghilterra le più grandi riserve di carbone in Europa, e di carbone di buona qualità e facilmente estraibile. Già nei primi del ‘700 in inghilterra si producevano 3 milioni di tonnellate all’anno di carbone. Col carbone si faceva l’acciaio, con l’acciaio si facevano cannoni e fucili; con questi aggeggi gli inglesi si sono fatti il loro impero coloniale. Di più, il carbone aveva reso possibile la rivoluzione industriale. Il carbone creava il capitalismo, e il capitalismo creava sempre più carbone. Nell’800 la produzione di carbone inglese era già oltre le 100 milioni di tonnellate all’anno e continuava a crescere. Col tempo, il numero di minatori in Inghilterra sarebbe arrivato a oltre un milione. Ognuno di loro produceva 250 tonnellate di carbone all’anno, molte centinaia di volte più energia di quanto un contadino preindustriale avrebbe mai potuto produrre.

Ma niente dura in eterno e lo sviluppo tumultuoso del carbone e del capitalismo inglese erano destinati ad arrestarsi prima o poi. Nel 1913, l’Inghilterra raggiunge il suo massimo storico di produzione annuale: oltre 250 milioni di tonnellate. Durante la prima guerra mondiale, la produzione cala, ma tutti si aspettano che riprenda poi la sua corsa. E invece no. Durante gli anni convulsi del dopoguerra la produzione di carbone inglese viaggia fra alti e bassi, c’è chi dice che è colpa degli scioperi generali dei minatori, ma con gli anni ’30 il declino del carbone inglese è ovvio per tutti.

A quel tempo, si sprecano le discussioni. Nessuno riesce a spiegare come mai la produzione diminuisce se di carbone ce n’è ancora. E’ una caduta della domanda? Un effetto delle regolazioni governative? Un complotto comunista? Manca completamente agli economisti del tempo, come del resto a quelli odierni, il concetto di “ritorno energetico”. Quando si estrae una risorsa minerale, si estraggono prima le risorse “facili”, ovvero ad alto ritorno energetico. Via via che si esauriscono le risorse facili, bisogna attaccarsi a quelle difficili e queste costano più care non solo in termini monetari ma in termini energetici. L’effetto è un declino graduale della produzione che inizia ben prima che si sia raggiunto l’ “esaurimento fisico” della risorsa. E’ questo il famoso “picco di produzione” più noto per il caso del petrolio ma che si verifica per qualsiasi risorsa minerale. E’ curioso che queste cose erano già perfettamente chiare a Stanley William Jevons che le scrisse nel suo “La Questione del Carbone” del 1856. I grandi economisti dell’ 800 sono stati una generazione molto speciale, le cui capacità di sintesi non sono state più eguagliate.

Il grande ciclo del carbone inglese è soltanto un tassello – anche se il più importante – del ciclo del carbone europeo. In Europa si produce carbone non solo in Inghilterra ma anche in Germania e in Polonia e, in quantità minori, in Francia e in Spagna. E’ un grande ciclo che in qualche secolo ha catapultato l’Europa da penisola minore del continente eurasiatico a potenza planetaria dominante. Il ciclo del carbone Europeo, però, si esaurisce verso la metà del ventesimo secolo. La Germania raggiunge il suo picco nel 1945; la Francia poco dopo. Tutta la produzione europea comincia a declinare nel dopoguerra. Non è un caso che nel dopoguerra l’Europa abbia perso la sua posizione dominante; passata ad altri paesi produttori di energia in forma di petrolio, come gli Stati Uniti.

Ne succedono di cose nel convulso periodo fra l’ascesa e il declino del “re carbone”. Per un paio di decenni a partire dal 1920 fino al 1940, circa, la Germania rimane in crescita, mentre l’Inghilterra declina. Sono gli anni del grande braccio di ferro fra le due potenze europee; il carbone Inglese combatte contro il carbone tedesco. Nella prima guerra mondiale trionfa il carbone inglese; nella seconda sarebbe stato il carbone tedesco a vincere se non fosse intervenuto il petrolio americano a cambiare le carte in tavola.

L’Italia, da parte sua, ha costruito tutto sul carbone inglese; che non serve solo per i lampioni di Firenze ma per tutto il sistema industriale italiano già a partire dal ‘700. Ma, dopo la prima guerra mondiale, il declino del carbone inglese si fa sentire. Tutto il sistema industriale italiano, già provato dalla guerra, entra in crisi. Sono i tempi dei primi grandi moti operai. Nel 1921, viene ucciso Spartaco Lavagnini, sindacalista fiorentino; è in fondo anche lui una vittima dell’esaurimento del carbone. La risposta politca alle difficoltà economiche è l’autoritarismo del regime fascista; ma questo non risolve certo il problema della mancanza di carbone. La stampa italiana degli anni ’20 e ‘30 è tutta una serie di insulti contro l’Inghilterra, la “perfida Albione” che non ci dava il carbone di cui avevamo bisogno. Erano invettive curiosamente simili a quelle che, cinquant’anni più tardi, sarebbero state lanciate contro i paesi arabi, colpevoli di non dare all’occidente abbastanza petrolio.

Tutta la politica italiana fra le due guerre si legge come un disperato tentativo di trovare risorse energetiche. L’Italia fa la voce grossa; si arma fino ai denti; il duce vuole rifare l’impero romano. Come una belva in gabbia, l’Italia è un paese incattivito che colpisce dove può. Con l’avventura Etiopica del 1935, l’Italia si illude di essersi costruita un impero come quello inglese. Invece ha fatto un’errore clamoroso, svenandosi per invadere un paese del tutto privo di risorse minerali. Gli Italiani sono entusiasti della loro impresa, ma non hanno capito che è il carbone che crea gli imperi, non viceversa. L’impero italiano avrà la sola distinzione di essere forse quello di più breve durata che la storia ricordi: meno di dieci anni.

Con l’attacco all’Etiopia, l’Italia si è autoinflitta delle ferite quasi mortali (per non parlare di quelle inflitte all’Etiopia). La fase dell’autarchia che segue è un fallimento; non si riesce a rimettere in sesto l’economia ormai al disastro nonostante la propaganda trionfale del regime; la produzione industriale declina; la tecnologia italiana, una volta all’avanguardia, crolla e rimane ai suoi vecchi biplani e alla sua flotta rigorosamente senza radar. Per l’Italia degli anni ’30, ormai sfinita e senza risorse non resta che buttarsi fra le braccia della Germania, che prometteva il carbone che l’Inghilterra non poteva più dare. Quel carbone costerà molto più caro di quanto non si potesse immaginare a quel tempo.

Dopo il cataclisma della seconda guerra mondiale, il carbone è passato in secondo piano. Il petrolio è cresciuto prepotentemente e negli anni ’50 ha sorpassato il carbone come la sorgente di energia principale nel mondo. Oggi, il ciclo del carbone europeo sta raggiungendo la sua fase finale. Nel 2005, abbiamo visto un momento epocale: la Francia ha chiuso ufficialmente la sua ultima miniera di carbone. Dopo quasi tre secoli di sfruttamento, a partire dai primi del ‘700, passando attraverso la rivoluzione francese, Napoleone, e tutte le guerre europee, da quest’anno la Francia non produce più un grammo di carbone. Inghilterra e Germania non sono ancora arrivate a quel punto, ma la loro produzione è ormai ridotta a meno di un decimo di quella che era ai tempi d’oro. L’impero inglese non è sopravvissuto al declino del carbone; come del resto neppure l’idea hitleriana del dominio germanico del mondo.

L’Europa ha ricostruito le sue industrie con il petrolio del Vicino Oriente e ci è parso che il carbone fosse solo un relitto di un epoca remota. Ma il “Re Carbone” non era affatto scomparso; era solo che il baricentro produttivo si era spostato lontano dall’Europa ormai spremuta; verso regioni ancora poco sfruttate. Era la Cina che negli anni ’60 cominciava la sua rivoluzione industriale basata sul carbone seguendo la stessa strada che l’inghilterra aveva percorso un secolo prima. La Cina arriverà a produrre nel 2005 quasi dieci volte più carbone di quanto l’inghilterra abbia mai prodotto. Il suo ciclo è in pieno svolgimento; non ci sono stime affidabili di quando comincerà il declino, ma sarà altrettanto inevitabile di quello del carbone inglese.

La grande fiammata che è stata il petrolio è oggi al suo culmine e il declino è destinato ad essere molto rapido. Il carbone, invece, va più lento ma il ciclo è comunque inesorabili. Esistono ancora risorse di carbone poco sfruttate nel Vicino Oriente e in Australia. Ma i tempi dell’abbondanza sono finiti. E’ curioso che qualcuno in Italia parli oggi di ritornare al carbone, dimenticandosi completamente della grande carenza che abbiamo avuto dagli anni ’20 in poi e senza chiedersi da dove il carbone dovrebbe arrivare. E’ finito il tempo dei regali e non importa se saremo cattivi o buoni; metteremo anche la calza sul caminetto, ma la Befana non ci porterà più il carbone.


Una versione di questo articolo è stata pubblicata sul “Tracce” di Dicembre 2006, una versione in pdf si trova a
http://www.aspoitalia.net/images/stories/ugo/befanapetrolifera/befanacarbonifera.pdf



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