venerdì, gennaio 18, 2008

Il Peak Oil degli Ingegneri



In questi ultimi mesi ho avuto modo di confrontarmi assiduamente sul tema del Peak Oil con un mio amico ingegnere, che stimo molto sia come persona che come tecnico.
In un eccesso di orgoglio, :-) , ammetto di essere fiero di avergli trasmesso delle idee sul Picco che ho a mia volta “assorbito” da Ugo Bardi e dagli altri soci e simpatizzanti ASPO. Credo di avere semplicemente risvegliato in lui dubbi reconditi, e di averlo incuriosito ad approfondire alcune tematiche.
Da “scettico” del Picco (come del resto ero io più di un anno fa) è diventato un ottimo interlocutore per analizzare e discutere cause, effetti, implicazioni, scenari. Nessuno di noi due ha ragione a priori nelle nostre “diatribe”, ma l’approccio costruttivo e non ideologico che le contraddistingue è già un goal.

Qualche giorno fa mi ha passato una rivista che riceve regolarmente, “Il giornale dell’Ingegnere” n. 1 del 15 gennaio 2008, in cui si titola in prima pagina: “Petrolio, minaccioso il conto del ‘peak oil’, il ruolo degli investimenti frena la produzione”. In esso si parte da concetti economici per giustificare razionalmente alcuni fatti oggettivi, sempre di carattere economico. Ad esempio, si ridimensiona il ruolo di eventi climatici e politici nella determinazione del prezzo, di fronte all’immensità della “sete” crescente di greggio.
Si evidenzia come il sistema produttivo non riesce a soddisfare una domanda crescente, e il meccanismo del veloce aumento dei prezzi sia inevitabile.
Si individua nel 2004 l’anno d’oro delle compagnie petrolifere, corrispondente al picco dei profitti. Da allora, il crescente costo degli investimenti ha progressivamente rallentato la velocità di offerta.

Gli elementi citati sono a mio avviso molto importanti, e anche ben espressi; le ragioni profonde del picco, che sono geofisiche e geochimiche, non vengono tuttavia citate esplicitamente. Queste possono essere considerate (superficialmente parlando) scontate, o banali; da chimico (sarò di parte…!), direi che in assenza di una loro costante ricapitolazione c’è il rischio che il “colpo di coda” delle ormai mitiche ragioni politico-belliche domini incontrastato … e che si torni daccapo!

E’ significativo che un Ordine ad alto impatto quale quello degli Ingegneri incominci ad affrontare il tema dal Picco. Da una parte questo conferma la serietà dell’ “affaire”, dall’altra si tratta di un canale di comunicazione capillare e rivolto a settori che non possono permettersi di trascurarne gli impatti, quali ad esempio l’industria manifatturiera e le infrastrutture.

[I commentatori e i lettori che lo desiderano, possono inviare materiale che ritengono interessante per la discussione a franco.galvagno@alice.it. Esso potrà essere rielaborato oppure pubblicato tal quale (nel caso di post già pronti), sempre con il riferimento dell'autore/contributore]

4 commenti:

Frank Galvagno ha detto...

Stavolta mi commento da solo :-)

se qualche ingegnere che legge avesse accesso al sito dell'Ordine, si potrebbe inserire l'articolo come commento (copia-incolla). Grazie (se la cosa è fattibile)

Francesco Aliprandi ha detto...

Non posso fregiarmi (ancora) del titolo, ma ecco qua. L'articolo è liberamente accessibile online.

Petrolio, minaccioso il conto del “peak oil”, il ruolo degli investimenti frena la produzione
dott. Marcello Colitti

La situazione dell’industria petrolifera è tutt’altro che tranquilla. L’aumento della domanda di prodotti petroliferi di oltre il 3% nel 2004 ha tolto all’industria quel “cuscino” di capacità che poteva assorbire le conseguenze delle bufere nel Golfo del Messico, o delle rivolte tribali in Nigeria. I prezzi hanno perciò preso ad aumentare rapidamente, ed il sistema è ancor oggi al 98% di utilizzo delle capacità produttive, e fino ad ora non si è creata nuova capacità in misura sufficiente per ridurre la tensione sulle risorse. Con il prezzo alto, e crescente, del petrolio, è opinione comune che le compagnie petrolifere internazionali si dovrebbero considerare contente e soddisfatte. Ma non sembra che sia questo il caso, e cominciano a trapelare informazioni che danno un quadro tutt’altro che ottimistico della loro situazione .


In primo luogo, le loro rivali, le Compagnie Petrolifere Nazionali dei Paesi produttori, sono cresciute molto rapidamente: esse controllano ormai il 70% della produzione e circa l’80% delle riserve mondiali di greggio. Di solito, esse non hanno i mezzi finanziari per sviluppare nuove ricerche, dato che devono sussidiare anno per anno il bilancio del loro Stato, anche se qualcuna di loro, come l’Aramco, o anche l’Eni, competono con le grandi ad armi pari. Comincia perciò ad aleggiare, almeno a livello di proposta, l’idea di una compartecipazione delle compagnie internazionali nel capitale delle Compagnie Nazionali, una proposta che sembra venire da ambienti dell’industria, e che nell’attuale situazione politica del Medio Oriente sembra destinata a rimanere tale. Per divenire realtà, una proposta del genere richiederebbe infatti un clima politico molto diverso da quello attuale. Ma un’idea del genere, che richiama quello che gli italiani dicevano e facevano tanti anni fa, indica che siamo in un momento difficile per le grandi compagnie internazionali. Un fatto nuovo, il calo dei loro profitti, ha creato un’atmosfera d’incertezza e di confusione sul mercato petrolifero, ed anche su quello finanziario, anche se quest’ultimo è molto distratto dalla crisi dei mutui edilizi. Le grandi compagnie, i cui profitti erano stati altissimi per qualche anno, si trovano oggi in una forbice negativa che si verifica, a quanto pare, per la prima volta. Da un lato, esse si trovano nella necessità di pagare dividendi alti e crescenti, e di acquistare blocchi di propri titoli per tenere a bada gli appetiti delle “private equity corporations”. Questa preoccupazione dura da parecchio tempo ed è così rilevante da aver dato causa ad un petroliere di pronunciare una frase che rischia di diventare famosa “le grandi compagnie internazionali finiranno per liquidare se stesse”. L’altra lama della forbice è rappresentata dai costi, tecnici e fiscali, della produzione di greggio. Sono ormai venuti alla ribalta i grandi casi di “cost overrun” verificatisi, ad esempio, a Sakalin o nel Caspio, dovuti da un lato a difficoltà tecniche e dall’altro, alla crescita dei costi relativi a impianti e macchine e della retribuzione dei sempre più scarsi lavoratori qualificati. I costi delle attrezzature sono saliti, spinti dall’aumento dell’80% del prezzo dell’acciaio dal 2004, al punto che le spese di esplorazione e di sviluppo sono aumentate, negli ultimi anni, in termini reali e non monetari, solo del 5% all’anno. In generale, la realizzazione dei grandi progetti di produzione petrolifera, ma anche quelli di liquefazione del gas, o di nuove raffinerie, hanno visto i loro costi aumentare fino a quattro volte la stima originaria. Inoltre, si è verificato un generalizzato aumento della parte spettante ai Paesi produttori, in forma di royalty, di imposte sui profitti, ed anche di export duty sui greggi. In complesso, le tasse sono aumentate del 50% dal 2004 al 2006, fino ad arrivare al 40% del valore di un barile, compresi i costi di produzione. Questo complesso di pressioni ha ridotto il “cash margin“ di un barile - che era aumentato quasi del 40% nel 2006 rispetto al 2004 - a valori che si stimano per il 2009 quasi a metà del valore del 2006, al di sotto del valore del 2004. Uno dei pochi elementi positivi è la stabilità dei costi di produzione, che deriva da un progresso tecnologico molto spinto, specie per quanto riguarda l’offshore. I costi (di esplorazione, di sviluppo e operativi) sono aumentati di poco, dal 2004 al 2006, e sono previsti costanti per il prossimo futuro. Una rilevazione, che inizia negli anni ’80, mostra che i costi di scoperta e di produzione sono diminuiti dal 1983 al 1999, da 30 a 10 dollari per barile, per poi aumentare lentamente e toccare i 15 dollari a barile nel 2004, l’anno di massima dei profitti delle compagnie. Questo importante risultato sembra inatteso, dato che si ritiene che i costi aumentino passando da giacimenti grandi e relativamente giovani a giacimenti più piccoli e già quasi maturi. Si tratta di un progresso dovuto esclusivamente alle nuove tecnologie, che hanno dato prova nel ringiovanimento del Mare del Nord, e di altre aree produttive. Questo quadro non entusiasmante induce le compagnie petrolifere a ridurre gli investimenti, il che è anche, a volte, reso necessario dalla mancanza di lavoro altamente qualificato. Esse si trovano, però, di fronte ad un forte aumento della domanda, che nessuno aveva previsto, e dopo un lungo periodo di bassi prezzi e di investimenti ridotti da parte, praticamente, di tutti gli operatori. In questa situazione, le grandi compagnie non sembrano disponibili a finanziare il 50-60% degli investimenti necessari su scala mondiale, quando hanno solo il 22% della produzione corrente, e non si può certo dire che ci stiano provando. Il futuro dei prezzi pare loro molto incerto. Alcune indicano i costi troppo alti, altre lamentano che non trovano accesso ai Paesi petroliferi, altre ancora che pagano troppe tasse ai Paesi produttori e che non hanno più alcuna riserva di lavoratori qualificati. Infine, queste discussioni avvengono sullo sfondo del timore di un progressivo esaurimento delle loro riserve petrolifere. I conti del cosiddetto “peak oil” sembrano sempre più minacciosi, soprattutto per le produzioni fuori OPEC, cioè per buona parte delle produzioni ancora nelle mani delle grandi compagnie internazionali. Secondo alcuni calcoli, i 12 principali Paesi produttori non OPEC (Stati Uniti, Messico, Europa, Egitto, eccetera), che avevano prodotto nel 2000 20,5 milioni di barili al giorno (MBD), sono scesi nel 2006 a 17,4 MBD, e si ritiene che la loro produzione abbia in media già passato nel 2007 il suo picco, dopo il quale essa ha cominciato a calare, sia pure lentamente. Altri due Paesi non OPEC, la Russia e la Cina, che hanno prodotto nel 2000 9,7MBD e 12,9 MBD nel 2006, si stima che debbano trovare il loro picco nel 2012, con 14,2 MBD, mentre le sabbie del Canada ed altri non OPEC dovrebbero trovare il loro picco nel 2030 a 4,0 MBD. Il complesso di tutti i Paesi p r o d u t t o r i non OPEC, che hanno prodotto 38,4 MBD nel 2000 e 41,4 nel 2006, dovrebbe trovare il suo picco nel 2008 a 43,0 MBD. Dopo di che, l’ aumento dei consumi petroliferi potrebbe essere mantenuto solo con una strategia di altissima produzione da parte dell’OPEC, ed in particolare dell’Arabia Saudita. È però poco probabile che un Paese così attento alla gestione delle sue riserve segua una strategia che avvicinerebbe a circa vent’anni da oggi il picco produttivo dei giacimenti sauditi. Sarebbe per quel Paese molto più logico aumentare la produzione fino a 13-15 MBD, e poi mantenere le proprie riserve il più a lungo possibile.

Anonimo ha detto...

Quando è arrivato il giornale, mi sono piacevolmente stupito, mi chiedevo se sarebbe stato citato...

Frank Galvagno ha detto...

Grazie Francesco per l'articolo