lunedì, novembre 30, 2009

Bradi-economia



Nell'immagine, un bradipo tridattilo. E' ancora più lento del suo cugino-antagonista, il bradipo didattilo (che ha un' "unghia" in meno)


Bradys- : prefisso di origine greca, che indica lentezza. Molto usato nelle scienze naturali e in medicina. Ad esempio: bradipo, bradicardia, bradilalia.

L'economia, in una delle sue molteplici definizioni, è detta scienza delle scarsità*. Ossia, studio della gestione e dei meccanismi di scambio di beni "scarsi". Nel mondo del materiale, praticamente tutto ha un prezzo: che si parli di materie prime, semilavorati, prodotti finiti, macchinari, edifici, infrastrutture, veicoli etc. Assiomaticamente, tutto ha un prezzo perchè tutto è scarso, ossia "finito". Mi vengono in mente ben poche cose che non hanno prezzo: ad esempio, l'aria che respiriamo, e l'acqua di mare. Entro certi limiti che oggi non siamo ancora in grado di superare, possiamo utilizzarle gratuitamente per i nostri bisogni "ordinari", in virtù del fatto che la loro quantità è talmente grande rispetto a tali bisogni, che il problema non si pone. Siamo avvolti dall'aria che respiriamo, e siamo circondati dagli oceani.

Proviamo invece a pensare all'acqua dolce: si tratta di una risorsa estremamente più nobile dell'acqua di mare, in quanto molto più scarsa. Ecco che, allora, a seconda dell'abbondanza o meno in certe zone abbiamo una differenziazione nei prezzi dell'acqua imbottigliata, e nelle tariffe delle aziende-consorzi di gestione dell'acqua.

Il prezzo, a mio modo di vedere, è un "potenziale aritmetico" associato a una quantità definita di un bene ad un certo tempo, che in caso di trasferimento dello stesso da un proprietario a un altro, deve generare un cash flow equivalente.

Ora, uno dei meccanismi più "collaudati" e noti dell'economia classica, è senz'altro la "legge della domanda e dell'offerta", che si accorda molto bene con il concetto di "scienza dei beni scarsi". Più un bene è disponibile e accessibile, meno costa. Al limite, non costa nulla. [e a questo limite si sperava di arrivare con l'energia quando nei primi anni '50 cominciavano a diffondersi i reattori nucleari].

Se un bene è scarso, avrà associato un prezzo. Se è molto scarso, il prezzo sarà più alto. Al limite, pochi potranno accedervi. Se la risorsa in gioco è vitale ed è in depletion incontrollata, scoppieranno guerre, più o meno estese, accompagnate da problemi alimentari e sanitari di massa, in un feedback circolare reciproco.

Cercando di "giocare" lontano dai limiti, per non incappare in patologie (che conducono a poco fruttuose utopie, o peggio a disastri, entrambi ampiamente verificati nella storia) : un bene che diventa sempre più scarso, come ad esempio il petrolio, il gas e il legno, vedrà aumentare il prezzo a posteriori. Il problema è proprio questo: se ce ne infischiamo di quello che siamo capaci di fare da un trentennio a questa parte, ossia realizzare previsioni-proiezioni con i modelli dinamici e le serie storiche, continueremo a perseverare con quello che è stato fatto fino allo scorso secolo, il più cruento (o fra i più cruenti) della storia. Ossia, constatare le scarsità e gli overshooting a giochi fatti, quando i sistemi sono nel pieno dell'instabilità.

L'economia classica è tremendamente lenta nella reazione (ad esempio, ma non solo, per mezzo di correzioni sui prezzi) rispetto alla velocità di cambiamento dello stato fisico dei sistemi complessi. Non è escluso che, se aspettiamo evidenti feedback sui prezzi degli idrocarburi, allora la transizione al rinnovabile non potrà avere luogo in modo completo e autosostentante, per cui potrebbe rivelarsi un disperato tentativo verso un qualcosa di fisicamente non più raggiungibile. Una sorta di precipitare in una "buca di potenziale", per dirla nel linguaggio dei chimici-fisici, che sarà troppo profonda per poter essere risalita con i mezzi a disposizione (energia stoccata residua, infrastrutture obsolescenti...). Questo avrebbe effetti devastanti sull'intera civiltà umana.


* con una certa irriverenza, ho definito in più post passati l'economia politica classica come la scienza della comodità e della constatazione

domenica, novembre 29, 2009

La fine dell'abbondanza



Una bella foto del "flaring" del gas metano in aria in un pozzo AGIP a Ebocha, in Nigeria, completa di bambini che giocano alla luce della fiamma. Ci sono moltissimi giacimenti troppo lontani da oleodotti dove la difficoltà di trasporto rende poco conveniente sfruttare il gas naturale. Allora, lo si brucia sul posto. Sono le ultime fiammate di un'era di abbondanza che, lentamente, va a chiudersi.

Foto da "Resilience science".

venerdì, novembre 27, 2009

Una serata al circolo ARCI; parlando di energia

Questa è una foto che ho trovato su internet e che non ritrae l'evento di cui vi parlo in questo post. Però, rende abbastanza bene l'idea delle tante conferenze sull'energia che si fanno nei vari circoli in Italia.




Serata di dibattito sull'energia al circolo ARCI dove mi hanno invitato come oratore. Siamo in una piccola frazione di un comune in provincia di Firenze. E' fine estate, la temperatura è mite e il buffet è all'aperto nel cortile. E' stato preparato da alcune signore anziane, c'è arista, bruschetta di pomodoro e crostini toscani - niente male!

Durante la cena, si proietta il film di Al Gore, "Una verità scomoda". Sarà la quinta volta che lo vedo, ma ogni volta ci scopro qualcosa di nuovo. Veramente un bel film di un maestro della comunicazione. Mentre sgranocchio un crostino, l'assessore comunale all'ambiente, che ha organizzato l'incontro, mi saluta e mi dice, "Appena è finito il film, introduco io la serata, poi parlerà un altro oratore e poi lei. Un quarto d'ora o venti minuti ciascuno, poi facciamo il dibattito".

Finisce il film, sono oltre le nove e mezzo e si comincia subito male. L'assessore non sa parlare in pubblico. Si mangia le parole, ripete i concetti, non finisce le frasi che ha cominciato e non arriva mai a una conclusione. Parla di biomasse, geotermico, eolico e fotovoltaico, ma non si capisce se gli vanno bene o no. Sembra una versione in dialetto toscano dell'assessore pasticcione di "Zelig".

Ad ascoltare l'assessore ci sono una quindicina di persone anziane - i giovani che erano venuti al buffet sono subito spariti. I vecchietti guardano l'assessore con aria perplessa. Io chiedo a mia moglie, seduta accanto a me in platea, "ma hai capito cosa ha detto?" "Assolutamente niente," mi risponde lei. Non credo che i vecchietti abbiano capito più di noi.

Sono oltre le dieci quando si passa al primo oratore. Subito alle prime immagini capisco che la faccenda si mette male. Dico a mia moglie "Questo qui parla almeno per tre quarti d'ora". In realtà, sono troppo ottimista. Alla fine avrà parlato per 56 minuti.

Non che l'oratore non sia competente, anzi, dalla sua lunga prolusione sull'isolamento energetico degli edifici imparo due o tre cose che non sapevo prima. Ma l'argomento è tosto e l'effetto è devastante sui vecchietti in platea. Ormai ho imparato che questo tipo di platea è formato da bravissime persone che però non sono in grado nemmeno di leggere un grafico cartesiano - proprio come io non sarei in grado di leggere un testo in cinese. Ma la presentazione di questo signore è tutta basata su grafici e tabelle. Non ho contato esattamente il numero di slide che ha fatto vedere, ma da una stima approssimata sono almeno 70. E' la maledizione del Power Point: una slide tira l'altra.

I vecchietti, poveracci, non ce la fanno proprio. Alcuni rimangono a occhi aperti, ma puntati verso il vuoto. Altri li chiudono proprio, altri ancora si abbattono sulla spalliera della sedia. L'effetto è surreale: possibile che l'oratore non si accorga che sta parlando a una platea di persone addormentate? C'è luce nel cortile e, come lo vedo io che dormono, lo deve vedere anche lui. In più, l'assessore se n'è andato e io stesso mi prendo una pausa per un altro paio di biscotti alle mandorle al buffet. Quando torno, l'oratore sta continuando a parlare imperterrito.

E' una piccola cerimonia religiosa in cui l'oratore sta parlando a delle divinità che solo lui può vedere. O, forse, sta parlando alle sue slide Power Point. Forse è il Power Point che ha acquisito poteri divini. A un certo punto, l'oratore dice - "... e con questo, fra poco ho finito". Non mi frega, ormai lo so che quando dicono "ho quasi finito" non è vero. Mi prendo altri cinque minuti di pausa per fare una passeggiatina. Quando torno, sta ancora parlando e parlerà ancora per almeno altri 10 minuti.

Finalmente, passa l'ultima diapositiva e la presentazione finisce con qualche applauso (presumo di sollievo). Alcuni dei vecchietti si alzano e fanno per andarsene. Quando mi vedono avvicinarsi al palco però, si vede che gli sembra di farmi una scortesia e si rimettono a sedere. A un gruppetto di loro, dico "guardate, lo so che avete sonno, non vi preoccupate; non mi offendo mica se ve ne andate!". Loro mi sorridono e scuotono la testa, come a dire che non hanno sonno e che ci tengono a sentire anche me. Sono veramente delle brave persone.

Così, mi trovo sul palco quando sono ben oltre le undici. Sarei tentato di dire "Grazie ma è troppo tardi per mettersi a disquisire di petrolio. Andiamo tutti a dormire." Ma sarebbe cosa scortese nei riguardi di queste brave persone. Non posso farlo. Però, mi trovo completamente spiazzato: cosa racconto a una platea di persone stanche e insonnolite che sono li' solo a sperare che il tutto finisca presto? Faccio del mio meglio parlando senza diapositive per poco più di 10 minuti (al mio orologio, il totale è 12 minuti). In questo breve tempo, parlo dei prezzi, do dei dati sulla produzione e sui consumi in Italia, racconto delle difficoltà dell'economia. Per tenere svegli i vecchietti, faccio loro delle domande: "Sapete dirmi se nel 2008 in Italia si è consumato più o meno petrolio dell'anno prima?". Scuotono la testa: non lo sapevano che i consumi di carburanti in Italia sono in calo.

Sarà servito a qualcosa? Probabilmente no, ma perlomeno non li ho fatti dormire. Quando concludo, noto anche qualche sorriso. Forse perché gli è piaciuto, più probabilmente perchè ho fatto alla svelta.

Riprende l'assessore dicendo che ora è il momento del dibattito. Però, curiosamente, invece di dare la parola al pubblico, ricomincia lui a parlare ripetendo - mi sembra - esattamente quello che aveva detto nel suo discorso introduttivo, e neanche stavolta si capisce qualcosa. Lo lascio parlare per 14 minuti (cronometrati), al quindicesimo non ce la faccio ulteriormente. Mi alzo, ringrazio pubblicamente tutti e in particolare le signore del buffet, mi scuso ma è un po tardi e devo tornare a casa; che non è vicina. Spero che nessuno si sia offeso, ma era già quasi mezzanotte e penso che abbiano capito.

All'uscita del circolo ARCI, seduti sulla terrazza sul lato opposto di dove si teneva l'incontro, ci sono almeno trenta persone, molti di loro giovani, a bere e a chiaccherare.


Non so se questa piccola storia abbia una morale; penso di no. E' semplicemente un momento della vita di un gruppetto di una ventina di esseri umani su un pianeta dove ce ne sono ormai quasi sette miliardi. Immagino che si parli di energia e di clima anche a Kabul e a Ulan Bator. Non so se se ne parla negli stessi termini e con le stesse modalità che sono in uso nei circoli ARCI della provincia di Firenze; ma di una cosa sono sicuro: se anche a Kabul e Ulan Bator usano il Power Point, fanno gli stessi disastri comunicativi che facciamo noi.

giovedì, novembre 26, 2009

L’energia aliena




created by Mirco Rossi


Da quasi vent’anni illustro quel poco che so sui temi dell’energia a studenti e cittadini. Si tratta di un’azione divulgativa verso un target di persone spesso totalmente a digiuno degli argomenti affrontati, molto diverso da quello che si incontra nei convegni o nelle situazioni più “acculturate”.

In queste settimane l’attività si è molto intensificata in relazione alle numerose presentazioni del mio recente libro “ENERGIA E FUTURO – le opportunità del declino”, con notevole incremento degli incontri organizzati durante le ore serali, necessariamente frequentati da un pubblico prevalentemente adulto.

Ancor più che tra gli studenti delle ultime classi delle scuole superiori, in questi contesti si registra la pressoché totale ignoranza dei più basilari concetti indispensabili a comprendere la situazione e le prospettive energetiche. Ma ciò quasi mai rappresenta un particolare problema; anzi, di norma dà origine a una specie di “fascinazione”, a curiosità e interesse durevoli, ben oltre le usuali soglie d’attenzione definite dai manuali di comunicazione.

Risulta piuttosto semplice – almeno al momento - smantellare credenze, illusioni, errori concettuali, false certezze, frutto di ignoranza o di un sistema che fa della “disinformazia” il proprio standard informativo e spesso il proprio obiettivo.

E’ quindi piuttosto frequente incontrare a un certo punto della serata occhi sbarrati, facce attonite, atteggiamenti di disagio, espressioni orfane di punti di riferimento. Il difficile comincia proprio a questo punto, quando le fragilissime basi su cui si posava la tranquillità di molti sono letteralmente “svampate”.

La necessità di ridurre i consumi e incrementare le energie rinnovabili non si presentano certo come strade lastricate di dolciumi e cioccolata, ma – combinate alla scarsa capacità di comprendere in così poco tempo la profondità delle trasformazioni che si renderanno indispensabili! - permettono a molti di ritrovare sufficienti appigli per ricollocarsi in una prospettiva non dico gioiosa o accattivante ma perlomeno non disperante.

Ad alcuni però questa conversione, verso l’accoglimento seppur parziale delle difficoltà di cui vengono a conoscenza, non riesce.

Il miscuglio tra impreparazione, convincimento, paura, confusione, desiderio, sogno, negazionismo, rifiuto della realtà spiacevole, dà luogo alle combinazioni più varie, tutte presto trasformate in granitiche certezze, da cui emergono affermazioni indiscutibili: “Questo è solo catastrofismo”, “Allora sarebbero tutti cretini gli scienziati e i politici che la pensano diversamente”, “L’uomo è sempre riuscito a trovare la soluzione ai problemi e così sarà anche questa volta”, “La scienza non ha limiti. Basta investire e studiare e si troveranno sicuramente nuove energie ora sconosciute”, “Le soluzioni esistono già ma le società petrolifere le tengono nascoste e sequestrate per continuare a fare soldi con il petrolio”, “Tutto sarà risolto dalla fusione nucleare”.

Un florilegio di inconsistenti appigli che solo in parte può essere messo in crisi in quanto oltremodo resistenti proprio per la loro sostanziale infondatezza e irrazionalità.

L’altra sera tuttavia, al termine di quasi tre ore di confronto e con circa una quarantina di persone ancora in sala, un signore è andato oltre, è proprio arrivato al limite.

Per una serie di coincidenze (altri interventi da parte dei presenti a lui contrari, una mia serata particolarmente felice, debolezza del suo convincimento) le due (tra le solite) eccezioni che aveva avanzato erano miseramente crollate. Avrebbe dovuto acconciarsi ad ammettere l’esistenza di qualche serio problema, ma questo probabilmente lo avrebbe messo in gravi difficoltà con il bisogno di mantenere l’equilibrio mentale che evidentemente non poteva rinunciare alle asserite certezze con cui era entrato in sala. Ad un certo punto si alza in piedi e, quasi urlando “Ma c’è l’energia già scoperta dagli alieni. Quella delle astronavi con cui sono giunti sino a noi. Sapete bene anche voi che nelle profondità di Los Alamos gli americani stanno da decenni studiando le astronavi ritrovate nel deserto per scoprirne i segreti. Non lo ammettono ufficialmente ma ci sono migliaia di scienziati che ci lavorano proprio per scoprire di cosa sono fatte e quale energia le fa funzionare. La soluzione esiste, basta poco e poi la faranno conoscere anche a noi, loro alleati.”

Non mi era mai capitato prima. Sembrava una persona assennata, un po’ illusa e forse intimorita dalla necessità di ridisegnare, almeno mentalmente, il suo futuro.

La nuova realtà aveva invece fatto entrare in corto circuito il suo cervello.

Si è riseduto quasi di schianto. Non ho ritenuto opportuno replicare e, come altri dei presenti, mi sono limitato a uno sguardo cercando di dissimulare la “pietas” che provavo per lui.

martedì, novembre 24, 2009

Energia eolica di una volta


Tramonto in Sardegna visto dalla "Caterina Madre", barca storica a vela latina



Quest'anno, a furia di parlare di aquiloni e di kitegen, ho deciso di rispoverare una vecchia passione, quella per la vela, e di farmi qualche giorno di ferie in Sardegna, dove ho potuto navigare un po' su una barca storica a vela latina e riguadagnare confidenza con il vento e con il modo di sfruttarlo.

Non che io mi consideri un grande esperto di vela, ma qualche esperienza ce l'ho e questa breve navigazione con la vela latina mi ha inspirato qualche riflessione che credo potrete trovare interessante. Una è che mi ha fatto ricordare il fatto che le barche a vela sono piene di oggetti duri e spigolosi che tendono a muoversi rapidamente da un posto all'altro, specialmente quando tira molto vento. Per questo, mentre scrivo, 15 giorni dopo, sono ancora un po' dolorante a una costola che si è scontrata con l'antenna della barca. Ma questo tipo di cose sono ben note a chi va a vela.

Piuttosto, mi ha colpito la differenza di stile e di filosofia della barca a vela latina rispetto a quella più comune a vela triangolare. Il principio di funzionamento è lo stesso; entrambe i tipi di attrezzatura sono basati sulla combinazione di due vele contigue, dette fiocco e randa. Ma in una vela triangolare, quando vai di bolina tutto è teso al limite, vele e scotte. Una vela latina è molto più rilassata; è un altro andare. Più lento, ovviamente, non sarebbe possibile altrimenti dato il peso della barca che, inoltre, non si piega nemmeno lontanamente così tanto come una barca moderna.

La regata delle vele latine dell'Agosto 2009 a Stintino, in Sardegna (foto di Donata Bardi)


Ora, c'è una storia tecnologica della vela che si potrebbe interpretare come di un continuo progresso a partire dalle vele quadre dei nostri remoti antenati, fino alle vele triangolari moderne. In realtà, credo che le cose non siano così semplici e lineari.

Mi sembra probabile che il vero "breakthrough" nella tecnologia della vela è stato la combinazione fiocco e randa, che permette di sfruttare i principi dell'aerodinamica. Su una barca a vela, vi rendete subito conto della differenza fra "lift machine" (l'ala di un aereo) e "drag machine" (un paracadute). La lift machine è molto più efficiente e il trucco della combinazione fiocco/randa è proprio questo: far funzionare la vela come l'ala di un aereo. Se "stringete il vento" andando di bolina o in traverso, è proprio così che la barca viaggia al massimo. Col vento in poppa, le vele si trasformano in grandi paracadute, la barca viaggia, ma molto più lentamente. Il kitegen, incidentalmente, è una "lift machine".

Fra i vari tipi di velatura che sfruttano il principio della "lift machine" (principalmente latina, aurica e triangolare), non credo che ci sia grandissima differenza. Se ci fate caso, tuttavia, vedrete che la vela latina si sviluppa di più in orizzontale, mentre quella triangolare di più in verticale. La vela latina, fra le altre cose, usa il cosiddetto "spigone" che è quel palo che si protende in avanti dalla prua, proprio per estendere in orizzontale la superficie velica.



Lo spigone della Caterina Madre, con il fiocco ancorato.

Tenere la vela più bassa in altezza vuol dire ridurre il braccio di leva formato dall'albero. Così, a parità di superficie velata, lo sforzo sull'albero è minore, la barca si inclina di meno ed è meno sensibile ai colpi di vento; tutte cose che la rendono più pratica e più sicura. Tutto questo si paga con una minore velocità ma, evidentemente i nostri antenati non avevano tanta fretta.

In altre parole, io credo che i nostri antenati avevano sviluppato un tipo di velatura, quella latina, perfettamente adatta a navigare nel Mediterraneo; anzi ottimizzata per questo scopo. Non erano certamente più ignoranti di noi o più ostili all'innovazione, anzi, erano perfettamente in grado di sperimentare nuovi tipi di velatura. Per esempio, quando Colombo si accorse che le vele latine della "Nina" non erano adatte alla navigazione oceanica, le fece cambiare in rotta in vele quadre. Quindi, molto spesso non è questione di progresso tecnologico ma di adattamento intelligente. Non tutto quello che viene propagandato per "progresso" è necessariamente migliore.

Come è ovvio, in Sardegna ci siamo messi a discutere di equipaggiare i gozzi storici con dei motori elettrici e batterie al litio al posto dei puzzolenti diesel che ormai hanno tutti. Tutto sommato, però, il fascino della vela è tale che parlare di motori di qualsiasi tipo sa leggermente di turpiloquio. Curiosamente, in effetti, sembrerebbe che con il graduale esaurimento del petrolio il futuro non siano motori, ma, piuttosto, lo skysail, un aquilone che tira la nave, un concetto simile a quello del kitegen. Vedremo allora il ritorno del vento come mezzo di propulsione marina? Molto probabile, ma lo skysail sembra più che altro adatto a navi di una certa dimensione e chissà che per barche piccole non si ritorni alla vela latina?




Barche storiche a vela latina ormeggiate al molo di Stintino, in Sardegna. La Caterina Madre, di proprietà della famiglia Addis, è la seconda da sinistra. Ringrazio Elisabetta Addis e Antonio Segni per avermi dato la possibilità di navigare su una così stupenda barca.

lunedì, novembre 23, 2009

E se ci riscaldassimo tutti a legna? (breve trattato per annichilire rapidamente i nostri boschi)



Nell'immaginario collettivo è piuttosto diffusa l'idea che, un giorno, torneremo tutti a riscaldarci con la cara vecchia legna. Questo, soprattutto a causa dell'aumento dei prezzi della bolletta del gas (o del GPL, o del gasolio, con poche differenze), accompagnato anche dalle cattive notizie di "disponibilità strategica" del gas russo che arriva all'Europa via gasdotti che attraversano Stati "politicamente instabili" (uno su tutti, l'Ucraina).

Personalmente, trovo l'idea particolarmente affascinante e pittoresca; questo, da un punto di vista psicologico. Proviamo, invece, ad approcciare il problema sotto una visuale un po' più scientifica.

La domanda è: abbiamo abbastanza legna? Gettando un'occhiata di massima alle riprese aeree televisive domenicali delle trasmissioni dedicate al verde, verrebbe da rispondere affermativamente. In realtà, le cose non sono così semplici. Prendiamo ad esempio una regione come il Piemonte, che non è sicuramente povera di boschi (per rapporto ad altre regioni italiane). L'analisi va però fatta relazionando la superficie boschiva con il n° di persone (meglio: unità abitative) e con il fabbisogno unitario, quest'ultimo legato al grado medio di isolamento termico delle abitazioni. Non solo: occorre considerare un "flusso" legnoso compatibile con la velocità di rinnovamento dei boschi, pena il loro impoverimento (intaccamento della biomassa "capitalizzata") e il rischio reale di overshooting della risorsa.

Bene, questo studio è stato effettuato dall'IPLA (Istituto per le Piante da Legno e l'Ambiente), ed è stato presentato in ottobre 2007, in sede di convegno ad Alpi expo. Tra le altre cose, è stato calcolato che la ricrescita in tutto il Piemonte sarebbe sufficiente per il riscaldamento di circa 40.000 abitazioni  su circa 1.700.000 (ipotizzati 100 m2 medi per abitazione). Vale a dire, meno del 3% delle famiglie piemontesi.

Se ci si volesse ostinare a sostituire "militarmente" gli altri combustibili fossili per riscaldamento con la legna, l'ovvia conseguenza sarebbe il rapido impoverimento dei boschi, con tutti i problemi conseguenti di ricrescita vegetale e di erosione dei suoli.

In realtà, da questo documento-studio si evince (alla slide "consumi di biomassa solida") che il contributo energetico al riscaldamento in Piemonte è di circa l'11%, circa 4 volte superiore al tasso di ricrescita dei boschi locali.
La realtà è che abbiamo già iniziato a intaccare il patrimonio boschivo. Molto istruttivo è questo documento, dove si vede (pag. 35) che il minimo prelievo dai boschi è stato nel 1973, quando il petrolio era a 4,7 $/barile.
La biomassa avrà senz'altro un ruolo importantissimo nel futuro, sia in termini di materia prima per intermedi chimici, che di reservoir energetico per la combustione. Ma un conto è utilizzare un po' di legno per integrare un riscaldamento efficiente durante le due-tre settimane/anno di minimo termico, altro conto è affidarsi interamente alla biomassa come fonte energetica di rimpiazzo per i combustibili fossili, lasciando inalterati i nostri obsoleti (mediamente) impianti di riscaldamento e sistemi di coibentazione.

Come ha ricordato in lista Massimo Ippolito, concettore del Kitegen, riporre grandi speranze in un ciclo energetico a basso EROEI (circa 2,5 per la combustione di biomassa legnosa) potrebbe rivelarsi un boomerang, e potremmo non avere diritto a un secondo lancio.



PS 1: non stiamo qui ad approfondire la "leggera" differenza in termini di polveri emesse nella combustione tra la legna e metano (o il GPL), amplificata in città con abitanti dell'ordine delle centinaia di migliaia di persone

PS 2: ringrazio Massimo Ippolito e Luca Mercalli per l'ispirazione e per il supporto documentale fornito

domenica, novembre 22, 2009

La mafia dei negazionisti climatici


Da che mondo è mondo, ci sono delle tattiche ben collaudate per far tacere i propri avversari. Il primo stadio è sempre quello: far sapere al tuo nemico che lo controlli, che sai quello che fa, che tutto quello che dice ti viene fatto sapere. E' il primo stadio dell'intimidazione mafiosa, quello che prelude poi a metodi fisici; gambizzare il nemico, o semplicemente ammazzarlo e poi buttarlo in una colata di cemento.

L'intimidazione è il metodo che è stato applicato agli scienziati del clima. Rubare le loro comunicazioni private e diffonderle su internet. Non è solo una cosa illegale e infame, è un messaggio molto chiaro: "state attenti, sappiamo quello che fate e quello che dite". Non importa cosa ci fosse scritto nelle lettere, non importa che non contengano niente di compromettente: nessun ammissione che ci fosse un complotto, nessuna evidenza che gli scienziati fossero pagati da qualcuno come sostengono comunemente i negazionisti climatici. L'importante è il significato stesso dell'atto. Non è violenza fisica, ma è lo stesso; è rubare le tue cose e sparpagliarle in giro: è una dimostrazione di disprezzo.

Come si dice a volte, "quando il gioco si fa duro....". Evidentemente, la questione climatica si sta facendo dura, con l'evidenza del riscaldamento globale ormai chiara per chiunque si prenda la briga di esaminare la situazione. Allo stesso modo, sta diventando ovvia la necessità urgente di prendere provvedimenti che non saranno indolori per le varie lobby, a partire da quella del carbone. Il solo dibattito, evidentemente, non basta più per nascondere l'evidenza. A poche settimane dal vertice di Copenhagen, non è una coincidenza vedere che "i duri cominciano a giocare". A quando la gambizzazione degli scienziati?

venerdì, novembre 20, 2009

Vertice FAO. Il tabù taciuto della sovrappopolazione



Veduta aerea del campo profughi di Al Salam (Darfur settentrionale)


 
created by Luca Pardi


Leggendo i servizi dei media sul vertice FAO abbiamo appreso quello che sapevamo che potevamo prevedere e avevamo effettivamente previsto. La crisi ha come più importante effetto quello di aumentare il numero di affamati. Tale situazione era gia stata evidenziata da Ugo Bardi in un recente post su questo blog. Nello stesso breve post Ugo si rammaricava di aver azzeccato la prevista carestia in un precedente contributo.

Ciò che manca nelle analisi è il fattore popolazione o, meglio, sovrappopolazione. Uno dei tabù più persistenti della modernità.

Il problema è infatti tanto la quantità di cibo (estremamente dipendente dalla disponibilità petrolifera e di altre risorse fossili) per sfamare le bocche esistenti, quanto il numero sempre crescente di bocche da sfamare.

Nell'orgia di reprimende e recriminazioni morali e politiche a cui assistiamo manca infatti (a meno di mie sviste) ogni considerazione riguardo al fatto di aver lasciato la popolazione crescere senza freni, con la sola maledetta e benedetta eccezione della Cina. Maledetta per i metodi, benedetta per gli effetti.

Una Santa Alleanza dei chierici delle diverse religioni con i Guru delle Schools of Economics ha forgiato la politica demografica degli ultimi decenni, rimuovendo totalmente il problema della crescita demografica dal dibattito pubblico, e il tema del controllo delle nascite dalle politiche globali. Eppure una Kyoto della sessualità responsabile era stata iniziata, gia in largo ritardo, con la conferenza del Cairo nel 1994 nella quale si era accettata l'idea di diffondere "l'accesso ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva, inclusa la pianificazione familiare. A questo seguì il nulla prodotto dall'opposizione pregiudiziale del Vaticano delle amministrazioni USA dell'era dei Bush (a cui l'interludio Clinton non pose rimedio) e di alcuni paesi islamici.

Le gia limitate e ritardatarie conclusioni della conferenza del Cairo restarono lettera morta sul piano della contraccezione. La contraccezione appunto. Un'insieme di "tecnologie" semplici, molto più semplici di molte che si è inteso trasferire nei paesi poveri, delle quali le donne del terzo e quarto mondo sono a conoscenza, ma delle quali non possono usufruire in un mondo nel quale il maschilismo imperante nega alle madri il diritto di pretendere non più figli, ma di più per i propri figli (cfr Robert Engelmann, More: Population, Nature, and What Women Want).

Tutto il dibattito si svolge da una parte sulla vexata questio della redistribuzione della ricchezza e dall'altra sulla necessità del far ripartire la crescita. E' ovvio, almeno per chi scrive, che l'aspetto redistributivo resti un mandato morale delle nostre società opulente, ma non può essere l'unico e, soprattutto, non può essere subordinato alla improbabile ripartenza della crescita. Ho sentito con le mie orecchie un esponente politico di spicco del centrosinistra affermare che "senza crescita non c'è nulla da redistribuire". Come se la crescita del PIL mondiale da 61 miliardi di dollari a 63 mila miliardi di dollari (una crescita del 3%) fosse la condizione necessaria per metter mano a qualsiasi azione di salvataggio. Oggi un mandato morale altrettanto pressante è quello che ci chiede di permettere alle donne dei paesi a più alta natalità di soddisfare le proprie aspirazioni senza sottostare a condizionamenti ideologici e religiosi.

Le tradizioni locali non aiutano? E' arrivato il momento di dire una volta per tutte che non esiste una sola "tradizione" che valga la pena di essere protetta se determina lo sterminio per fame. E' il momento di rimettere nelle mani delle donne il destino riproduttivo della nostra specie, per amore dei figli sapranno fare meglio di noi maschi, ne sono sicuro.

Lo scambio che si deve indurre a livello globale è tanto semplice quanto fuori dall'agenda delle politiche attuali: i paesi ricchi rinuncino alla propria bulimia consumistica che causa il perdurare della razzia colonialista di risorse, e diano ai paesi poveri la possibilità, tecnicamente semplicissima, di regolare la propria natalità.

mercoledì, novembre 18, 2009

Geoingegneria


Ogni tanto un'amica mi manda, molto preoccupata, articoli che pesca qua e là in rete. E ultimamente è riuscita a preoccupare molto anche me con questo bell'articolo che fa il punto su un argomento di cui si comincia a parlare molto, la possibilità di combattere i cambiamenti climatici facendo qualcosa al clima, con le tecniche chiamate in modo altisonante come geoingegneria.

In breve. Visto che il riscaldamento globale avanza, nessuno pensa seriamente di ridurre le emissioni ai livelli che servirebbe (almeno del 50%, meglio del 70-80% rispetto ad oggi), l'anidride carbonica rimane in atmosfera per un secolo almeno e quindi anche se si smettesse subito potrebbe non bastare, perché non cercare di lavorare dall'altro lato della questione riducendo di un pelino la quantità di luce che ci proviene dal Sole? Basterebbe aumentare la quantità di luce riflessa dal suolo e dalle nubi dell'1% per controbattere il riscaldamento dovuto ad un raddoppio della CO2 nell'atmosfera. Insomma, si potrebbe continuare ad inquinare per tutto il ventunesimo secolo senza danni. Della cosa se ne parla anche in un breve editoriale sull'ultimo numero di Le Scienze, e anche John Holdrane, il consigliere scientifico di Obama ha dichiarato a Gennaio di considerare seriamente questa possibilità.



Fino ad oggi ho visto queste idee con scetticismo, si sa che alcuni scienziati sono parecchio pazzi, ma la maggior parte del mondo scientifico mi sembrava consapevole della follia di queste proposte. Di recente, anche grazie a questo articolo, ho dovuto ricredermi.
Che la cosa in teoria funzioni lo sappiamo dalle eruzioni vulcaniche. Una grossa eruzione come quella del Pinatubo del 1991 ha sparso nell'alta atmosfera un bel po' di ceneri e solfati, che hanno leggermente filtrato la luce solare e ridotto la temperatura mondiale di oltre mezzo grado per alcuni anni. Fare altrettanto spargendo composti di zolfo con aerei appositi (no, le scie di condensa, le cosiddette "scie chimiche", non c'entrano, son troppo basse e han l'effetto opposto) costerebbe una cifra, ma centinaia di volte meno che non ridurre le emissioni.



Oppure si potrebbe spruzzare acqua da navi apposite, producendo delle nubi bianche riflettenti, come propone il Copenhagen Consensus, un gruppo di economisti e scienziati diretti da Bjorn Lomborg. O persino mettere in orbita un grosso numero di specchi, per deflettere la luce solare. Altri approcci, come quello di fertilizzare l'oceano con sali di ferro per aumentare la fotosintesi e quindi la cattura di CO2 da parte delle alghe, sono già stati sperimentati e dimostrati poco efficaci.

Ma gli autori del documento ci richiamano rapidamente alla realtà in un capitolo intitolato "Dalla fantascienza ai fatti". Sappiamo ad esempio che le eruzioni vulcaniche abbassano sì la temperatura, ma riducono anche le precipitazioni, in quanto tendono a spostare le piogge sopra gli oceani. Quindi non moriremmo di caldo ma di sete.

In generale non sappiamo assolutamente cosa succederebbe con le misure proposte, il clima è complicato e abbiamo già pasticciato abbastanza con la CO2. Inoltre la geoingegneria è una strada che una volta intrapresa va seguita senza fermarsi. Le contromisure infatti durano pochi anni, e se si smette di colpo (che so, per una grossa crisi economica) la temperatura aumenterebbe altrettanto di colpo, con effetti catastrofici.

Ma il riscaldamento globale non è il solo problema legato alle emissioni. L'anidride carbonica sciolta in acqua è acida e tende a sciogliere le conchiglie ed i coralli. Già oggi l'acidità dei mari sta mettendo a rischio le barriere coralline, e tutta la gente che vive grazie a loro (per non parlare degli ecosistemi). Acque più acide favoriscono la creazione di zone anossiche, cioè con concentrazioni di ossigeno insufficienti a farci vivere i pesci. Naturalmente far nuvole artificiali non risolve questi problemi.

Il fatto che certe cose siano possibili, e potenzialmente non troppo care, crea grossi rischi. Una grossa nazione può decidere di intraprendere misure di geoingegneria. Per avere vantaggi locali, come limitare l'aumento di temperatura sul proprio territorio, a scapito di svantaggi globali. Oppure per motivi politici ("stiamo facendo qualcosa per il clima senza uccidere lo sviluppo"). Grosse compagnie possono essere tentate di vendere crediti di emissione derivati da operazioni di geoingegneria. E comunque di fronte ad una catastrofe planetaria imminente, dovuta a qualche ulteriore decennio di inazione, si può essere davvero disposti a tutto.

E siccome sappiamo ancora molto poco, sia sugli effetti di queste misure che su come regolarne un eventuale uso (anche solo per evitare che comunque qualcuno lo faccia), sarebbe in effetti meglio cominciare a ragionarci. E nel frattempo non cadere nella trappola di pensare ad una soluzione tecnologica del riscaldamento globale, la cosa da fare comunque per evitarlo è tagliare le emissioni.

L'articolo a questo punto però arriva a conclusioni opposte alle mie. Di fronte alla minaccia di superare il tipping point, la situazione in cui i cambiamenti climatici vanno avanti per conto loro, anche la geoingegneria diventa per gli autori un'opzione. Meglio farlo in modo controllato, sapendo cosa si sta facendo grazie ad esperimenti svolti su piccola scala, che improvvisare all'ultimo momento, presi dalla disperazione. Meglio coordinare gli sforzi a livello mondiale che lasciare l'iniziativa al primo che arriva. Meglio studiare e stabilire i limiti di questi metodi, dimostrando che non funzionano, che lasciare la speranza di poterli utilizzare in futuro.

Io francamente continuo ad essere molto più preoccupato di quello che possiamo pasticciare anche solo con qualche esperimento di geoingegneria in grande stile. E ho il forte sospetto che nessun esperimento possa davvero dirci cosa succederebbe in un uso reale di queste tecniche. Infine sono stra-convinto che anche se queste cose non funzionano il solo fatto di prenderle in considerazione giustificherebbe l'inazione sul fronte del controllo delle emissioni.

Ma non sono più così confidente che non ci sia qualcuno abbastanza pazzo da provare davvero a cambiare il clima.

martedì, novembre 17, 2009

Eppur si muove

La storia dell’Alta Velocità ferroviaria in Italia è il paradigma dell’inefficienza del paese e uno dei simboli dell’arretratezza del nostro sistema decisionale, politico e amministrativo. C’è voluto circa cinque volte il tempo necessario nel resto d’Europa per completare l’opera, spendendo il 500% in più. Un vero scandalo amministrativo che gli organi nazionali di controllo dovrebbero indagare, punendo pesantemente i responsabili. Ma temo che, come quasi sempre avviene nel nostro paese, anche questa volta i colpevoli resteranno impuniti. A chi volesse approfondire la storia e i motivi di queste nefandezze, consiglio la lettura di questo documento.

Detto questo, bisogna però prendere atto con soddisfazione che i lavori della tratta strategica Torino – Milano – Bologna – Firenze – Roma – Napoli sono sostanzialmente conclusi e, come annunciato dall’Amministratore Delegato delle Ferrovie, Mauro Moretti, dal prossimo 13 Dicembre sarà possibile, grazie all’apertura degli ultimi tratti mancanti, Torino – Novara, la galleria Firenze – Bologna, Gricignano – Napoli, viaggiare con i treni ad Alta Velocità sull’intero percorso, con tempi nettamente competitivi rispetto agli altri mezzi di trasporto. In particolare, sarà possibile trasferirsi da Roma a Milano in meno di tre ore. Le Ferrovie già detengono sulla tratta incompleta circa il 50% degli spostamenti, ma sapendo che su di essa si concentra il 70% del traffico aereo nazionale, è facile prevedere, sulla scorta di tutte le esperienze realizzate in Europa, un’ulteriore sottrazione di quote di mercato a questo modo di trasporto estremamente inquinante.
E, giustamente, le Ferrovie si apprestano a sostenere la competizione, mettendo in evidenza i vantaggi anche ambientali del trasporto su ferro rispetto alle altre modalità. Sul sito dell’Azienda italiana, è disponibile un documento che mette bene in evidenza questo raffronto estremamente positivo in termini di consumi energetici, emissioni di gas serra e inquinamento atmosferico. Sempre sullo stesso sito, è poi disponibile un’interessante applicazione di facile utilizzo, denominata Eco-passenger, che consente di confrontare (inserendo le città di partenza ed arrivo) per gli aerei, le automobili e i treni del trasporto passeggeri in Europa, il consumo di energia, le emissioni di CO2 e le emissioni in atmosfera di gas di scarico, utilizzando i migliori dati disponibili per le diverse modalità di trasporto e coprendo gran parte dei paesi Europei. Eco-passenger è stato sviluppato in collaborazione tra l'UIC (Unione Internazionale delle Ferrovie), i suoi membri europei, IFEU (l’Istituto tedesco per l'Ambiente e l'Energia) e IVEmbH (sistema di routing e software). E’ poi disponibile (in inglese) un report sulla metodologia di calcolo che considera, in un’ottica di “analisi del ciclo di vita” le emissioni derivanti dal consumo cumulativo di energia, includendo anche l'energia utilizzata per produrre l’elettricità o il combustibile, in una prospettiva "dalla sorgente alla ruota".
Se alle positive novità descritte in precedenza, aggiungiamo anche il fatto che, come da me scritto qualche tempo fa, sulla linea dell’Alta Velocità si attuerà dal 2011 un processo di liberalizzazione del settore con l’ingresso di una nuova compagnia ferroviaria, NTV, partecipata da alcuni industriali italiani e dalla società nazionale dei trasporti francesi, che farà concorrenza alla compagnia di bandiera, le prospettive per il nostro disastrato sistema di trasporto su ferro si annunciano migliori.
Rimane da risolvere il grosso problema del servizio sulle altre tratte ferroviarie, attualmente molto scadente, soprattutto nei collegamenti tra le aree urbane. Però, anche grazie all’entrata in funzione dell’Alta Velocità, questi problemi potranno essere risolti. Le linee liberate dal traffico di lunga percorrenza, potrebbero essere riconvertite, anche qui attraverso un processo di liberalizzazione, al trasporto rapido di massa, utilizzando i moderni mezzi tranviari che possono percorrere indifferentemente sia i binari ferroviari, che quelli stradali all’interno delle città. Per approfondire questa tematica potete leggere i riferimenti contenuti nel mio articolo di qualche giorno fa “Lo spreco di risorse del trasporto pubblico locale”. E anche nel trasporto delle merci, le vecchie linee ferroviarie potrebbero essere parzialmente convertite a questo segmento strategico di mercato.

lunedì, novembre 16, 2009

Fichi e lambrette



created by Luca Pardi


Molti anni fa, ero un ragazzo meno che ventenne, avevo una lambretta. Non mi chiedete il modello perché non me lo ricordo. Anche se ne ho sempre fatto uso per spostarmi, non ho mai contratto il feticismo mistico di alcuni miei amici di allora. So solo che era una lambretta verde pisello, e andava abbastanza bene. Una notte di settembre, guidando quella lambretta in una località fra Porto Santo Stefano e Orbetello, caddi. Seguivo un mio amico, anche lui in moto, lo vidi entrare in una curva abbastanza stretta, ma che conoscevamo benissimo, sbandare un paio di volte e riprendersi, il tempo perché io andassi sdraiato sull’asfalto sbattendo la faccia in terra, avevo il casco, ma non era integrale. Non mi feci altro che qualche graffio sullo zigomo sinistro e un ematoma all’occhio dalla stessa parte. Una ferita da sfoggiare con le ragazze i giorni successivi.



La sbandata di Luciano (il mio amico) e la mia caduta erano dovute all’asfalto reso viscido in quel punto e in quel periodo, da un fico che scaricava i suoi frutti maturi sulla strada sottostante (lo so che i fichi non sono frutti, ma infiorescenze, ma uno mica può dire che il fico scaricava le sue infiorescenze, … scienziati si, ma insomma). Seppi poi che in quello stesso punto altri motociclisti erano caduti e di li a poco un’ordinanza del comune impose al proprietario del terreno che ospitava il fico di tagliarlo. Era un fico molto grande e molto vecchio. In maremma le chiamano ficaie.
Personalmente non ho mai portato rancore a quel fico e mi dispiacque quando l’anno dopo constatai che era stato eliminato. Lo rispettavo. Non sarei mai più rientrato in quella curva in una sera di tarda estate con la stessa velocità e pendenza, anche se il fico, ormai non c’era più.

Ho visto tagliare alberi lungo le strade perché avevano provocato incidenti. Ho visto i volantini di comitati per l’abbattimento dei pini che costeggiano una strada provinciale in provincia di Pisa perché troppi erano gli incidenti mortali. Ho sentito che la famiglia di un giovane vittima di un incidente aveva motoseghe alla mano, abbattuto per “vendetta” l’albero (di cui non ricordo la specie) contro cui il ragazzo era andato a sbattere.

Ho visto anche un singolare cartello stradale di pericolo in cui è scritto “attenzione alberi fuori sagoma”. Cosa può essere, signori, un albero fuori sagoma? Quale standard di sagoma ha in mente l’estensore di quel cartello? Quegli alberi “fuori sagoma” sono il doppio filare di platani che costeggia ambo i lati della provinciale che da Porta a Lucca a Pisa arriva a San Giuliano Terme. Quei platani c’erano già quando i miei genitori vivevano a Pisa prima della guerra (la seconda), mia zia si ricorda di quel viale percorso a piedi controcorrente in un flusso di sfollati che fuggivano da Pisa bombardata, mentre lei andava a cercare i suoi in città. Allora i platani non erano “fuori sagoma”. La gente si muoveva in bicicletta, o con i barrocci a mano.

Non la voglio fare lunga. Ho vissuto, visto e sentito raccontare tutte queste cose di alberi “incriminati”, ma non ho mai sentito parlare di un comitato di cittadini, che dopo un morto contro un albero, invece che contro gli alberi, si mobilitasse per la limitazione della potenza delle auto. Non so voi!

sabato, novembre 14, 2009

Grazie, uomo-inceneritore!

"Metterò fine al tuo malvagio piano di riciclaggio, Dr. Nemico, ora!"
"Grazie, uomo-inceneritore, grazie!"
"Sei arrivato appena in tempo!"
"Per un attimo abbiamo pensato di dover cambiare stile di vita."

(immagine da http://polyp.org.uk/environmental_cartoons/cartoons_about_environmental_issues.html)

venerdì, novembre 13, 2009

Quando il prezzo del petrolio è un’opinione




created by Matteo Terrevazzi


Il caso ha voluto che uscissero ad un solo giorno di distanza, ma al di là della vicinanza temporale i due rapporti non hanno molto altro in comune. Da una parte e dall’altra dell’Oceano Atlantico, il 28 e 29 luglio 2009, prima la FSA (Financial Services Authority) inglese e poi la CFTC (Commodity Futures Trading Commission) statunitense hanno presentato un report sulla situazione del mercato petrolifero. E i risultati sono stati esattamente opposti. Lo studio inglese conclude che “non si è riscontrata nessuna evidenza sul fatto che gli speculatori siano stati i responsabili delle recenti fluttuazioni del prezzo del petrolio”, ma che, in realtà, “l’alta volatilità e l’incremento del prezzo abbiano più a che fare con l’incertezza dei mercati sulle aspettative di crescita economica che con la speculazione”.

Speculatori sani e salvi, quindi.

Peccato, però, che i colleghi statunitensi della CFTC, commissione che da pochi mesi ha avuto un cambio al vertice seguendo i colori della presidenza - da repubblicana a democratica, abbiano incoraggiato il Governo americano a “considerare seriamente” di intraprendere la strada di una “rigorosa limitazione alle attività di trading puramente finanziarie nel mercato del petrolio, del gas naturale e degli altri prodotti energetici”. Secondo Gary Gensler, il presidente della commissione, i responsabili del forte incremento della volatilità nel mercato energetico sono stati gli index funds, fondi scambiati come azioni che permettono agli investitori di scommettere sul rialzo del prezzo dell’energia. Queste conclusioni, tra l’altro, confliggono con quelle dell’ultimo rapporto della stessa CFTC dello scorso anno quando, sotto l’egida repubblicana, si era affermato che “i movimenti di prezzo sono principalmente guidati dai fondamentali di domanda e offerta” e che nei mercati in cui gli speculatori non operano – ad esempio quello della cipolla (sic!) – le oscillazioni dei prezzi sono molto più violente ed ampie.

Un’analisi del Wall Street Journal del 30 luglio propone una lettura interessante: in realtà indicare gli speculatori come i responsabili del rialzo del prezzo del petrolio “assolve” gli errori politici nel contrastarlo; insomma, se i responsabili sono gli index funds, rimangono impuniti sia la FED sia la generosa amministrazione Obama che hanno largamente concesso liquidità al sistema e, di conseguenza, fornito agli speculatori i mezzi per operare anche sul mercato energetico. D’altra parte, la CFTC ora vorrebbe mettere pressione sul Governo per correre ai ripari: a fine settembre, in occasione di un rapporto nuovo e migliore sulla vicenda, chiederà al Parlamento americano di introdurre una maggiore regolamentazione sugli swap dealer e una migliore vigilanza sugli oscuri mercati over-the-counter. In particolare, si vorrebbe porre una barriera al numero di contratti futures in essere detenuti dagli operatori non-commerciali e stabilire nuovi limiti alle principali banche, come JPMorgan Chase e Goldman Sachs, che sono i principali operatori sul mercato energetico e sono stati classificati come “commerciali” per l’attività di supporto che forniscono alle compagnie petrolifere.

Quello che propongono gli inglesi è, ancora una volta, esattamente l’opposto: l’FSA non ritiene che limitare la dimensione delle posizioni finanziarie possa portare alcun beneficio al mercato. Queste conclusioni contraddicono quanto ha recentemente auspicato il Primo Ministro Gordon Brown, secondo cui gli alti prezzi del petrolio sono collegati ad una speculazione finanziaria “ingiusta”, che merita di essere punita.

Anche nel recente dibattito della letteratura economica si assiste ad una divergenza di venute particolarmente radicale: gli economisti di matrice liberista portano evidenze sul fatto che la speculazione aiuta il prezzo a convergere più velocemente verso il valore “fondamentale”, pertanto servirebbe “più speculazione”, non meno, e qualsiasi tentativo di porre un freno ai prezzi distorce i meccanismi del mercato, mentre altri, tra cui Alberto Clò, auspicano una migliore vigilanza sulle attività finanziarie ed un’approfondita classificazione degli operatori, specialmente di quelli che operano al di fuori del mercato statunitense.

In conclusione, il mercato del petrolio non sembra smentirsi, ancora una volta, rimanendo quello che è sempre stato a partire dagli shock petroliferi degli anni ’70: un fumoso calderone ribollente di opinioni discordanti, impegnate nel vano tentativo di mettere a fuoco la verità o, più semplicemente, di supportare le convinzioni politiche del potente di turno.


Bibliografia
The Politics of “Speculation”, The Wall Street Journal, 30/07/2009
Andrews Edmund, US regulator favors limits on oil and gas futures trades, Herald Tribune, 30/07/2009
Fiano Andrea, Stop alla speculazione sul petrolio, Milano Finanza, 29/07/2009
Macdonald A. & Cui C., Speculators Cleared in UK Oil Volatility, The Wall Street Journal, 28/07/2009
Toriello Marco, Speculatori in azione ma in Italia il sistema non va, Il Mattino, 05/08/2009

giovedì, novembre 12, 2009

Purtroppo, i negazionisti climatici continuano ad avere torto

Esce in questi giorni su climalteranti un articolo sul cambiamento climatico a firma di Ugo Bardi, Stefano Caserini e Giulio De Leo intitolato "Purtroppo i negazionisti climatici continuano ad avere torto". Qui trovate l'introduzione e dal link potete accedere al testo completo.


In fondo, tutti vorremmo sperare che i negazionisti climatici avessero ragione. Se per caso venisse fuori che, veramente, è stato tutto un abbaglio, che il clima non sta cambiando così velocemente come sembra o che, perlomeno, l’uomo non c’entra nulla… beh, sarebbe come risvegliarsi da un incubo. Sarebbe un sollievo come quando ti svegli e ti accorgi che il mostro che ti stava rincorrendo non è un mostro vero ma qualcosa che è fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. Sarebbe bello, no?

Ultimamente, poteva venire naturale pensare ad una cosa del genere, leggendo l’intervista di Nicola Scafetta, pubblicata da Il Giornale il 25 ottobre “Se la Terra si surriscalda colpa del Sole: l’uomo non c’entra” . L’articolo sostiene che la nuova teoria proposta da Scafetta avrebbe smascherato “la più colossale bufala del secondo millennio (anche del terzo)” e ci “permetterebbe di vivere tutti felici e contenti”.

Scafetta è un ricercatore della Duke University, una persona con un curriculum scientifico a tutta prova e che pubblica su riviste scientifiche internazionali. Insomma, non è il solito negazionista che ti trovi davanti e che ti spiega che il riscaldamento è tutta colpa del sole dato che “anche Plutone si scalda” (non è un invenzione, è capitato davvero…).

In verità, Scafetta sostiene qualcosa di simile, ovvero che è il sole che causa il cambiamento climatico ma non ti parla di Plutone. Piuttosto fa un’analisi dei dati dell’irradiazione solare che lo porta a quantificare l’effetto del sole come circa due terzi del riscaldamento osservato e non meno del 10% come la maggior parte dei climatologi ritiene. Su questa base, Scafetta sostiene che il riscaldamento dovrebbe arrestarsi perlomeno fino al 2030, in corrispondenza con una fase di minimo dell’attività solare, e ripartire soltanto dopo quella data. Se Scafetta avesse ragione, non sarebbe tanto critico ridurre le emissioni di biossido di carbonio (CO2) e avremmo più tempo per reagire al cambiamento climatico. Sarebbe bello, vero?

Ahimè, dopo aver studiato per un po’ la questione bisogna concludere che, purtroppo, i negazionisti climatici continuano ad avere torto. In questo post e nei prossimi cercheremo di spiegarvi perché.

mercoledì, novembre 11, 2009

Quell'insopportabile baccano delle turbine eoliche



 Stabilimento di produzione Siemens Wind Power (DK). Foto di Francesco Paraggio, www.ventofavorevole.org



Su TheOilDrum* è recentemente comparso un link a un articolo, che riporto sotto, in cui viene trattato l'impatto acustico dei generatori eolici.

 La sostanza è:

- il rumore delle turbine, dovuto al moto aerodinamico delle pale nell'aria, è del tutto confondibile con qualunque rumore dell'ambiente urbano e suburbano
- le turbine emettono un suono a bassa frequenza. Gli esperti di acustica concordano sul fatto che tale rumore non è dannoso per la salute. Se lo fosse, la vita urbana sarebbe impossibile, essendo esposta a ben altri livelli di pressione sonora.

Per la mia limitata esperienza, avendo visto solo un paio di wind farms, posso asserire di non aver avvertito rumori fastidiosi. Le turbine eoliche sono sistemate in zone ventose, il rumore che l'aria fa soffiando sui padiglioni auricolari copre del tutto quello legato alla rotazione delle pale.
Per chi volesse un approccio visivo, qui trovate un link a un video degli impianti funzionanti a Garessio, in provincia di Cuneo. Qui, invece, rilinko un post su un filmato che avevo fatto 1 anno fa a Bezier.
Consiglio anche la lettura di questo post, traduzione di Francesco Paraggio.

Più avanti, magari, faremo un post in cui si parlerà di un'altra leggenda, quella secondo cui le turbine eoliche fanno strage di stormi di uccelli. Stay tuned **.


* Secondo la mia modesta opinione, theoildrum è uno dei siti di punta che dovrebbe avere in linkoteca chiunque voglia capire i meccanismi e le dinamiche degli eventi dei prossimi lustri

** Preoccuparsi di falsi problemi, con la consapevolezza di un possibile crunch energetico ed economico nella prossima decade, è al tempo stesso demenziale ed incredibile. Una vera opera del demonio



The facts about wind turbine sound


By JOHN DUNLOP
Last update: October 11, 2009 - 9:31 AM

I would much rather have a wind turbine farm as a neighbor instead of the guy living on a farm on 280th Street in southern Scott county. He must have 20 some huge white signs set up along the highway claiming wind turbines are evil. Talk about rural blight.
Minnesota is one of the 10 windiest states in the country. It pioneered the new wave of wind power development in the 1990s. Today, it is the state that generates the largest share of its electricity from wind (7.48 percent in 2008, according to American Wind Energy Association), and it ranks fourth in installed wind-power generating capacity, after Texas, Iowa and California. Nationally, wind power has become one of our economy's mainstream electricity sources, accounting for 42 percent of the generating capacity added last year to power homes, offices and businesses. Yet it seems that when new wind farms are proposed, questions are still sometimes raised about the potential impact. We welcome the opportunity to set the record straight, based on the widespread experience that communities and the wind energy industry now have in the United States and across the globe.
Wind turbine sounds are no different from other sounds present in a suburban or urban environment. The sound of a turbine is mainly due to the aerodynamic swish of the blades rotating in the air.
Turbines can also emit some low-frequency sound. Acoustical experts agree there is no evidence that such sounds, which are emitted by a variety of sources, could be harmful to health -- indeed, if these levels were so harmful, urban dwelling would be impossible.
In short, turbine sound is quieter than many ambient sounds and is equally safe, and while some people may be disturbed by even a relatively quiet sound, the reality is that thousands of turbines have been successfully integrated with communities throughout the country.
Wind turbines are one of the most environmentally benign forms of electricity generation and allow most preexisting land uses -- typically ranching and farming -- to continue as before. As many farmers nationwide can attest, cows graze up to the foot of the turbines and on some days even use them for shade. Wind turbines safely operate on schoolyards.
Because turbines operate in so many locations and circumstances, the industry believes setbacks are best assessed on a case-by-case basis. Many permitting agencies have, however, established minimum required setbacks from residences, public roads and adjacent property lines. In instances where no required setbacks have been established, developers will work with local stakeholders during the siting and design phase of a project to determine what's appropriate.
Lights are needed on wind turbines to ensure air traffic safety under Federal Aviation Administration standards. The industry has worked with the FAA to develop guidelines aimed at reducing the number of lights while maintaining air safety. Typically, lights on the turbines around the perimeter of a wind farm will be sufficient.
As our economy grows and as we become ever more dependent on electricity for a range of uses, it's clear that our electricity must come from somewhere. Some of the best winds in the world blow across the American landscape, and installing wind turbines is an efficient way to capture that energy.
A report released just last year by the U.S. Department of Energy confirmed that wind power could generate 20 percent of the nation's electricity by 2030 -- a share as large as that of nuclear power today -- and that this level is not a limit. The report found no technical or macroeconomic barriers. The economic benefits alone include more income for landowners (and thus for communities) and more stability in electricity prices as a larger share of our electricity becomes immune to the impacts of fuel price volatility.
We invite people to stop at a wind farm to see and hear for themselves. You can find projects along Interstate 90 south of Rochester and further west, in southwestern Minnesota northwest of Worthington, or in numerous other spots around the country. Stop, shut off the car, get out, look and listen. You'll hear the gentle swoosh of the blades and see the power of wind in action.
Wind turbines are indeed a change in our landscape. They are the symbol of our clean and healthy energy future.
John Dunlop is a senior project engineer with the American Wind Energy Association.

martedì, novembre 10, 2009

Il caffé ai tempi del picco. Berne meno, per berlo meglio?




created by David Conti


Un rapido battimani e un ragazzo in tunica bianca porta un vassoio con un bricco fumante e alcune tazze. Il servitore versa un liquido scuro, dal profumo intenso e sconosciuto. Guardo Jossèf. Mi parla in fiammingo, la lingua dei remoti giorni di Anversa.
“Proprio l'affare di cui dobbiamo discutere. Assaggialo.”
Un sorso diffidente. Il liquido caldo scende in gola, un sapore forte, leggermente amaro, subito si fa largo una sensazione di vigore e rinnovata acutezza dei sensi. Un sorso più lungo e sulla lingua rimangono i grani posati sul fondo della tazza.
“Buono, ma non capisco...”
“Si chiama qahvè. Si ottiene da una pianta che cresce nelle regioni d'Arabia.”
Il mercante porge un sacchetto di chicchi verdi, Jossèf ne raccoglie una manciata.
“Vengono tostati, macinati in polvere e sono già pronti per l'infuso nell'acqua bollente. In Europa ne andranno pazzi.”

Con questo dialogo, il superbo romanzo del collettivo Luther Blisset, Q, si avviava alla conclusione. Il protagonista, riparato a Venezia dopo incredibili peripezie, gustava per la prima volta una bevanda scura, intensa, misteriosa, proveniente dalle lontane terre d’Arabia: il Caffé.
In 450 anni sono scorsi interi oceani di caffé, intere nazioni sono nate grazie a questa pianta e le menti più illuminate degli ultimi secoli sono state temprate negli eleganti cafés di mezzo mondo.

E oggi? Il mercato del caffé è il classico esempio di come il concetto di trickle down si sia dimostrato un fallimento. I produttori, ovvero i coltivatori o campesinos che dir si voglia, ancora stanno cercando di riprendersi dal crollo dei prezzi del 2003-2004, almeno quelli di loro che non hanno abbandonato le campagne per andare ad ingrossare le file di chi vive di stenti negli agglomerati urbani. Le ragioni di questo crollo sono semplici e molteplici: sovrapproduzione dovuta a nuovi paesi entrati nel mercato globale non accompagnata da una crescita della domanda, insieme all’inesorabile aumento della forbice fra i guadagni degli importatori (l’universo che va dai grossisti o coyotes fino alle multinazionali che commercializzano il prodotto finale) e quelli dei coltivatori.

Tecnicamente, potremmo definire il caffé una commodity, una risorsa che viene scambiata e quotata sui mercati internazionali proprio come il petrolio. Provando invece a considerare il caffé puramente dal lato emozionale, con i suoi riti e la socialità che ne consegue, con le sue proprietà stimolanti tanto bramate da chi si sveglia la mattina, assume così un’importanza seconda solo a quella del carburante per la nostra economia ed a quello per i nostri stomaci.

Ebbene, la risorsa caffé viene importata nel nostro paese al 100%. Non possiamo nemmeno vantarci di avere qualche rigogliosa piantagione in Val d’Agri, niente.
In questi tempi che possiamo definire di post picco, con un Baltic Dry Index agonizzante, siamo proprio sicuri che le moka casalinghe e le macchinette dei bar potranno continuare a servirci questa bevanda? Almeno, a questi prezzi?

Probabilmente non torneremo in tempi brevi all’autarchia del ventennio, quando al posto del caffé ci si accontentava dell’orzo o del caffé di cicoria. Vista però l’elevata meccanizzazione dei processi produttivi adottati dalle multinazionali del caffé, credo che alla lunga, i piccoli produttori di caffé biologico di alta qualità potrebbero raggiungere quella massa critica che consenta loro di aumentare la produzione in modo tale da garantire un adeguato rifornimento verso i paesi occidentali. La molla che potrebbe far scattare questo meccanismo è il prezzo che il consumatore sarà disposto a pagare.

Mentre scrivo è in corso la settimana per il Commercio Equo e Solidale, un’iniziativa su base annuale promossa da un’importante centrale importatrice. Da anni ormai faccio parte di quella piccola, ma in costante crescita, fetta di consumatori che scelgono senza esitazione i prodotti del CEeS, pagando un sovrapprezzo rispetto ai prodotti “commerciali” che si traduce però nella garanzia di un prodotto di qualità superiore e nel sostegno ai piccoli produttori che difendono la biodiversità e l’ambiente.*

E’ prevedibile allora che in un prossimo futuro post picco, il caffé si comporterà come una qualsiasi altra commodity. Ad un calo della produzione si assocerà anche un calo della domanda, con un prezzo stabile tendente verso il basso, giusto? Certo, il caffé è una risorsa rinnovabile, soggetta però a variabili impazzite come i cambiamenti climatici. Ma in tutto questo, come può il consumatore influire su queste dinamiche? Si comprerà meno caffé, certo, ma se se ne comprasse di più buono? Un caffé prodotto nel rispetto dell’ambiente, acquistato con criteri che tutelano il produttore, anche se con un giro d’affari sensibilmente ridotto, può rappresentare la cosiddetta situazione win win, per noi, per chi lo produce, per il pianeta?



* Una confezione di caffé biologico del CEeS da 250 g costa 2,89€ (IVA esclusa). Il 24% del prezzo va alla bottega, il 31,7% alla centrale d’importazione, l’11,3% sono costi accessori, mentre il 32,8% va al produttore, un valore superiore di 3 volte rispetto ai tradizionali caffè. (Fonte: Oxfam)

domenica, novembre 08, 2009

E' tempo di sterminare gli animali domestici?




Pare che i veterinari italiani stiano ricevendo richieste sempre più frequenti di sopprimere cani e gatti perfettamente sani. La gente, semplicemente, non ce la fa più a trovare i soldi per nutrirli. E' in questo clima certamente non simpatico che si inserisce un libro che ha suscitato un certo interesse "Time to eat the dog" ("E' tempo di mangiare il cane") di Brenda e Robert Vale. Secondo quanto riportato nell'articolo di Repubblica che ha dato inizio alla discussione in Italia, gli autori sostengono che un cane di grossa taglia consumerebbe più risorse di una SUV in termini di energia.

E' vero questo? Sono andato a rivedermi i conti e vi posso dire che, sostanzialmente, è una fesseria. Il meglio che possiamo dire è che un cane di grossa taglia nutrito con carne, in effetti, può richiedere una quantità di energia non tanto più piccola di quella di una SUV usata con molta moderazione. A parte l'aver stiracchiato i termini del confronto (per esempio, è raro che i cani siano nutriti a carne) è proprio il concetto che non funziona: non ha senso paragonare l'energia di origine biologica usata da un essere vivente con quella fossile usata da un SUV. Non è neanche un paragonare mele con cipolle, è come paragonare mele con bulloni. Gli autori avrebbero dovuto utilizzare concetti più evoluti, tipo quello di "impronta ecologica". In realtà hanno solo voluto ottenere un risultato un po' eclatante per farsi pubblicità. Questo lo si vede anche dal titolo "E' tempo di mangiare il cane." Messo così, il libro finirà per essere interpretato come una facile scusa per giustificare il possesso di una SUV: in fondo cosa c'è di male? Consuma meno energia di un cane.

Tuttavia, il dato degli autori, pur nei suoi limiti, ci ricorda quanto sia impattante l'agricoltura. E' qualcosa di cui dovremmo tener conto quando si parla con tanta leggerezza di sostituire i combustibili fossili con biocombustibili. In prima approssimazione, usare una SUV alimentata a biocombustibili vuol dire portar via il cibo a una creatura biologica delle dimensioni di un cane. E un essere umano è anche leggermente più grande.

Ma c'è una considerazione ancora più fondamentale. L'intenzione degli autori del libro, secondo quello che si può leggere in proposito, era più che altro di allertarci sullo spreco di cibo da parte degli animali domestici. Si è detto che circa il 10% dell'industria alimentare mondiale è dedicata a nutrire gli animali domestici. Ammesso che sia vero, e probabilmente lo è almeno in parte, si potrebbe saltare alla conclusione che è un imperativo morale sterminare gli animali domestici per dare cibo agli affamati umani. C'è chi, in effetti, ha detto qualcosa di simile a commento del libro.

Ahimé, questo tipo di posizione serve solo a sottolineare l'incapacità umana di ragionare in termini dinamici, ovvero di valutare le conseguenze a lungo termine delle azioni che decidiamo di fare. Potremmo sterminare gli animali domestici e questo porterebbe - forse - ad aumentare del 10% la disponibilità di cibo per gli umani. Di conseguenza, il numero di esseri umani potrebbe aumentare di un ulteriore 10%. Considerando che oggi siamo circa sette miliardi, vorrebbe dire che potremmo aggiungere altre 700 milioni di umani sul pianeta.

E poi? E poi saremmo al punto di prima, solo con 700 milioni di umani in più. Rimarrebbero invariati, ma più gravi, i problemi dell'erosione dei terreni agricoli, della scarsità di fertilizzanti che oggi vengono tutti dal petrolio e di tutti i vari problemi che abbiamo con l'agricoltura. In altre parole, lo sterminio degli animali domestici porterebbe soltanto ad aggravare la condizione di "overshoot" in cui ci troviamo.

Nella pratica, che si veda o no come un imperativo morale lo sterminio degli animali domestici, è probabile che le conseguenze della crisi si abbatteranno prima su di loro che sugli umani. Come dicevo all'inizio di questo post; tenere un cane di media taglia sta diventando costoso e stiamo ritornando verso una condizione che era comune nel passato, ovvero quando solo i ricchi si potevano permettere di avere dei cani. Per i poveri, il massimo possibile era qualche uccello in gabbia e Konrad Lorenz aveva definito il merlo "il cane dei poveri cristi" (cito a memoria, non riesco più a trovare la sorgente, forse non era il merlo ma il tordo). Credo che ben presto arriveremo a qualcosa del genere e forse anche il merlo (o il tordo) rischierà forte di finire in padella.

Credo di poter concludere ricordando una vecchia storia di Isaac Asimov, del 1970, che si intitolava "2430 AD". Qui, Asimov cui descriveva l'uccisione degli ultimi animali esistenti sulla terra. Era un piccolo gruppetto tenuto in uno zoo che veniva eliminato per far posto a una massa equivalente di esseri umani. Nella storia, quelli che decidevano lo sterminio lo descrivevano come il completamento del destino umano: quello di formare tutta la biomassa animale possibile sul pianeta Terra. Qualcuno, sicuramente, interpreta in questo modo il comandamento biblico "crescete e moltiplicatevi"; a mio parere decisamente un po' troppo alla lettera.

God Bless You, Mr. Obama!



www.ansa.it
08 novembre, 08:42

Sanità Usa, si' Camera alla riforma di Obama

WASHINGTON - Decisione storica da parte della Camera degli Stati Uniti: per la prima volta in decenni i deputati americani hanno detto si' alla riforma del sistema sanitario. La Camera, in una rara seduta di sabato conclusasi a notte fonda, ha votato a favore della riforma fortemente voluta dal presidente, Barack Obama. Il testo e' passato nonostante l'opposizione compatta di tutti i deputati repubblicani tranne uno e di un certo numero di deputati democratici moderati: 220 i voti a favore, 215 i contrari.

Affinche' la riforma diventi legge, tuttavia, e' necessario che si esprima anche il Senato, dove la maggioranza democratica non e' affatto data per scontata. Nello stesso tempo, pero', il si' della Camera rappresenta una vittoria politica di straordinaria portata per l'amministrazione Obama. Lo stesso presidente, infatti, nell'imminenza del voto si era recato al Congresso per esortare i deputati ad esprimersi a favore della riforma. E in una dichiarazione successiva aveva aveva parlato di ''momento storico'' per gli Stati Uniti. Le stesse parole erano state usate dalla Speaker della Camera, Nancy Pelosi: ''Oggi - aveva detto - e' una giornata storica per l'America. I nostri pensieri vanno al senatore Ted Kennedy, che era solito definire la riforma sanitaria come il grande lavoro incompiuto del nostro Paese'

'. La riforma prevede la assistenza sanitaria nei confronti di 36 milioni di cittadini americani che attualmente non godono di alcuna copertura. Inoltre prevede in un arco di dieci anni di arrivare a coprire il 96% della popolazione, per un ammontare complessivo di 1.200 miliardi di dollari. Il testo introduce poi una serie di norme restrittive per le compagnie assicurative rispetto al sistema attuale. Non solo prevede di introdurre nel mercato la tanto contestata 'public option', l'opzione pubblica voluta dal governo per 'calmierare' il mercato, ma contiene regole nuove come per esempio l'obbligo da parte dei datori di lavoro di assicurare i loro dipendenti; oppure il divieto nei confronti delle compagnie di assicurazione di negare a clienti la copertura sulla base delle cosiddette ''condizioni mediche preesistenti'', oppure di alzare in misura significativa il prezzo delle polizze nei confronti delle persone piu' anziane.

''Un voto storico'': cosi' il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha definito il passaggio alla Camera della riforma sanitaria.

sabato, novembre 07, 2009

Lo spreco di risorse del trasporto pubblico locale

Fermata dell’autobus di una qualunque città italiana. Una vecchietta infreddolita, uno studente brufoloso e una signora con la sporta della spesa. “E’ mezz’ora che aspetto uno straccio di autobus”, esclama con gli occhi fuori dalle orbite la vecchietta. “E i miei figlioli che aspettano a casa qualcosa da mangiare!”, rincara la dose un’indignata signora. “Non c’è niente da fare”, precisa con l’aria di chi la sa lunga lo studente, “guardate laggiù il nostro autobus fermo in mezzo al traffico tentacolare di questa insopportabile città”. Passano ancora dei minuti e finalmente, emettendo uno stridore infernale e sbuffando fumi e polveri sottili in quantità industriali, l’autobus arriva alla fermata. La porta centrale si apre, vomitando una folla di persone simili a naufraghi che mettono piede sulla terraferma. Dopo alcuni tentativi infruttuosi anche le porte laterali si aprono e la vecchietta per poco ci rimane secca inciampando nel primo degli scomodi gradini. Passa qualche minuto e finalmente l'autobus riparte. Tra gli applausi degli altri viaggiatori, la signora riesce al quarto tentativo a centrare il biglietto nella fessura della macchinetta. All’ennesima frenata del conducente, lo studente, distrattosi meditando sulla dimostrazione del “teorema dei carabinieri”, finisce direttamente tra le braccia di una procace signorina, che lo schiaffeggia davanti a tutti sentendosi molestata. Alla fine del lungo calvario i protagonisti della nostra piccola storia arrivano a destinazione maledicendo il destino cinico e baro che non gli consente di usare l’automobile per i propri spostamenti.

Tutti conoscono i disagi di muoversi nelle nostre città con il mezzo pubblico, esemplificati in precedenza. Non tutti però sono consapevoli dello spreco di risorse economiche alle spalle del contribuente che si nasconde dietro l’inefficienza del sistema di trasporto pubblico italiano.
Anche il 6° rapporto sulla mobilità urbana in Italia di Isfort e Asstra, intitolato “Il dato è tratto. Alla ricerca di un punto di svolta”, mette in evidenza un ulteriore peggioramento delle prestazioni economiche delle aziende di trasporto italiane, che utilizzano prevalentemente mezzi su gomma, a carico del bilancio pubblico. Dal 2002 al 2007 i ricavi da traffico sono ancora diminuiti, dal 29,2% al 27,60%. Come si può vedere chiaramente in questo grafico, cala ancora un parametro molto importante di valutazione dell’efficienza economica, cioè il rapporto tra ricavi da traffico e costi operativi che si attesta a un modesto 30,1%. Anche l’andamento delle compensazioni pubbliche (ben 61,3% dei ricavi), eufemismo con il quale si definisce il pagamento del deficit colossale delle aziende attraverso la tassazione ordinaria, è negativo. In quest’altro grafico potete osservare la continua crescita di tali compensazioni (in Italia a carico delle Regioni), che hanno raggiunto nel 2007 il valore enorme di 4,118 miliardi di euro. A questi soldi andrebbero aggiunti anche i circa 220 milioni pagati di recente dallo Stato per rinnovare i contratti dei lavoratori. Se a questi finanziamenti stanziati ogni anno per ripianare i deficit fallimentari delle aziende, si sommano anche i contributi e le spese dirette in conto esercizio e capitale che, oltre a Stato e Regione, versano a vario titolo sul Trasporto Pubblico Locale anche le Province e i Comuni (se ne avete voglia leggete il Conto Nazionale dei Trasporti) si arriva a un vero e proprio salasso per le finanze pubbliche di circa 10 miliardi di euro. Il Presidente della Commissione Finanze del Senato ha addirittura di recente valutato in circa 15 miliardi l’esborso dello Stato per il Trasporto Pubblico Locale.
I motivi di questa situazione insostenibile sono descritti in questo mio precedente articolo, e risiedono tutti nei limiti intrinseci e strutturali del trasporto collettivo su gomma.

Fermata del tram di una qualunque città del Nord Europa. Un dirigente d’azienda in giacca e cravatta, una mamma con il passeggino, un disabile con la carrozzella, due coniugi anziani, uno studente con la bicicletta. In un silenzio irreale, ferma alla pensilina, in perfetto orario, un lungo e sgargiante tram. Le porte si aprono silenziosamente al livello del marciapiede e, in poco tempo, entrano le persone in attesa con i loro mezzi di trasporto, che trovano abbondante spazio all’interno dei vagoni. Tranne i due coniugi, che all’ultimo momento non salgono sul mezzo. Per comodità del lettore tradurrò in italiano i dialoghi tra i passeggeri. “Te l’avevo detto, rimbambito, di fare i biglietti” dice la vecchina al marito. “Non ti arrabbiare cara”, risponde mite il vecchio, "compro subito i biglietti al distributore, tanto tra tre minuti passa il prossimo tram". Sul tram in partenza, il dirigente d’azienda incontra un collega e gli confessa: “Sai, ho venduto la seconda auto, non mi serviva a nulla, con il tram perdo meno tempo e spendo meno”. “Sì”, risponde l’altro, “ci sto pensando anch’io”. La signora osserva contenta il bimbo nel passeggino che continua a dormire beato e pensa: “Quando lo porto in auto, al primo sobbalzo si sveglia immediatamente”. Lo studente, seduto comodamente, riesce finalmente a risolvere l’equazione differenziale che l’aveva tenuto impegnato tutto il giorno.

I motivi dell’incredibile successo in tutta Europa dei moderni sistemi ferrotranviari sono contenuti in quest’altro mio articolo che si conclude con una proposta per il nostro arretrato paese, finalizzata anche a migliorare i bilanci delle aziende di Trasporto Pubblico Locale e a diminuire gli ingenti trasferimenti dello Stato verso un settore cruciale per la riduzione dei consumi energetici e l'abbattimento delle emissioni di gas serra.