lunedì, agosto 31, 2009

Perché il nucleare è come i comunisti


Per non essere frainteso, comincio subito ripetendo la mia posizione sull'energia nucleare. Non ce l'ho contro il nucleare per ragioni ideologiche, non mi ritengo un "antinuclearista". Semplicemente, credo che ci siano tecnologie migliori e più efficaci del nucleare, ovvero le rinnovabili. Questo post, quindi, deve essere visto come una presa di giro (spero da intendersi come garbata) dei miei colleghi e amici che si definiscono "antinuclearisti":

Mi ricordo che mi diceva mia nonna, tanto tempo fa, "I comunisti mi fanno più paura del diavolo; almeno il diavolo se ti fai il segno della croce se ne va". Sotto molti aspetti, il ragionamento di mia nonna non faceva una grinza. Da quello che ho capito di teologia, il male - ovvero il diavolo - non va inteso come una categoria opposta e simmetrica al bene. Il male è soltanto l'assenza di bene, ovvero di Dio. Da questo deriva l'idea che, facendosi il segno della croce, uno ritorna a Dio e il diavolo scompare. Infatti, non esiste.

I comunisti, invece, all'epoca di mia nonna esistevano, eccome! Oggi, tuttavia, i comunisti hanno raggiunto uno stato di "non esistenza" paragonabile a quello del diavolo. A parte essere utili come spauracchio per qualche politico in cerca di popolarità, non c'è nemmeno bisogno di farsi il segno della croce per farli sparire. Non ce ne sono proprio più.

Ora, ci sono altre categorie di entità che fanno paura ma, come il diavolo e (oggi) i comunisti, forse sono un po' sopravvalutate. Una di queste è l'energia nucleare, vista come il diavolo - o come i comunisti - da molta gente. In effetti, l'energia nucleare ha una caratteristica in comune con i comunisti: quella di essere in declino; probabilmente terminale. I dati sono abbastanza chiari; le oltre 400 centrali esistenti al mondo sono vecchie e fatiscenti. Ci sono enormi problemi di costi, gestione delle scorie, proliferazione, disponibilità di uranio minerale. Fra India, Cina e Russia, si stanno costruendo un numero di centrali appena sufficiente a rimpiazzare quelle che vanno in pensione; ma non per compensare il declino produttivo. Quanto all'espansione che sarebbe necessaria perché il nucleare avesse un effetto sulla crisi mondiale, siamo talmente lontani che non c'è nemmeno da pensarci.

Allora, vale la pena di impegnarsi a dir male di una categoria che tende alla non-esistenza come l'energia nucleare? Qui, un'altra delle cose che si imparano dalle nonne è che il diavolo non si deve nominare, sennò compare. Le categorie "non esistenti", in effetti, possono acquisire una certa solidità, una "quasi-esistenza" se uno ci crede. Un politico di oggi, per esempio, può guadagnare voti e potere menzionando la minaccia comunista come se esistesse per davvero.

Questo vuol dire che se uno non vuol trasformare in realtà certe cose che non gli piacciono, dovrebbe evitare di nominarle troppo. Nel caso del nucleare, se uno proprio non lo vuole, dovrebbe evitare di fare sit-in contro il nucleare, raccogliere firme contro il nucleare, prendere posizione ufficiale contro il nucleare. Tutte cose che, invece, stanno venendo fuori da quella zona ideologico-politica che è quella degli "ambientalisti" che stanno raggiungendo anche loro rapidamente la condizione di non-esistenza tipica del diavolo e dei comunisti.

Forse, per far sparire gli ambientalisti, qualcuno si è fatto il segno della croce tempo fa, ma, più probabilmente si sono auto-condannati alla sparizione per via delle tante fesserie fatte e dette, una delle quali è stata il famoso referendum anti-nucleare del 1987 di cui qualcuno di costoro si vanta ancora. Geniale. Ve lo immaginate un referendum contro il diavolo organizzato dalla Chiesa? E che il Papa se ne vanti?

Quando si recitano le sure del Corano, si comincia dicendo che Dio è misericordioso e caritatevole e non che il diavolo è stronzo e antipatico. Allora, se crediamo che la soluzione ai nostri problemi stia nell'energia rinnovabile, è inutile perdere tempo a dir male del nucleare. Lavoriamo sulle cose esistenti: l'energia rinnovabile, e dimostriamo che funziona. Dopo di che, non ci sarà bisogno di farsi il segno della croce contro il nucleare.

sabato, agosto 29, 2009

Energia elettrica buttata al vento

Ho analizzato nel mio ultimo articolo le principali differenze tra dati provvisori e definitivi di produzione di energia elettrica nel 2008 in Italia, disponibili sul sito di Terna S.p.A. . In genere le differenze tra le due elaborazioni sono marginali e il quadro generale rimane sostanzialmente immutato. Però quest’anno salta agli occhi con molta evidenza un valore molto differente da quello annunciato nell’analisi provvisoria, la produzione di energia eolica. Il dato provvisorio forniva una potenza installata di 3.736 MW e una produzione energetica di 6.637.000 MWh, in quello definitivo la potenza installata cala poco, a circa 3538 MW, ma la produzione subisce un vero crollo a 4.861.300 MWh.. Anche se la tendenza generale rimane in crescita stupisce questa inaspettata battuta d’arresto.
Le conseguenze di questa situazione sono sintetizzate nella tabella allegata in cui ho evidenziato la serie storica (negli ultimi sette anni) di Produzione annua lorda, Potenza efficiente lorda, Ore equivalenti. Per quest’ultimo dato ho ricavato una ipotesi minima e una massima nel cui intervallo si colloca certamente il valore reale dell’anno preso in considerazione. La minima corrisponde all’ ipotesi di nuove installazioni eoliche realizzate tutte all’inizio dell’anno, l’ipotesi massima a installazioni realizzate tutte alla fine dell’anno. Questa approssimazione è necessaria perché, come ho scritto qualche tempo fa in un articolo sul sito di Aspoitalia, i nuovi impianti eolici vengono installati effettivamente nel corso dell’anno, e il calcolo delle loro ore equivalenti dovrebbe avvenire per ogni singolo impianto rapportandolo a una frazione di anno, dato di difficile e oneroso reperimento.
Si può vedere facilmente nel 2008 il crollo delle ore equivalenti sia nell’ipotesi minima che massima, sia rispetto agli anni precedenti, sia rispetto al dato provvisorio di Terna (in celeste).
Cosa può aver causato questa improvvisa tendenza? E’ molto probabile che la revisione al ribasso dei dati di produzione sia dovuta alle interruzioni di potenza eolica operate da Terna negli ultimi tempi per garantire la sicurezza della rete di trasmissione attraverso azioni di modulazione della potenza. In altre parole, molti impianti eolici sono stati costretti a interrompere la produzione di energia elettrica a causa dell’inadeguatezza del sistema di produzione e distribuzione dell’energia in Italia. Infatti, secondo quanto si apprende da questo articolo dell’Anev, “durante l’anno 2008 le azioni di modulazione sono state una costante portando alcuni impianti ad essere limitati nel funzionamento nell’ordine complessivo del 30% rispetto alla potenza nominale, mentre vi sono casi di impianti limitati per oltre il 70% della potenza fino ad alcuni casi in cui la potenza limitata è stata totale, ovvero il 100%; queste limitazioni hanno comportato per periodi limitati il rischio concreto di non consentire il ritorno economico dei progetti e quindi il DEFAULT finanziario con tutte le drammatiche conseguenze possibili.” Inoltre, “a livello nazionale le modulazioni impartite nel corso del 2008 possono essere stimate in oltre 1.000 MW sull’intero territorio nazionale continentale, oltre ad altri 200 MW in Sardegna e sulla base di questi dati è possibile calcolare statisticamente i dati medi di mancata produzione che in maniera cautelativa si attestano su circa 700.000 MWh…”.
Come si può facilmente capire, la questione è molto seria e pone delle domande a cui il decisore politico dovrebbe fornire risposte efficaci di governo. Siamo già vicini al limite di potenza intermittente installabile o si tratta di un eccesso di precauzione da parte di Terna che limita le potenzialità di fonti energetiche strategiche come le rinnovabili? Quali interventi tecnologici in termini di potenziamento e maggiore interconnessione delle reti e di incremento della potenza attiva necessaria a rispondere rapidamente alle variazioni brusche di potenza si intende mettere in atto per accrescere la quota di rinnovabili del sistema nazionale in rapporto agli obiettivi europei? Quali sistemi di stoccaggio dell’energia rinnovabile si intende promuovere e incentivare per dare un futuro a questo settore strategico?
L’unica cosa certa è che bisogna smetterla di far finta che il problema non esista, continuando in un atteggiamento di fiducia messianica nelle rinnovabili che rischia solo di far fallire, attraverso il rinvio, la costruzione di un sistema sostenibile di produzione energetica.

giovedì, agosto 27, 2009

150 anni di petrolio abbondante


Edwin Laurentine Drake

Proponiamo questa traduzione di un post pubblicato oggi su theoildrum, per "celebrare" i 150 anni dalla produzione del primo barile "ufficiale" (FG)


Esattamente centocinquanta anni fa, il 27 agosto 1859, il primo pozzo di petrolio commerciale negli Stati Uniti ha cominciato a produrre. Da allora, il susseguente output petrolifero ha permesso e definito la "civilizzazione moderna".

Questo post è un aggiornamento dello stato dell'arte odierno, in onore di quel giorno - su quanto siamo andati lontani, e sulle nostre sfide immediate.


Breve storia del petrolio

L'Uomo ha usato il petrolio del sottosuolo almeno dal 4000 A.C. Nel Medio Oriente, il petrolio greggio affiorante dalla superficie è stato usato per impermeabilizzare le barche e come adesivo nella costruzione di edifici e di strade. Il petrolio greggio inoltre è stato trattato rudimentalmente in piccole quantità per ottenere olio combustibile (per le lampade e il riscaldamento) nell'antica Cina. Intorno al 600 D.C. , i Bizantini usavano il petrolio greggio per produrre un'arma a "getto di fiamma", conosciuta come "fuoco greco".

L'industria petrolifera moderna è nata come conseguenza della ricerca sull'illuminazione a buon mercato. Fino al 1859, la maggior parte della gente ha ottenuto la luce artificiale bruciando grassi animali sotto forma di candele (cera d'api), oppure bruciando olio di balena.

L'olio di balena, tra tutti i combustibili disponibili, forniva la luce migliore, ed è divenuta nel tempo un prodotto di lusso. Il sovrasfruttamento da pesca ha però condotto ad un decremento demografico della balena e ad un aumento netto dei prezzi dell'olio di balena.

Allo scopo di trarre vantaggio dai prezzi elevati per l'illuminazione, un gruppo degli investitori ha assunto un conduttore ferroviario di nome Edwin Drake, per condurli in un luogo vicino gli avvistati affioramenti petroliferi. Dopo alcune concitate settimane nelle campagne della Pensilvania, Drake trovò la "vena petrolifera" il 27 agosto 1859. Il pozzo, profondo 69 piedi, rendeva intorno ai 15 barili/giorno. Altre persone seguirono Drake per perforare la zona.

Il petrolio che fluiva da questa regione (che divenne nota come Oil Creek, vicino a Titusville, Pennsylvania) diede vita alla moderna industria petrolifera. La nascente industria fu gradualmente consolidata e monopolizzata da un uomo, John D. Rockefeller e dalla sua Standard Oil Company. Nel 1911, Standard Oil fu spaccata da una legislazione anti-monopolistica in alcune parti competenti. ESSO (“SO„ è un retaggio di "Standard Oil"), che successivamente si è trasformato in EXXON, rimane il più noto "figlio" di questa frammentazione.

Fino ai primi anni del 1900 il petrolio non è stato usato per molto altri scopi all'infuori dell'illuminazione. Questo cambiò rapidamente con lo sviluppo in massa delle automobili e degli aeromobili (prodotti in serie): dagli anni '50 il petrolio si è convertito essenzialmente a carburante per il trasporto. Oggi, due terzi del petrolio sono usati per il trasporto, e il terzo restante è usato per la nafta, la plastica e la pavimentazione stradale. Una quantità molto piccola è usata per la produzione di elettricità.

Il successo dell'industria petrolifera nell'individuazione di nuovi giacimenti è sempre stata la sua sfida più grande. I prezzi del petrolio sono rimasto bassi durante i lunghi periodi di surcapacità produttiva.
Standard Oil ha controllato inizialmente la surcapacità degli esordi. Allora, nell'inizio degli anni '30, la Texas Railroad Commission (TRC) e altre imprese più piccole legate al petrolio "subirono" una decisione governativa che imponeva restrizioni nella produzione, per razionalizzare la distribuzione del petrolio nei vari Stati degli USA. Gli USA erano un gigante petrolifero al tempo, e il governo cercò di prevenire fallimenti nell'industria durante la Grande Depressione.

La capacità di determinazione dei prezzi globali di TRC scomparve nel 1970, quando la produzione di petrolio degli Stati Uniti ha cominciato a declinare costantemente. L'OPEC (l'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) è stata formata nel 1960 a Baghdad. Questa nuova organizzazione assunse il ruolo di gestore della surcapacità nel 1971. Oggi, i membri dell'OPEC controllano poco più del 40% della produzione globale di greggio. Mentre i produttori non-OPEC pompano alla massima velocità possibile, membri dell'OPEC a volte riducono la fornitura di petrolio per sostenere i prezzi.
Verso la fine degli anni '70 e '80, il petrolio ha cominciato ad essere scambiato nel mercato dei futures. [...]
Che cos'è il petrolio greggio?
Si tratta di materiali organici quali plancton e alghe che sono stati depositati negli strati sedimentari oceanici e terrestri, nell'arco di molti anni. Contrariamente alla percezione popolare, i dinosauri ed altri grandi animali non hanno contribuito in modo significativo alla formazione del greggio.
Tutte le creature viventi si compongono di elementi quali il Carbonio, l'Idrogeno, l'Ossigeno, l'Azoto, lo Zolfo, il Fosforo, con apporti minori di altri elementi. Il petrolio greggio si compone di questi stessi elementi, oltre che piccoli contributi di materiali inorganici provenienti dai territori circostante i giacimenti. [...]
Il motivo principale che rende il petrolio così pregiato è che le molecole liquide che lo costituiscono liberano rapidamente una grande quantità di energia, una volta bruciate con ossigeno.
Essendo più leggero della roccia circostante, il petrolio greggio formato di recente tende a dirigersi alla superficie in cui si volatilizza o è degradato dai batteri. [...]
Un giacimento di petrolio greggio non assomiglia ad un lago sotterraneo; è invece accumulato fra i grani di sabbia o all'interno di pori molto piccoli della roccia, come una spugna rigida.
Le centinaia di differenti "frazioni" contenute nel petrolio, per essere poter essere utilizzate separatamente, devono essere "bollite" in una raffineria; si ottengono così i diversi prodotti finiti (benzina, diesel, olio combustibile, carburante per aerei, e frazioni residue). Ogni prodotto ha una gamma di temperature d'ebollizione differente.
I due fattori più importanti per le raffinerie sono la densità e il contenuto di Zolfo.
Generalmente, il petrolio meno denso e più leggero è più pregiato, e rende percentuali maggiori di raffinati ad alto valore come la benzina. Anche i petroli greggi pesanti possono essere trattati per fornire prodotti leggeri, ma soltanto al prezzo di processi energivori che "spezzino" le lunghe molecole.
Il petrolio greggio può anche essere classificato in base alla sua acidità (povero, o ricco in Zolfo). Lo Zolfo corrode le condutture i recipienti di metallo degli impianti chimici di raffinazione. Inoltre si trasforma in in una sostanza inquinante una volta bruciato. Le raffinerie devono usare metodi costosi per rimuovere lo zolfo dai prodotti quale benzina e diesel.
Il futuro
Le scoperte globali di nuovi giacimenti sono declinate costantemente dall'inizio degli anni '60, malgrado il periodi di prezzi elevati e gli avanzamenti nella tecnologia di produzione e di esplorazione. Il deficit è arrivato al punto che ad oggi stiamo consumando una quantità di petrolio ad una velocità circa tripla di quella con cui riusciamo a trovare nuovi giacimenti.

Il tasso corrente della fornitura di petrolio quotidiana (intorno 85 milione barili al giorno) sta diventando sempre più difficile e più costoso da sostenere. Fra il settembre 2005 ed il luglio 2008 che il mercato petrolifero globale non è più stato in grado di aumentare la sua capacità [...].

I prezzi del petrolio sono arrivati ad un picco di 147 $/barile nel 2008, allo scopo di contrastare la crescita della domanda: la prima diminuzione annuale nella richiesta di petrolio dall'inizio degli anni 80 ha cominciato ad avvenire.
Molti, compresa l'Agenzia Internazionale per l'Energia dell'OCSE (IEA), prevedono un altro “scricchiolio„ nelle forniture fra la fine del 2010 e il 2012, in funzione di quanto si riprenderà la domanda globale.

Osservando ancora oltre, il deficit nelle nuove scoperte è ora così grande che l'IEA stima un fabbisogno dell'equivalente di sei nuove "Arabia Saudita" che dovrebbero essere messe a disposizione, se si vuole "incontrare" la domanda stimata nel 2030 (richiedente investimenti complessivi per 26.000 miliardi di dollari).

Come Edwin Drake ed il suo perforatore “zio Billy„ la mattina del 27 agosto 1859, a meno che il comportamento dei consumatori cambi, l'industria petrolifera ha molto lavoro da fare.

martedì, agosto 25, 2009

Da dove viene l'energia elettrica prodotta in Italia nel 2008

Il grafico che vedete qui accanto rappresenta la suddivisione per fonte del Consumo Interno Lordo di Energia Elettrica in Italia nel 2008. I dati statistici definitivi con cui ho costruito il grafico, sono disponibili sul sito di Terna s.p.a.. Rispetto ai dati provvisori pubblicati da Terna qualche mese fa, non si registrano sostanziali differenze, ma qualche leggera modifica che è opportuno segnalare.
Innanzitutto, preciso quali assunzioni nell’aggregazione dei dati Terna sono alla base delle mie elaborazioni:
1) Il Consumo Interno Lordo (la somma della produzione nazionale lorda e del saldo con l’estero) è considerato al lordo dei pompaggi, cioè quella quota di produzione idroelettrica che si ottiene pompando negli invasi idroelettrici, durante le ore notturne di minore richiesta, una parte delle acque di valle da utilizzare nei momenti di picco dei consumi elettrici. I dati storici italiani del Consumo Interno Lordo, disponibili sempre sul sito di Terna, sono costruiti su questa assunzione. Perciò, anche se quest’anno i documenti di Terna fanno riferimento al Consumo Interno Lordo al netto dei pompaggi, ho ritenuto di operare in continuità con le mie elaborazioni precedenti.
2) Per questo motivo, la quota di rinnovabili da me calcolata, 18,2% è leggermente diversa da quella indicata da Terna in 16,9%. La differenza è proprio l’energia ricavata tramite pompaggi.
3) La quota di produzione termoelettrica da gas naturale è ottenuta considerando anche i derivati del gas naturale.
4) La quota di termoelettrico da altri combustibili è depurata delle biomasse agricole e forestali e dai rifiuti, che sono inserite ovviamente nelle rinnovabili. A tale proposito, come ho precisato anche in precedenti articoli, bisognerebbe scorporare da questa quota la parte dei rifiuti contenenti plastiche, ma la differenza sarebbe poco significativa.

Rispetto ai dati provvisori, quelli definitivi ridimensionano in parte l’elemento più significativo consistente nella riduzione, rispetto all’anno precedente, del Consumo Interno Lordo. Infatti, dai 360,2 TWh del 2007, si passa ai 359,2 TWh invece che ai 357,4 Twh dei dati provvisori. Rimane però il dato storico di una tendenza prolungata al calo dei consumi, considerato che già nei primi sei mesi del 2009 abbiamo evidenziato un calo vertiginoso del Consumo Interno Lordo.
Tutte le altre tendenze segnalate nel mio precedente commento ai dati Terna sono confermate:
Continua la tendenza verso una sempre più marginale (5,3%) dipendenza dal petrolio della produzione termoelettrica, la conferma del ricorso al gas naturale come principale fonte di produzione termoelettrica, che raggiunge quasi il 50%, un contributo stabile dei combustibili solidi (carbone), ma si registra una riduzione apprezzabile del saldo tra import ed export (principalmente energia nucleare proveniente dalla Francia) e un sensibile aumento (+ 2,9%) del peso delle rinnovabili determinato da una crescita della produzione idroelettrica, da 32815 GWh a 41623 GWh (+ 26,8%), dovuta a un inverno più piovoso, e da un’ulteriore crescita dell’eolico, da 4035 GWh a 4861 GWh (+ 20,5%). Questo aumento risulta molto più contenuto di quello registrato nei dati provvisori e cercheremo di individuarne i motivi in un prossimo commento. Allego infine, per un agevole confronto, lo stesso grafico relativo al 2007.

domenica, agosto 23, 2009

Sotto la neve pane



created by Silvano Molfese




A metà aprile di quest’anno dalle fontane l’acqua usciva ad una pressione molto elevata



In montagna, con la calura estiva, bere l’acqua fresca alla sorgente è un gran sollievo e quest' anno, in piena estate, dalle sorgenti sgorgava acqua in abbondanza.
La neve si è fatta vedere questo inverno e sulle cime dell’Appennino il manto nevoso si è conservato più a lungo.
Chi, dopo anni, rivede il paesaggio innevato rimane estasiato per la nevosa bellezza dei luoghi e per il silenzio ovattato (concedetemi questa licenza poetica).
Anche se c’è qualche inconveniente per pedoni ed automobilisti, gonfiato talvolta su giornali e TV, i vantaggi materiali di una consistente nevicata sono di gran lunga superiori ai momentanei disagi.

Due proverbi della civiltà contadina sintetizzano efficacemente l’importanza della neve. Uno dice: “Sotto la neve pane, sotto l’acqua fame” e l’altro recita cosi: “Sotto la neve pane, sopra la neve fame”.





La neve ingloba aria: mediamente su dieci parti di neve una è costituita da acqua e le altre nove parti sono costituite da aria.
Un manto nevoso alto un metro corrisponde ad una pioggia di 100 mm e su un m2 occupa un volume pari a 100 litri di acqua.
La neve è una fondamentale riserva idrica: sciogliendosi lentamente favorisce l’assorbimento dell’acqua da parte del terreno.

Sul terreno in pendio, l’acqua proveniente dalle precipitazioni nevose verrà in gran parte assorbita dal suolo con notevole vantaggio per la vegetazione. Se l’identica quantità di acqua cadesse sotto forma di pioggia sullo stesso suolo, una minore percentuale di acqua verrebbe trattenuta dal terreno.
Sui terreni di piano la neve, sciogliendosi gradualmente, permette una percolazione profonda dell’acqua: sarà nullo o molto ridotto il rischio di ristagno idrico rispetto alla stessa quantità di acqua piovana caduta sullo stesso suolo.
L’aria intrappolata nei fiocchi di neve funge da isolante termico: protegge le piantine dalle escursioni termiche, dal vento gelido, trattiene il calore proveniente dal terreno e cosi i germogli possono resistere al freddo invernale.
Luigi Giardini descrive un effetto indiretto della neve: nelle zone a rischio di gelate tardive, rallentando la ripresa vegetativa delle colture, limita i danni prodotti da queste gelate ai giovani germogli. (Agronomia generale, Patron 1982, II edizione, pag. 53).

Ipotizzando una copertura nevosa estesa su 5 milioni di ettari (corrisponde a poco meno del 50% della superficie italiana classificata come montagna) avente in media una altezza di un metro avremmo 5 miliardi di m3 di acqua (5 Gm3 ). Una tale quantità è sufficiente al fabbisogno idrico delle colture praticate in Italia?
Facciamo un esempio con i cereali che sono alimento base. Per ottenere una sola tonnellata di cereali occorrono in toto ben 1.000 tonnellate di acqua ovvero 1.000 m3 (*). In base ai dati ISTAT, nel triennio 2005-2007, la produzione media italiana di cereali è stata di circa 20,2 milioni di tonnellate e, nello stesso periodo, in media, abbiamo importato circa 8,7 milioni di tonnellate di cereali. Quindi, sulla base dell’ipotetica quantità di neve caduta, possiamo supporre che viene soddisfatto il fabbisogno idrico complessivo di 5 milioni di tonnellate di cereali. Importare il 30 % del nostro fabbisogno in cereali significa importare ben 8,7 Gm3 di acqua.

In agricoltura il fabbisogno idrico è molto elevato e la neve, a tempo debito, è una componente molto vantaggiosa per le colture: una ragione in più per ridurre drasticamente le emissioni dei gas serra che, riducendo la nevosità, mettono a rischio la nostra sicurezza alimentare.

Quando i fiocchi di neve cadendo uno dopo l’altro, coprono come un bianco mantello montagne e pianure della bella Italia, pensiamo quanto sia importante la neve nel saziare il nostro appetito.

(*) Sandra Postel, 2000 – State of the World 2000, Ed. Ambiente – pag. 69;
Lester Brown, 2001 – State of the World 2001, Ed. Ambiente – pag. 84.

venerdì, agosto 21, 2009

Viva l'Italia

Umberto Bossi ama il turpiloquio e le canottiere. Difficilmente eviterebbe la bocciatura in storia anche in una scuola permissiva come la nostra. Ma forse finge di non conoscere la storia, in perfetto stile machiavellico, tipica prerogativa dei politici italiani.
Il Risorgimento italiano fu fatto in gran parte da uomini del nord, intrisi di ideali di libertà, indipendenza ed eguaglianza che gli italiani moderni educati solo a valori materiali forse stentano a comprendere. Camillo Benso, Conte di Cavour, era un piemontese che faticava a parlare l’italiano, Giuseppe Mazzini era un ligure integerrimo e Giuseppe Garibaldi proveniva addirittura dalla non più italiana Nizza, quando iniziò l’entusiasmante spedizione dei Mille, composta in gran parte da lombardi e piemontesi, per liberare il meridione dal giogo straniero dei Borbone e consegnarlo all’Unità d’Italia.
Il tricolore nacque con la Repubblica Cispadana durante le guerre d’Indipendenza e divenne poi la bandiera della Repubblica Cisalpina e infine quella dello Stato unitario, sventolando in tutta Italia su ogni barricata innalzata contro l’invasore. L’inno musicato dal genovese Michele Novaro, fu scritto nel 1847 da un altro genovese, Goffredo Mameli, nobile figura di patriota morto alla giovane età di 23 anni nella strenua difesa della gloriosa Repubblica Romana. Le sue note risuonarono immediatamente in ogni luogo dove si combatteva per l’Italia, fu cantato poi nelle trincee della prima guerra mondiale dove l’ “inutile strage” annientò un’intera generazione di italiani e distrusse una futura classe dirigente di brillanti giovani ufficiali, echeggiò tra le truppe della Resistenza e delle Brigate Garibaldi che contribuirono a riscattare il paese dalle vergogne e dagli errori del fascismo, fu intonato durante i lavori della Costituente e infine divenne inno ufficiale “definitivamente provvisorio” con la nuova Costituzione repubblicana. Del resto, lo stesso “Va pensiero” verdiano di cui si fregia il “senatur” fu creato per incarnare il sogno patriottico di una sola Italia dalle Alpi alla Sicilia.
E ora, tutte queste speranze, sacrifici e sofferenze dovrebbero essere cancellate per soddisfare il sogno antistorico secessionista di una forza politica miope ed egoistica? Confesso che mi verrebbe di rispondere con un improperio in stile bossiano, ma preferisco una parola tipicamente risorgimentale: “Giammai!”
Purtroppo, una destra e una sinistra senza più radici e valori, invece di condannare incondizionatamente l’ideologia leghista, mostrano invece subalternità culturale e contiguità politica, in nome del potere e di una chimera (anche qui evito a fatica il gergo bossiano) chiamata federalismo e, moderni apprendisti stregoni, già hanno iniziato a pasticciare con la Costituzione. Un’organizzazione federale dello Stato poteva avere un senso nella versione seria di Carlo Cattaneo, al momento dell’Unità d’Italia, in un paese arretrato, con profonde differenze economiche e sociali, con solo il 5% della popolazione che parlava italiano e con strutture amministrative diverse nelle zone degli Stati pre-unitari.
Ma ora, per fortuna, usando un’espressione celebre attribuita a Massimo D’Azeglio, “gli italiani sono stati fatti”. La scuola e la televisione hanno quasi completamente unificato il linguaggio nazionale, profonde dinamiche economiche e sociali hanno integrato socialmente e culturalmente la popolazione italiana, basti pensare ai milioni di emigranti meridionali che con il proprio lavoro hanno contribuito alla crescita economica del nord e del paese, l’articolazione amministrativa dello Stato è ormai collaudata.
Certo, permane negli italiani uno scarso senso dello Stato e un’identità nazionale “debole”, conseguenze di un processo unitario, e non poteva storicamente essere diversamente, portato avanti solo da un’elite, senza l’apporto delle masse contadine indifferenti che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione italiana dell’epoca. Un’analisi delle responsabilità “esterne” di questa situazione richiederebbe troppo spazio. Ma, anche per questo, sarebbe necessario potenziare e non indebolire l’assetto centrale dello Stato, il suo ruolo di programmazione nazionale in un’ottica di collaborazione con il governo locale che garantisca l’unitarietà degli indirizzi generali.
Anche una riflessione critica sulla configurazione amministrativa degli stati dal punto di vista della sostenibilità dello sviluppo, dovrebbe condurre a una rivalutazione dell’importanza dello Stato italiano unitario. Herman Daly, il noto economista ecologista, teorico della stazionarietà dello sviluppo, individua proprio nello Stato nazionale il livello ottimale per una gestione sostenibile delle risorse. Ad esempio, è stato calcolato che l’Italia potrebbe garantirsi solo sull’intero territorio nazionale la quasi completa autosufficienza alimentare. Ed è evidente che proprio la mancanza di un ruolo deciso dello Stato rappresenti uno dei motivi dell’inefficacia attuale delle politiche ambientali.
Concluderei con un suggerimento, la lettura di questo bellissimo articolo di Vittorio Messori sulla “democraticità” della lingua italiana e con un ammonimento, contenuto in alcune parole ancora straordinariamente attuali della seconda strofa dell’inno nazionale: “Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”.

mercoledì, agosto 19, 2009

La decadenza delle rese agricole e la decadenza dell'Impero Romano

Immagine: mosaico Villa Imperiale del Casale, Sicilia.


created by Eugenio Saraceno


Prendo spunto da un precedente ottimo post di Ugo Bardi che individua nella disfatta di Teutoburgo l'inizio della fine dell'impero. Qualche commentatore ha storto la bocca ricordando che dopo quella disavventura vi furono decine di altre campagne vittoriose e conquiste imponenti, basti pensare a Traiano e la Dacia. Ovviamente citare Teutoburgo è una iperbole per dire che la Germania è stato il primo terreno di conquista dove il bottino di guerra non valeva le spese della campagna, in seguito le legioni rinunciarono a priori ad una impresa simile in Irlanda, pur avendovi una testa di ponte (utilizzata a scopi solamente commerciali sembra) ed essendo attestati in forze a breve distanza oltre il canale di San Giorgio. Lo stesso valse per la Scozia.

Tuttavia la Germania (potremmo parlare di Europa centroorientale, l'aerale germanico in epoca classica arrivava al Mar Nero) fu anche una risorsa per l'impero, in particolare per il commercio (specialmente di schiavi) e per il gran numero di mercenari assunti in servizio nelle legioni, alcuni dei quali furono valenti generali come Stilicone. Il contributo della Germania alla sopravvivenza dell'Impero romano fu essenziale tanto che poi proprio dalla dissoluzione del mosaico germanico ad opera degli Unni nascono le premesse per la fine politica dell'impero.

Parlo di fine politica perchè in realtà la fine economica era già giunta da tempo e l'unità politica non poteva sopravvivere a lungo alla fine della sua base economica, mentre la realtà culturale è sopravvissuta molto più a lungo, ancora oggi. In realtà nel 476 dc non si può parlare seriamente di fine di alcunchè; Odoacre e poi Teodorico furono a tutti gli effetti, limitatamente all'Italia e poco oltre, imperatori dei romani se non imperatori romani, ne proseguirono la politica, ne adottarono la capitale Ravenna, ebbero a che vedersela contro i barbari e contro i Romani d'oriente. La ragione della deposizione di Romolo Augustolo fu semplicemente il fatto che in Italia, al contrario delle altre ex provincie occidentali, (Gallia, Spagna) ai barbari invasori, (franchi, visigoti etc) non furono concessi il terzo delle terre poichè sarebbe stata una umiliazione insopportabile per la corte ravennate. Pertanto Odoacre, un capo dei mercenari al soldo dell'impero, decise di porre fine a quell'istituto formale, rimettendo peraltro le insegne imperiali d'occidente a Costantinopoli, con la buona scusa che l'impero doveva essere di nuovo uno solo, in cambio veniva nominato Patricius da Costantinopoli, imperatore non gli era concesso per le sue origini.
Dunque Odoacre agiva da cesare d'occidente de facto e si poneva sotto l'autorità morale di Costantinopoli, anche se poi è da vedere quanto questa fosse effettiva.

L'arrivo dei Goti di Teodorico non fa altro che istituzionalizzare l'imperatore romano-germanico e nonostante l'intervento di Costantinopoli con la disastrosa guerra greco-gotica l'Italia era destinata ad essere un regno romano-germanico tant'è che i greci non riescono a mantenere le proprie posizioni su gran parte della penisola lasciando poi spazio ai longobardi.

Cosa erano i regni romano germanici se non evoluzioni di quello che già era l'assetto politico economico del tardo impero ovvero la signoria protofeudale delle grandi villae e dei loro domini. La concessione del terzo delle terre agli invasori germanici significò semplicemente la cooptazione dei capi di questi ultimi nell'aristocrazia terriera romana tardoimperiale quella dei domini, grandi signori terrieri che negli ultimi tempi dell'impero erano de facto indipendenti. in cambio di queste terre gli invasori si impegnavano a rispettare usi e costumi dei locali (doppio diritto, romano per i romani e barbarico per i germani) e a fornire il nerbo della milizia. Del resto non lo facevano per bontà d'animo ma se volevano mantenere il controllo di un territorio, e non solo razziarlo e poi abbandonarlo, essendo relativamente pochi rispetto alla popolazione romana non avevano molte altre scelte. Il tutto funzionava meglio se al posto di una corte imperiale imbelle e sprecona ma romana doc c'era un re germanico che si occupava della guerra e di controllare i signori terrieri, i domini.

Vale la pena di approfondire la figura del dominus e l'evoluzione di questo ceto latifondista tanto potente all'interno delle sue terre da oscurare l'autorità dell'imperatore e da fornire un appellativo addirittura a Dio, cui spesso ci si rivolse come Dominus; presso un dominus i liberi contadini si rifugiavano dall'oppressione fiscale e burocratica del tardo impero, nonchè dalle scorrerie barbariche (gli eserciti barbarici non erano numerosi e puntavano decisamente verso le città ma dovevano essere molto meno ansiosi di saccheggiare le villae fortificate di un dominus, specie se questi li lasciava passare, concedeva un tributo e non li attaccava con le sue milizie private); molti contadini liberi preferivano diventare coloni di un dominus che continuare ad essere liberi in una situazione tanto precaria. Il dominus dava loro protezione ed un mansus, un terreno da coltivare e pretendeva un canone. Il dominus era anche il prestatore naturale per i suoi coloni e la conseguenza quasi sicura era divenire servi per debiti alla prima annata di carestia, il debito era difficile da estinguere con le basse rese dell'epoca e pertanto la servitù era a vita ed ereditaria, da qui nasce la servitù della gleba.

Di converso gli schiavi del latifondo scomparvero gradualmente diventando anch'essi coloni e servi tenutari di un mansus, confondendosi poi con gli ex liberi e diventando una unica classe di villici. E'in questo processo di convergenza delle classi inferiori e degli schiavi verso la comune servitù della gleba al servizio del dominus che leggo la vera fine dell'impero romano classico e certamente c'entra qualcosa l'EROEI, in questo caso l'eroei della produzione agricola o resa di energia del prodotto agricolo diviso l'energia impiegata per coltivarlo (in termini di cibo e legno consumato dai lavoratori e dagli animali da lavoro).

La società schiavistica classica esisteva grazie alla buona resa agricola ed alla disponibilità di schiavi a buon mercato dalle razzie delle provincie conquistate in epoca tardo repubblicana. Vi erano tanti schiavi e tante terre produttive che era semplice diventare straricchi mettendo tanti schiavi a lavorare se si aveva tanta terra. Eco di questa antica bolla economica è in Catone, in Cicerone e molti altri autori repubblicani che ne parlano come di un normale business, Catone consiglia di vendere gli schiavi anziani o malati e di non andare troppo per il sottile con loro. Il fatto che si potesse disporre di tanti schiavi e divenire tanto ricchi significa che comunque l'inefficienza della gestione schiavile nelle campagne poteva essere compensata appunto dalle buone rese e da qualche pratica non troppo umana di sbarazzarsi di quelli palesemente improduttivi; ciò non garantiva che la produttività di ciascuno schiavo fosse ottimale. Gli schiavi comunque dovevano essere sostentati, si narra che in Sicilia, dopo la conquista della Siria vi fossero tanti schiavi siriaci e che alcuni padroni non li sostentassero lasciandoli vagare nelle campagne (altrui) a far razzie. Ciò presto degenerò in un grave problema di ordine pubblico per cui vi furono le grandi rivolte servili e le relative repressioni; prima quelle siciliane e poi le ben più note capeggiate da Spartacus.

Vi era chiaramente un surplus di schiavi improduttivi, anzi distruttivi eppure l'economia dell'epoca andava a gonfie vele. Nei secoli successivi vi furono meno schiavi meglio gestiti eppure, già all'epoca di Nerone, Columella nel suo De Agricultura si lamenta ampiamente della qualità del lavoro schiavile nei latifondi, schernendo coloro che incolpavano della riduzione delle rese agricole il troppo sfruttamento della terra nei secoli passati. Secondo Columella era tutta colpa degli schiavi maldestri e pigri. Meglio avere dei coloni, in particolare per alcune colture, sono più produttivi afferma il nostro autore, e comunque se si hanno degli schiavi meglio trattarli in modo più umano per stimolarne la produttività, ed essere presenti sul latifondo a controllare ed a gestire altrimenti tutto andrebbe a rotoli. Un latifondista repubblicano avrebbe delegato tutta la gestione del latifondo ad un suo sovrintendente e sarebbe restato a Roma a fare una vita elegante, non si sarebbe mai preoccupato che la terra potesse essere gestita male, la terra in quei tempi era ricchezza per definizione, piuttosto gli ultraricchi proprietari terrieri contemporanei di Cicerone rischiavano molto di più di impoverirsi per investimenti sbagliati, come ad esempio finanziare il politico sbagliato in vista delle elezioni.

Si è affermato da più parti che la fine della disponibilità di schiavi dalle campagne militari abbia provocato la crisi dell'impero; vi sono numerosi argomenti che contraddicono questa tesi.

* Il commercio di schiavi razziati da barbari nelle terre barbariche (ma anche in quelle romane) e venduti nelle città di frontiera romane era fiorente anche durante il tardo impero, questi potevano essere tramite Reno e Danubio trasportati velocemente ed a basso costo per nave sui mercati delle provincie. Non era certo necessario mobilitare delle legioni per andare a catturare schiavi quando le rivalità tra tribù barbariche sfociavano in frequenti guerre e razzie di schiavi che potevano essere venduti ai romani; ciò era conveniente per tutti, i proprietari romani potevano acquistare schiavi a prezzo accessibile ed i barbari si disfacevano dei loro nemici che non avrebbero potuto utilizzare come servi per la diversa organizzazione dell'economia.

* gli schiavi si riproducevano generando nuovi schiavi; Columella ed altri autori si profondono in consigli per favorire la riproduzione degli schiavi, anche concedendo notevoli privilegi alle schiave con prole numerosa (si fa per dire ma l'esenzione dal lavoro per una schiava è già notevole)

* era molto frequente fin dall'età repubblicana che gli schiavi più abili venissero manomessi ovvero liberati; la ragione era che il liberto doveva al suo ex padrone un tributo periodico ma la sua produttività aumentava notevolmente in quanto poteva realizzare dei guadagni propri. L'effetto finale per l'ex padrone era ricevere sotto forma di tributo più di quanto il lavoro dell'ex schiavo fruttava prima della sua manomissione, inoltre il liberto non doveva più essere mantenuto, diveniva cliente e spesso poteva/doveva aiutare l'ex padrone.

* In oriente la società schiavile era meno sviluppata basandosi principalmente l'economia su rapporti di dipendenza simili alla servitù; eppure l'economia orientale fu meno soggetta a crisi di quella occidentale basata in gran parte sul lavoro schiavile; ciò è avvalorato ampiamente dal fatto che l'impero d'oriente sopravvisse politicamente più a lungo di quello d'occidente avendo una economia più efficiente che permise più a lungo di sostenere le istituzioni imperiali e militari oltre al fatto che l'occidente dovette presto imitare le pratiche produttive d'oriente.


Tornando all'opera di Columella e considerando gli argomenti sopra riportati viene da chiedersi per quale ragione i latifondisti repubblicani diventassero straricchi senza alcuna gestione particolare della terra, usando solo schiavi e non i più produttivi coloni, mentre i latifondisti del I e II secolo si lamentano del lavoro schiavile e cercano contromisure per aumentare la produttività?

Possibile che gli schiavi all'epoca repubblicana fossero stati diligenti e produttivi mentre ai tempi di Nerone pigri e maldestri tanto da essere accusati di aver "rovinato" la terra e causato rese decrescenti. Più probabile che avessero ragione coloro che Columella deride, i disfattisti che affermavano il degrado della terra, un tempo molto più fertile, essere dovuto al troppo sfruttamento dei secoli passati, reso possibile dalla copiosa disponibilità di manodopera schiavile.

Una disputa che è ancora molto attuale oggi tra chi vede le cause del degrado economico nell'impoverimento delle risorse del pianeta e chi tende a dare la colpa a determinate categorie di attori, gli immigrati fannulloni e delinquenti, gli arabi ingordi di petrodollari, i russi cattivi e gli speculatori cinici.

Oggi come allora si cerca di ovviare al declino economico aumentando l'efficienza del processo, Tuttavia aziende iperefficienti, avendo tagliato tutti i costi possibili, sfruttato il lavoro precario e licenziato il personale inutile spremono oggi magri profitti rispetto ad aziende ipertrofiche di soli 20-30 anni fa, gravate di masse di personale ipergarantito. Allora si ovviò facendo a meno degli schiavi che dovevano essere sostentati anche in caso di bassa resa, optando per i coloni che garantivano un canone d'affitto e una resa costante al proprietario. Il decremento delle rese si scaricava direttamente sui coloni che dovevano comunque garantire il canone. Qualora non vi riuscissero non avevano diritto ad un sostentamento e dovevano fare debiti col proprietario per onorare quanto dovuto a lui stesso ed in pratica ne divenivano servi ovvero oltre al canone dovevano gli interessi e li ripagavano eventualmente con prestazioni lavorative extra o altri favori detti corvate (le corvèè dei servi della gleba medioevali).

Questa secondo me la vera chiave di lettura della decadenza dell'impero romano, se la resa decrescente delle campagne militari di conquista ne fermò l'espansione, la resa decrescente della produzione agricola ne ostacolò la conservazione. Quando la resa delle produzioni agricole fu troppo bassa i contadini ed i latifondisti iniziarono a riorganizzarsi nelle villae ad economia curtense servile, questa riorganizzazione economica comportò sia un impoverimento dei liberi agricoltori, un tempo nerbo elettorale e militare della repubblica, che un minore afflusso di tasse verso le istituzioni imperiali perchè i piccoli contadini, divenendo coloni e protetti del dominus non esponevano più il loro reddito al fisco. Gli esattori avevano lavoro facile se dovevano andare ad esigere i tributi da una famiglia di piccoli coltivatori, molto meno facile andare a pretendere il dovuto da un grande latifondista o da un suo colono. Per contro i coloni dovevano un canone al dominus garantendo comunque e sempre il reddito del dominus anche al ridursi delle rese. L'effetto fu un rafforzamento della grande aristocrazia terriera ai danni dei piccoli coltivatori e dell'istituzione imperiale che perse via via le sue strutture più onerose, quella militare in primo luogo, ovviando con risorse sempre meno costose ed affidabili (perchè pagate sempre meno) come i mercenari germanici e in seguito unni; poi la stessa sovrastruttura burocratica imperiale fu sostituita dalla più snella istituzione del regno romano barbarico, tutto si fece più piccolo ed agile, le entità politiche, gli eserciti, le città (che dovevano essere comunque sostentate dal contado ed era impossibile rifornire una città se non con derrate reperibili entro 20-30 km di raggio, a meno che la città non fosse raggiungibile via acqua e il percorso non fosse infestato di pirati).

Rimasero fiorenti solo le città che avevano tali caratteristiche, non a caso i re barbarici si insediarono nel nord Italia dove il trasporto fluviale nel bacino del Po garantiva rifornimenti stabili e città una volta minori come Pavia e Verona si trovarono ad essere capitali mentre Roma pur avendo il porto sul Tevere non poteva più ricevere facilmente rifornimenti essendo il Tirreno infestato dai pirati vandali e scese dal milione di abitanti della sua massima espansione ai 10.000 dell'alto medioevo). Le infrastrutture furono manutenute solo dove strettamente necessario e lasciate in rovina altrove, gli edifici, smontati pezzo per pezzo per costruirne altri limitrofi risparmiando l'oneroso trasporto di nuove pietre dalle lontane cave. Si narra che uno degli ultimi imperatori d'occidente, per pagare i mercenari dovette far grattare i residui di dorature da alcuni edifici di Roma un tempo ricoperti d'oro, ma il colmo fu che si dovettero grattare i residui "dimenticati" dai saccheggiatori goti di Alarico e poi dai successivi vandali di Genserico.

Anche il reperimento delle risorse minerali dovette snellirsi alquanto, non più lontane miniere, presidiate da costose legioni, ma ferro e piombo recuperati rispettivamente dalle graffe metalliche utilizzate un tempo per rafforzare i grandi edifici pubblici o per assicurarvi le lastre di travertino e dai tubi del sistema di approvigionamento idrico. I numerosi fori, della grandezza di un pugno praticati sul colosseo in precisi punti di giuntura tra due pietre stanno a ricordarci oltre 15 secoli dopo questa antica crisi da sovrasfruttamento delle risorse e i suoi drammatici esiti su quella civiltà.

lunedì, agosto 17, 2009

Ma cosa state combinando in Italia?

Questo post riporta un dialogo che si è svolto fra me e Nate Hagens quando è venuto a trovarmi a Sesto Fiorentino. La foto - trovata su internet - è di un altro posto, ma illustra bene la scena.

Nate Hagens: Ma cosa stanno costruendo, laggiù?
Ugo Bardi: Appartamenti.
NH: Ma così tanti?
UB: Eh, beh... sembra di si.
NH: Ma la popolazione, in Italia, aumenta molto?
UB: Un poco, ma tende a stabilizzarsi.
NH: Ma allora chi ci verrà ad abitare?
UB: Me lo domando anch'io.
NH: Sai, in America facevano così fino all'anno scorso.
UB: Appartamenti?
NH: Si, appartamenti.
UB: E ora?
NH: Li hanno lasciati a metà. Le gru sono ancora li'.
UB: Ah......

venerdì, agosto 14, 2009

Euclide e le assurdità primordiali


Chi per studio, lavoro o per semplice passione si occupa di algebra, molto presto si trova di fronte al teorema sull'infinità dei numeri primi, quei numeri che risultano divisibili soltanto per se stessi e per 1. Ad esempio 1,2,3,5,7,11,13,17, ...

Per quanto aridi possano sembrare, sono i mattoni dell'aritmetica e su di essi si basa l'intera Teoria dei Numeri. Senza di essi e senza la scienza pura e computazionale al loro contorno, sarebbe impossibile leggere DVD, e soprattutto non si potrebbero fare transazioni finanziarie telematiche sicure (nonchè una miriade di altre cose che diamo per scontate).

Gli antichi Greci si erano già occupati di questi numeri; al punto che il teorema che ne sancisce l'infinità è attribuito a Euclide (III secolo a.C. ) . La domanda è: nell'infinità dei numeri naturali, i numeri primi sono anch'essi infiniti? Oppure, ad esempio, da un certo punto in poi, diventano sempre più "rari", fino a sparire?

Ripercorriamo a grandi linee la dimostrazione "classica", che secondo me è un concentrato di semplicità e potenza, e per questo non smette di affascinarmi. La tecnica è quella della "riduzione all'assurdo". Supponiamo che i numeri primi siano finiti, e sia N il loro numero. Possiamo allora costruire un altro numero, definito come il prodotto tra essi, aumentato di uno. Cioè, costruiamo Y = n(1)*n(2)*...*n(N) + 1 . Domanda: Y è primo o no? Non essendo (per come è costruito) divisibile per nessun numero primo [il resto è sempre 1] ne consegue che Y è anch'esso primo. Con questo contraddiciamo l'ipotesi, secondo cui i numeri primi erano finiti di "numerosità" N [in realtà, per essere completi bisognerebbe sviluppare a parte un risultato un po' più articolato, che è il Teorema Fondamentale dell'Aritmetica, applicato nella divisione su Y]

Che cosa c'entra questa divagazione matematica? Proviamo a pensare a situazioni meno "scrutabili" dei teoremi di base e dei problemi fisici del singolo punto materiale. Ad esempio, ai sistemi dinamici: interazioni fra più particelle, reazioni chimiche simultanee, diverse prede e più predatori in un habitat, fenomeni migratori e di nascita/morte, e via dicendo.

Secondo alcune correnti di pensiero non esiste il problema dei limiti delle risorse. Per assurdo, assumiamo che sia così. Se così fosse, le risorse minerarie e alimentari potrebbero essere estratte e distribuite in modo via via più omogeneo su tutte le nazioni, con flussi generali crescenti, realizzando un "sogno americano worldwide". Poichè la realtà non è questa (anzi ci sono controtendenze che fanno aumentare la forbice tra chi ha e chi non ha, e i sistemi economici stanno vacillando in modo vistoso) ne deduciamo la falsità dell'ipotesi. Naturalmente la realtà è per definizione ben più complessa, ma come modello-scheletro mi sembra che ci stiamo dentro.

Sarà un po' arida, ma a volte la logica aiuta. Se non altro, per constatare che siamo "ridotti all'assurdo" non solo da un punto di vista astratto, ma anche fisico!

martedì, agosto 11, 2009

La strategia dei Maya: estrarre gas naturale dagli idrati di metano


Sono più di trent'anni che mi occupo di tecnologia e sono tanti anni che mi sento dire che basta un pò più di tecnologia per risolvere tutti i problemi. Petrolio agli sgoccioli? Riscaldamento globale? Che problema c'è? Un po' di ricerca e sviluppo e tutto si sistemerà.

Bene - ultimamente mi sembra di essere un sacerdote Maya che ha passato la vita a fare sacrifici umani e che continua a sentirsi dire "Tutti i problemi si risolveranno se facciamo un po' più di sacrifici umani. Che problema c'è? Basta far contento il Dio sole".




Questo mi è venuto in mente leggendo questo comunicato - che vi passo in fondo. In sostanza, c'è qualcuno che si è messo a fare ricerca e sviluppo sul modo di estrarre gas naturale dagli idrati di metano. Nel caso non lo sapeste, gli idrati (o clatrati) di metano sono formati da gas naturale intrappolato nel ghiaccio ad alta pressione come risultato dell'attività batterica di molto tempo fa. Ci sono grandi quantità di questi idrati sul pianeta ed è da tempo che si pensa di trovare il modo di estrarne gas in quantità commerciali. Sembrerebbe da questo comunicato che la cosa non sia impossibile; anzi, che lo si possa fare con un buon guadagno energetico; perlomeno per un certo tipo di idrati molto concentrati.

Bene; però con gli idrati c'è un piccolo problema. Il fatto è che il metano è un gas serra molto più potente del biossido di carbonio. Che si sfruttino o no gli idrati, il problema è che con l'aumento della temperatura terrestre, gli idrati potrebbero decidere di auto-estrarsi, ovvero liberare il metano nell'atmosfera via via che il ghiaccio si scioglie. Più metano si libera, più l'atmosfera si riscalda e più velocemente il ghiaccio si scioglie; liberando altro metano. Questo meccanismo genera una reazione quasi esplosiva. E' già successo più di una volta nel remoto passato, e il risultato è stato la catastrofe planetaria: estinzioni di massa, anossia atmosferica, surriscaldamento del pianeta e cosette del genere. Per fortuna, non potremo mai estrarre tutti gli idrati di metano che ci sono, ma anche l'estrazione di una piccola parte potrebbe fare grossi danni e mettere in moto un meccanismo spaventoso che poi non sapremmo più come fermare.

Mi immagino che in questo lavoro sull'estrazione degli idrati ci sia stata gente che ha fatto un bel lavoro, ci si è entusiasmata, anche. E tutto questo per peggiorare il problema, e di molto. Andare a stuzzicare gli idrati per risolvere i nostri problemi energetici non è più intelligente dell'idea dei Maya di risolvere i problemi della loro agricoltura con i sacrifici umani.


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Mining "Ice That Burns"

Trapped in molecular cages resembling ice, at the bottom of the ocean and in terrestrial permafrost all over the world, is a supply of natural gas that, by conservative estimates, is equivalent to twice the amount of energy contained in all other fossil fuels remaining in the earth's crust. The question has been whether or not this enormous reserve of energy, known as methane hydrates, existed in nature in a form that was worth pursuing, and whether or not the technology existed to harvest it.

Last Friday, the United States Geological Survey (USGS) announced the discovery of suitable conditions for mining methane hydrates 1,000 meters beneath the seabed in the Gulf of Mexico. Together with Chevron and the U.S. Department of Energy, the USGS discovered the reserve of hydrates in high concentrations in 15-to-30-meter-thick beds of sand--conditions very much like terrestrial methane hydrate reserves, which have already yielded commercially useful flow rates. These deposits are substantially different from the gas hydrates that have previously been discovered in U.S. coastal waters, which exist in relatively shallow waters at the surface of the seabed and have become a concern for climate scientists because of their potential to melt rapidly and release large quantities of methane into the atmosphere.

In the spring of 2008, a joint Canadian-Japanese expedition in Mallik in the Northwest Territories, Canada, established that methane hydrates could be harvested by using a water pump to depressurize a well already drilled into the reserve. This involved lowering the pressure pumping out the water that naturally accumulates in the well. Crucially, it required only 10 to 15 percent of the energy represented by the gas that flowed out of the well, making it a much more viable approach than earlier methods used to harvest hydrates, which involved melting them with warm water. Standard oil and gas drilling equipment was used to reenter an old well drilled to a depth of 3,500 feet and then "refurbish" it by casing the entire well with lengths of steel tubing that cemented into place in order to prevent it from collapsing.

Hydrates require both cold temperatures and high pressure to form; eliminating either condition frees the gas from its icy cage, but past attempts to do this by heating the hydrates proved prohibitively difficult. The Canadian-Japanese expedition successfully produced up to 4,000 cubic meters of gas a day during a six-day trial in 2008 using depressurization.

"I think [the Gulf of Mexico find] and Mallik are two revolutionary events," says Timothy Collett, a geologist with the USGS and one of the world's foremost authorities on gas hydrates.

While no one believes that all of the world's methane hydrates will be recoverable, the scale of global reserves has been described by the U.S. Department of Energy as "staggering." They occur anywhere that water, methane, low temperatures, and high pressure co-occur--in other words, in the 23 percent of the world's land area covered by permafrost and at the bottom of the ocean, particularly the continental shelf.

Increased interest in naturally occurring methane hydrates has been driven by the desire for energy independence from the Middle East and Russia and by the need to find energy sources with less of a potential impact on the climate than coal. (Natural gas produces half as much carbon as coal per unit of energy.) This is reflected by an exponential growth in the number of scientific papers published on the subject per year, according to Carolyn Koh, codirector of the Center for Hydrate Research at the Colorado School of Mines. More than a dozen expeditions designed to harvest or sample terrestrial and marine hydrate reserves have been launched since 2001, not only in the United States and Canada, but also in Japan, Korea, China, and India, according to Collett.

While the USGS has not yet calculated the total size of the potential methane hydrate reserve in the Gulf of Mexico, Collett and his colleagues have calculated the scale of another much more accessible reserve where they hope to perfect the technology required for long-term production of methane hydrates: Alaska's North Slope.

The North Slope is already home to a great deal of conventional oil and natural gas extraction (it's the northern terminus of the trans-Alaska pipeline), and it is, not coincidentally, just a few hundred miles west of Mallik.

The USGS used sophisticated three-dimensional modeling and assessment techniques to estimate the probable amount of recoverable gas from Alaska's North Slope: the median yield was calculated to be 85.4 trillion cubic feet, or four times as much natural gas as the United States uses in a year. The model was built using seismometers that peer into the earth like sonar, listening for the propagation of sound waves generated by a controlled source; recordings of that data can be turned into a complete picture of the size and shape of the hydrate reserves.

"This would be the single largest assessed volume of gas resources in the U.S.," says Collett, who cautions that his calculations reflect only what is technically producible from the field but don't take into account whether or not it will be economical to do so.

Mallik has taught scientists how to produce gas from methane hydrates, and the reservoirs in Alaska's North Slope and the Gulf of Mexico suggest that Mallik is not a unique case. The real challenge, however, will be figuring out how to extract sufficient gas economically. This depends on the proximity of the hydrates to existing pipelines and the price and availability of natural gas: no one will pay to develop new resources, after all, until the old ones have become sufficiently expensive.

To date, none of the world's extraction or assessment attempts have been primarily funded by industry. Companies that have participated in methane hydrate field research in North America include Chevron, ConocoPhilips, and BP.

"The question is, does the industry have the ability to stand on its own without government support?" says Collett. "At some point, they will be, and we think we're now nearing that breaking point."

The United States is not the only country with plans to attempt long-term production tests of methane hydrates. Japan is spending by far the most money on methane hydrate research; it provided most of the funding for the Mallik tests, which were sponsored by the Japan Oil, Gas and Metals National Corporation and by Natural Resources Canada, with field operations by Aurora College/Aurora Research Institute and support from Inuvialuit Oilfield Services.

According to the Center for Hydrate Research's Koh, Japan is investing heavily in attempts to harvest deep-sea hydrate reserves discovered off the southern coast of Japan in the Nankai Trough.

"The Japanese are planning commercial production from the Nankai Trough by 2017," says Koh. If they succeed, Japan will tap the first domestic fossil-fuel reserves the country has ever known.

domenica, agosto 09, 2009

Non è tutto oro (nero) quello che luccica




created by Francesco Aliprandi



Con una cadenza ormai regolare si leggono sulla stampa articoli che prospettano la possibilità di estrarre combustibili fossili - petrolio e gas naturale - al Polo Nord; in effetti la tendenza alla riduzione dell'estensione dei ghiacci perenni mostrata negli ultimi anni, che potrebbe condurre ad uno scioglimento completo anche se solo nel periodo estivo, viene spesso indicata come una condizione in grado di favorire la ricerca e la messa in produzione di nuovi giacimenti. Recentemente è stato pubblicato sulla rivista "Science" uno studio [1] riguardante le stime di idrocarburi che potrebbero trovarsi sotto il territorio artico; vale la pena analizzarlo con un certo dettaglio per cercare di stabilire quali possano essere i reali sviluppi futuri e l'impatto sulla produzione globale.




Lo studio

Del 6% della superficie terrestre che rappresenta il circolo polare artico, circa un terzo è emerso, un altro terzo è costituito da piattaforma continentale con profondità inferiore ai 500 m e il restante è in acque profonde; diverse regioni su terraferma sono già state esplorate, ad esempio il nord dell'Alaska (la famosa Prudhoe Bay) e la zona ovest del bacino siberiano. Nel complesso ad oggi sono stati individuati e perforati circa 400 giacimenti, per un totale di 40 miliardi di barili di petrolio e oltre 1100 Tcf [2] di gas naturale. Le prospezioni in acque poco profonde invece sono state finora limitate dai costi, da difficoltà tecniche e dalla distanza, ma si ritiene che quella zona rappresenti il maggiore potenziale per l'industria petrolifera.

L'articolo prende spunto da un'indagine geologica [3] eseguita dall'USGS (United States Geological Survey) che ha integrato i dati posseduti dall'ente statunitense con quelli forniti da analoghi enti di altri stati e da geologi operanti nel settore petrolifero. La mappa risultante ha classificato il terreno artico suddividendolo in 69 zone omogenee - dette Assessment Units, AUs - ciascuna delle quali con uno spessore di almeno 3 km di roccia sedimentaria, considerato il valore minimo necessario per dare luogo alla formazione di giacimenti significativi di idrocarburi. Dato però che il territorio è scarsamente esplorato, per valutare il potenziale delle zone si sono prese come modello le scoperte avvenute in altre parti del mondo aventi caratteristiche affini a quelle delle zone omogenee; la consistenza delle riserve di petrolio e gas naturale è stata poi valutata solo nelle zone dove la dimensione minima dei giacimenti superasse i 50 milioni di barili di petrolio (o equivalente in gas) con una simulazione di tipo Montecarlo [4].

I risultati indicano che al Polo Nord si troverebbero riserve per 44, 83 o 157 miliardi di barili di petrolio con probabilità rispettivamente del 95%, 50% e 5%; come confronto si tenga presente che le attuali riserve mondiali accertate si aggirano sui 1200 miliardi di barili, e se ne consumano circa 30 all'anno. Per quanto riguarda il gas naturale si parla di riserve che potrebbero bastare da un minimo di 7 anni nell'ipotesi più pessimista ad un massimo di 30, sempre ai consumi attuali. Considerando la distribuzione geografica si nota che il 60% delle riserve di petrolio risulterebbe concentrato in sole 6 delle 49 AUs [5], e metà di questo nella piattaforma continentale dell'Alaska; altre zone importanti si trovano in Russia (Yenisey-Khatanga e bacino di Barents) e Danimarca. Il gas naturale sarebbe presente - in termini energetici - in quantità triple rispetto al petrolio, e la dimensione del giacimento più grande sarebbe circa 8 volte superiore (22.5 miliardi di barili equivalenti contro 2.9): quindi con maggiori probabilità di essere sfruttato. I due terzi andrebbero individuati in sole 4 AUs, e per oltre la metà del totale in territorio russo (bacini Nord e Sud di Barents e parte meridionale del mare di Kara).I verbi al condizionale però sono d'obbligo più che mai in queste circostanze.
http://www.sciencemag.org/content/vol324/issue5931/images/large/324_1175_F1.jpegStima delle riserve di petrolio
http://www.sciencemag.org/content/vol324/issue5931/images/large/324_1175_F2.jpegStima delle riserve di gas naturale

Aspetti tecnici ed economici

Per iniziare, una simulazione basata su di un modello statistico - per quanto raffinato possa essere - non può sostituire una reale campagna esplorativa; inoltre per stessa ammissione degli autori le conoscenze geologiche in molte zone sono inadeguate, e ciò significa che al momento si sta parlando di petrolio e gas di carta, esistente solo su una attraente mappa colorata.Dal punto di vista tecnico i problemi sono numerosi. Ad esempio, la costruzione di oleodotti deve tener conto della possibilità che il ghiaccio, trasportato dalle correnti, scavi ed incida il fondale (come farebbe un aratro in un campo): sono stati individuati in alcune zone solchi profondi fino a 8 m; oppure la possibilità che si verifichino perdite in aree coperte da pack, con la necessità di attendere il disgelo per avviare le operazioni di pulizia (una perdita che avvenisse all'inizio dell'inverno in presenza di correnti potrebbe dar luogo ad una striscia di petrolio lunga fino a 500 km e larga 150 m [6]).

Alle condizioni climatiche estreme si aggiungono le difficoltà logistiche del dover lavorare in luoghi distanti da avamposti umani: strade di accesso, aeroporti, ospedali e infrastrutture di ogni tipo sono inesistenti, cosicché guasti e imprevisti che altrove rappresentano semplici seccature possono diventare contrattempi di difficile soluzione ed economicamente dispendiosi.
E proprio l'aspetto economico è uno dei talloni d'Achille dello studio, perché le riserve mappate si intendono sfruttabili anche in presenza di ghiaccio in superficie e, cosa più importante, senza riferimenti ai costi di esplorazione e sviluppo. Vista la sete di energia del mondo potrebbe sembrare fuori discussione che prima o poi si tenterà di sfruttare anche gli idrocarburi nascosti in quella regione, ma perché accada il prezzo del barile dovrebbe essere molto elevato, e rimanerci sufficientemente a lungo da convincere gli operatori del settore che esistono margini di guadagno. Tuttavia non è ancora chiaro quale sia il limite che l'economia mondiale è in grado di sopportare senza frenare o entrare in recessione, e le oscillazioni recenti - per quanto originate da una situazione economica contingente - suggeriscono anche scenari nei quali o il prezzo non raggiungerà mai un livello abbastanza alto, o lo farà per periodi troppo brevi.


Conclusioni

Anche ammettendo che nel futuro la tecnologia e i costi consentano l'estrazione di petrolio oltre il circolo polare artico, rimane da chiedersi quale possa essere il massimo flusso a regime: spesso si tende a dimenticare che la dimensione della botte è importante, ma solo se ho allo stesso tempo un rubinetto che posso aprire a seconda delle necessità, e sembra ragionevole attendersi che il Polo Nord non potrà contribuire in modo significativo al soddisfacimento della sete mondiale. Può essere interessante ricordare che il giacimento di gas naturale di Shtokman - nel mare di Barents in territorio russo - è stato scoperto nel 1988 ma non è ancora entrato in produzione, nonostante rappresenti da solo oltre il 10% delle riserve del paese e gli acquirenti non manchino. La Gazprom spera di iniziare a vendere il gas estratto a partire dal 2013 grazie agli accordi con Total (francese) e StatoilHydro (norvegese), a 20 anni di distanza dalla costruzione dei primi pozzi di prova.

Indipendentemente da quello che sarà il fato dei ghiacci polari nei prossimi anni, l'entità delle riserve energetiche che potrebbero celare rappresenta un piccolo contributo al fabbisogno mondiale. Il fatto che se ne parli con tanta frequenza e con toni ottimistici - anche in assenza di riscontri reali - sta a indicare che mancano serie alternative in zone climaticamente meno estreme. Stiamo arrivando al fondo del barile?


Riferimenti e note

[1] Assessment of Undiscovered Oil and Gas in the Arctic, Donald L. Gautier et al., Science 29 May 2009:Vol. 324. no. 5931, pp. 1175 - 1179

[2] 1 Tcf (trillion cubic feet) equivale a 28.3 miliardi di metri cubi.

[3] U.S. Geological Survey Fact Sheet 2008-3049; Circum-Arctic Resource Appraisal: Estimates of Undiscovered Oil and Gas North of the Arctic Circle by Kenneth J. Bird et al. reperibile in pdf all'indirizzo http://pubs.usgs.gov/fs/2008/3049/fs2008-3049.pdf

[4] Vale la pena notare che Jean Laherrère, un geologo che ha lavorato per 37 anni con la Total, circa un anno fa usava queste parole su The Oil Drum: "On the coming USGS arctic study I hope that they will not use a black box such as Monte Carlo simulation to get an estimate".

[5] 20 delle 69 AUs vengono escluse dal modello nella fase di stima quantitativa dell'entità dei giacimenti.

[6] Offshore Oil in the Alaskan Arctic, W. F. Weeks and G. Weller, Science, New Series, Vol. 225, No. 4660 (Jul. 27, 1984), pp. 371-378

Links con ulteriori informazioni:

venerdì, agosto 07, 2009

La politica dei trasporti: Josif Stalin contro Henry Ford


Un classico "jitney" in una foto che viene dalle Filippine. I jitney sono piccoli autobus privati spesso molto colorati e caratteristici. Sono tipici dei paesi poveri, mentre nei paesi ricchi sono proibiti.


Spostarsi a Marrakesh è una cosa facilissima. Potete scegliere il "Grand Taxi", un taxi "normale" come i nostri (a parte la propensione dei guidatori per la tappezzeria leopardata). Oppure potete prendere il "Petit Taxi", un taxi effettivamente piccolo, quasi sempre una vecchia Fiat Uno rimessa a nuovo. Nè il grand taxi nè il petit taxi hanno un tassametro. Il trucco è mettersi daccordo sul prezzo prima di partire. In quel caso, i prezzi sono veramente molto bassi - addirittura irrisori. E non finisce li'. Dopo un po' che stai a Marrakesh o a Casablanca, ti accorgi che c'è tutto un giro di taxi informali di gente che ti porta dove vuoi per pochi dirham. Se ho capito bene, sono illegali; ma sono tollerati.

I prezzi dei taxi in Marocco sono bassi non solo dal punto di vista dei turisti. Sono bassi anche in confronto a un salario medio Marocchino. Infatti, un collega che ho conosciuto in Marocco mi ha detto che sua moglie li usa anche per andare a fare la spesa. Lo vedete anche se andate a Casablanca, dove di turisti ce ne sono pochi. Sul lungomare di Casablanca, c'è pieno di gente del posto che viene in taxi a mangiare il gelato o a andare a cena nei ristoranti. La cosa non mi stupisce: è un buon esempio del meccanismo del libero mercato che porta i prezzi ad abbassarsi per soddisfare la domanda.

Ho visto altri esempi in cui il libero mercato ottimizzava il trasporto pubblico. Durante il periodo più buio del crollo dell'Unione Sovietica, i trasporti pubblici non hanno mai completamente cessato di funzionare in Russia. Ma le linee di autobus erano diventate poco affidabili per via della carenza di benzina. Questa situazione ha messo in luce come le metropolitane create da Stalin fossero insufficienti per servire le grandi città, come Mosca. Come risultato, i Russi si erano organizzati con un sistema di autostop a pagamento. Chi aveva una macchina e un po' di benzina trasportava a pagamento chi non l'aveva. Era un classico esempio dell'offerta che si genera per incontrare la domanda.

Negli anni '90, a Mosca, bastava fermarsi sul ciglio del marciapiede e fare un cenno agli automobilisti di passaggio. Qualcuno si fermava subito e ne seguiva una rapida contrattazione. Se la direzione era quella giusta, con pochi rubli uno si faceva portare dove voleva - cosa conveniente per tutti e che portava anche a una certa socializzazione fra guidatore e passeggeri. I Russi amano chiaccherare mentre viaggiano, lo si legge anche nei romanzi di Tolstoy.

Questa cosa dell'autostop a pagagamento l'ho sperimentata molte volte con i miei colleghi Russi. Da solo non me la sono sentita - anche perché le mie capacità conversazionali in Russo sono alquanto limitate. Ma vi posso dire che funzionava benissimo. L'anno scorso, sono tornato i Russia a crisi finita. L'autostop a pagamento non esiste più - almeno mi sembra. E' stato sostituito da dei piccoli autobus; anche quelli privati da quello che ho capito. Sono bussini molto tecnologici, con la televisione dentro. Basso costo, corse frequenti e anche li', i Russi si mettono spesso a chiaccherare fra di loro.

In sostanza, i Russi hanno re-inventato il "jitney" (da una parola in gergo americano che una volta voleva dire 5 centesimi). Il jitney è un po' il veicolo del "No Alpitur, ahi, ahi, ahi". E' molto diffuso nei paesi poveri, specialmente in Asia Africa e Sud America. Il jitney è spesso colorato, adornato di perline, luci, e ritratti di santi o di Buddha, o comunque di divinità locali. E' vecchio e scassato, gli orari sono molto informali (quando ci sono). Però vi porta in giro e costa molto poco. Anche il jitney è il risultato dell'ottimizzazione dell'offerta in un libero mercato.

Il jitney, trasporto privato in condizioni di mercato, non esiste nei nostri paesi. L'unica forma ammessa di trasporto pubblico gestito da privati è quella monopolista di quella casta chiusa che sono i taxisti. Un buon esempio che illustra il concetto della teoria economica che il mercato non è mai ottimizzato in un regime di monopolio. I taxi da noi sono troppo pochi e troppo cari. Mia moglie, poco tempo fa, si è sentita chiedere 32 euro per un tragitto di meno di 15 km. Non c'è bisogno di commenti. (E il taxi collettivo? In pratica non esiste e comunque non costa molto meno)

Se analizzate il trasporto nelle città in termini di mercato, vedete che è dominato da alcuni grossi monopoli che se lo contendono. C'è il monopolio di Josif Stalin (quello dei mezzi pubblici) e quello di Henry Ford (quello dei mezzi privati). E' lo scontro dei titani e, nel mezzo, non c'è nulla, a parte la casta dei taxisti che sono inabbordabili come mezzo di trasporto quotidiano.

Nella storia del trasporto urbani, i due titani - pubblico e privato - si sono contesi il mercato con tutti i mezzi, leciti e illeciti. Probabilmente sapete la storia di quando la General Motors, negli anni '20, comprò le linee dei tram elettrici di Los Angeles per poi chiuderle. Probabilmente è una storia vera. D'altra parte, oggi i comuni si prendono la loro rivincita chiudendo al traffico privato aree sempre più ampie delle città e mettendo - quasi letteralmente - i bastoni fra le ruote agli automobilisti.

Nello scontro fra titani, chi ci ha rimesso sono stati i piccoli. La parola "jitney" viene dai piccoli autobus americani che esistevano più o meno al tempo in cui GM e le linee ferroviarie si contendevano il mercato. Facevano concorrenza sia alle auto private sia ai tram pubblici. Così, sono stati proibiti senza troppi complimenti e neppure scuse. Che diavolo, in Occidente il libero mercato è una cosa di cui si parla, ma non penserete mica che esista davvero? Allora credevate anche che in Unione Sovietica c'era davvero la dittatura del proletariato?

Su questo fatto del monopolio, vi faccio solo un esempio. Mi hanno raccontato (e credo che sia vero*) che, qualche anno fa, a Firenze un tale si era comprato un risciò a pedali e si era messo a portare i turisti dalla stazione agli alberghi. Lo faceva gratis; guadagnando qualcosa con la pubblicità che metteva sulle fiancate. Non lo avesse mai fatto: stava facendo concorrenza ai poteri forti del trasporto urbano. La giunta comunale si è riunita e ha promulgato un'ordinanza che proibiva di fare una cosa del genere. Un provvedimento apposta per lui - grande onore! Adesso, a Firenze è proibito trasportare persone su veicoli a pedali - forse include anche i tandem. Stalin, ai suoi tempi, non avrebbe saputo fare di meglio.

Siccome, dunque, siamo in un regime di monopolio per quanto riguarda il trasporto urbano, chi ci rimette è l'utente. In un mercato tutto fuori che ottimizzato, chi viaggia è costretto a non poter scegliere altro che fra il mezzo privato - costoso e invadente - e il mezzo pubblico - inefficiente e inflessibile (e non diciamo niente dei taxi)

Il buon Josif Stalin deve stare a sogghignare nella tomba pensando a come stanno le cose da noi. Però, ci potremmo divertire a pensare cosa potrebbe succedere se - per qualche miracolo celeste - il trasporto pubblico fosse veramente liberalizzato. Ammettiamo che spuntassero da noi i "petits taxis" come a Marrakesh. Dovunque tu sia, trovi sempre una vecchia uno rossa che ti porta dove vuoi per 2-3 euro. Oppure, come in Russia al tempo della crisi, monti sulla macchina del primo che passa e con 30 centesimi te la cavi. Anche senza andare a queste cose, ammettiamo che chiunque, più o meno, possa mettere su un "jitney" e trasportare gente in concorrenza con autobus e mezzi privati. Considerate anche che nell'era della comunicazione, fra internet, telefoni cellulari e il resto, si potrebbero fare degli autobussini veramente flessibili e ottimizzati, e anche molto ecologici se si usassero motori elettrici. Del tipo, telefoni e ti passa davanti a casa entro un quarto d'ora, e con un euro ti porta dove vuoi.

Sono sogni, evidentemente. Ma può anche darsi che i titani che dominano oggi il trasporto urbano - gli eredi di Josif Stalin e di Henry Ford, siano colossi dai piedi di argilla. In una crisi come quella che ha colpito l'Unione Sovietica, sia il traffico privato come i mezzi pubblici si troverebbero in gravissima difficoltà. Potrebbe essere il momento del ritorno dei jitney. Chissà.....




* Nota: non ho riferimenti scritti a questa storia della giunta comunale fiorentina che si riunisce apposta per proibire di trasportare i turisti con mezzi a pedali. Nel complesso, tuttavia, credo che sia vera. Me l'ha raccontata Sergio Gatteschi che - a quel tempo - l'ha vissuta come consigliere provinciale. Poi, conosco i membri della giunta comunale dell'epoca e li reputo perfettamente capaci di fare una cosa del genere. Mi stupirei se non l'avessero fatta. Fra le altre cose, è la stessa banda di gente che non ha trovato di meglio che multare pesantemente una tassista in nome del "decoro" della città perché girava con un taxi particolarmente decorato e portava gratis i bambini. all'ospedale. Appunto, Stalin continua a sogghignare nella tomba.






mercoledì, agosto 05, 2009

Coltivare in casa


Questo è un esempio di coltivazione in proprio diciamo così "casalingo" fatto dai miei figli. 
Il vaso contiene una pianta di mais, due pomodori un paio di piante di fagiolo ed altro.
Le più aggressive sono uscite prima, mentre quelle più deboli sono rimaste ancora allo stato del seme. 
Queste nasceranno quando avranno a disponibilità più luce, acqua e elementi minerali.
Non ho idea di come andrà a finire, cioè se saranno capaci di produrre fiori e frutta o se sopravviveranno
alle azioni teppistiche di mio figlio minore (3 anni) ... vi aggiornerò appena ho le foto. Comunque osservate
la profondità del vaso, è sufficiente per tutte le piante salvo quelle che producono tuberi (patate) o radici carnose
come le carote che hanno bisogno di una profondità maggiore (di almeno 5 - 10 cm in più)