mercoledì, gennaio 31, 2007

Energia, Bush ha veramente un piano?


A una settimana dal discorso sullo stato dell'Unione di Martedi' 24 Gennaio del presidente Bush, il polverone dei commenti e delle critiche sembra essersi un po' diradato. A questo punto possiamo tirare le somme su quali sembrerebbero essere i piani dell'amministrazione Americana in campo energetico.

E' stato detto da molti che il discorso di Bush è vago e poco efficace riguardo al problema energetico; molto fumo e poco arrosto. Questo è sostanzialmente vero. Il discorso ripete stancamente ancora una volta che l'America deve liberarsi dalla dipendenza dal petrolio importato. Il concetto è giusto, ma non basta dirlo, bisogna fare qualcosa di concreto in proposito. Lo aveva già detto lo stesso Bush l'anno scorso, ma ben prima lo stesso concetto era stato detto da Richard Nixon nel 1977 e poi ancora da Jimmy Carter e poi ancora da altri presidenti. Ma è dal tempo di Nixon che le importazioni di petrolio negli USA sono in aumento.

A parte questo, ci sono alcuni elementi interessanti nel discorso di Bush. Per esempio, l'anno passato c'era un riferimento esplicito a "automobili a zero emissioni che usano idrogeno". Quest'anno, la parola "idrogeno" è sparita. Evidentemente, gli esperti che hanno scritto il discorso sono arrivati a un consenso sul fatto che il tentativo di usare l'idrogeno come combustibile per veicoli si è rivelato un clamoroso fallimento, cosa che, purtroppo, in Europa molti non hanno ancora capito. Invece, Bush quest'anno ha menzionato esplicitamente la necessità di sviluppare nuove batterie per la trazione elettrica. Decisamente, i suoi esperti non sono dei fessi.

Tuttavia, gli esperti non sono riusciti ad arrivare a un consenso organico sulle azioni da prendere. Il discorso di Bush è esercizio di equilibrismo in cui si è cercato di non scontentare nessuna delle varie lobby energetiche. Bush ha menzionato un po' tutto: solare, eolico, nucleare e carbone. Di queste tecnologie, però, non ha proposto nessuna azione concreta di sostegno. In effetti, di queste lobby l'unica veramente potente è quella del carbone e questa sa di essere competitiva in termini economici anche senza sovvenzioni statali; ovviamente posto che non le si richieda di rimediare ai danni ambientali che procura. La lobby del carbone preferisce concentrare la propria azione sul combattere tutte i tipi di legislazione ambientale che la potrebbero danneggiare. Infatti, mentre Bush ha menzionato il cambiamento climatico come una "seria sfida," non ha proposto nessuna azione diretta per fronteggiarlo.

Invece, la lobby della grande agricoltura industriale sembra aver avuto un discreto successo nell'ottenere qualcosa dal governo. Bush ha parlato della necessità di "combustibili rinnovabili e alternativi" e ha menzionato esplicitamente il biodiesel e l'etanolo. Ha dato anche dei numeri precisi, parlando di un obbiettivo di 35 miliardi di galloni di biocombustibili per il 2017. Considerando che gli USA consumano circa 150 milardi di galloni di benzina all'anno, questa quota non è trascurabile anche se non risolve certamente il problema.

Bush non ha dato dettagli su come questi 35 miliardi di galloni potrebbero essere ottenuti, anche se ha parlato della necessità di fare ricerca sull'etanolo da legno o da rifiuti. Ma questa è una tecnologia ancora molto lontana da essere pratica e si sa che i piani americani si rivolgono principalmente a etanolo ottenuto dal mais. Questo è un obbiettivo che possiamo leggere esplicitamente nel Renewable Fuel Standard Initiative.

Il fatto che il presidente non abbia menzionato il mais o altri cereali come sorgenti di biocombustibili nel suo discorso indica che i suoi esperti si rendono conto della delicatezza del problema, ovvero che i biocombustibili sottraggono spazio alla produzione di alimentari. Questo è un punto che sta causando grande preoccupazione, come si evidenzia dalla recente "rivolta della tortilla" in Messico.

Oltre a impattare direttamente sulla produzione di alimentari, i biocombustibili sono una tecnologia poco efficiente. L'economista Paul Krugman ha criticato duramente il discorso di Bush in un articolo apparso sul New York times del 30 Gennaio. Secondo Krugman, se l'obbiettivo a lungo termine fosse di rimpiazzare l'intero consumo di prodotti petroliferi, tutto il raccolto di mais degli Stati Uniti basterebbe al massimo per sostituire il 12 per cento del consumo di benzina nazionale.

Il discorso di Krugman è addirittura sbagliato per eccesso, come che è stato fatto notare in un post su "The Oil Drum". Krugman non tiene conto dell'energia necessaria per coltivare l'etanolo, ovvero della sua resa energetica (EROEI). Ci sono varie voci di spesa energetica necessarie per coltivare il mais e trasformarlo in etanolo: fertilizzanti, pesticidi e meccanizzazione, come pure l'energia necessaria per distillare l'etanolo. In gran parte, queste spese sono pagate con combustibili fossili e, ovviamente, in qualche modo bisogna tenerne conto.

Nella pratica la resa energetica dell'etanolo da mais, il rapporto fra energia ottenuta e energia spesa, viene variamente stimata. C'è chi dice che è minore di 1 (ovvero ci vuole più energia per ottenere un litro di etanolo di quanta se ne possa ottenere bruciando quel litro). C'è chi dice che la resa è un po maggiore di 1; in questo caso si ottiene un bilancio leggermente positivo. Il biodiesel sembra avere una resa un po' maggiore, ma non di molto. Anche senza sapere quali sono i numeri esatti, ne consegue che la frazione di veicoli che potrebbero viaggiare a biocombustibili negli Stati Uniti sarebbe al massimo di qualche percento, anche utilizzando tutta la coltivazione di mais nazionale. Come spesso succede per le "soluzioni" proposte dai politici, anche questa si rivela un grosso affare per qualcuno in termini di sovvenzioni statali e una perdita secca per tutti gli altri. Una perdita che potrebbe fare dei danni ben più gravi di quelli finanziari se veramente se ci si muovesse per stornare una robusta frazione della coltivazione di mais da usi alimentari verso usi come combustibile.

E' difficile pensare che gli esperti che hanno scritto il discorso di Bush non abbiano chiaro quali sono i problemi dei biocombustibili. Dopo tutto, hanno capito benissimo che l'idrogeno come combustibile è una bufala. Il fatto, poi, che si siano guardati con cura da far menzionare al presidente che per fare combustibili bisogna usare cereali alimentari la dice lunga sulla loro intelligenza. Ma il grosso problema, come sempre, è che le decisioni non sono prese sull'esame dei fatti, ma sulla base delle pressioni delle varie lobby. Ne abbiamo un buon esempio qui in Italia con la questione del CIP6, ovvero le sovvenzioni all'incenerimento dei rifiuti, dove una lobby sta facendo tutto il possibile per mantenere sussidi pagati da tutti per l'interesse particolare di alcuni privilegiati.

L'America avrebbe disperatamente bisogno di un piano energetico vero; di qualcosa di drastico che veramente rompa la dipendenza distruttiva dalle importazioni. Ma è dal tempo di Nixon che se ne parla e nulla di concreto è stato fatto; le lobbies regnano sovrane. Eppure, l'America è il paese che ha mandato uomini sulla Luna. E' un paese di grandi risorse e immense capacità. Un vero "Progetto Apollo dell'Energia" potrebbe mostrare al mondo cosa sanno fare di buono gli Americani. Chissà?




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lunedì, gennaio 29, 2007

Il Dilemma dell'Onnivoro

In un post precedente, avevo esaminato l’importanza dei combustibili fossili nell’industria alimentare commentando il libro di Dale Allen Pfeiffer “Mangiando Combustibili Fossili”. Un altro libro recente su questo argomento è “Il Dilemma dell’Onnivoro” di Michael Pollan (The Omnivore’s Dilemma, Bloomsbury 2006) che esamina l'industria alimentare americana.

Per la verità, Pollan non menziona quasi mai i combustibili fossili in questo suo esame delle abitudini alimentari dei suoi concittadini. Pollan non è un “picchista” e non sembra essere nemmeno sfiorato dall’idea che il ciclo planetario dei combustibili fossili potrebbe essere ormai prossimo a quel “ritorno” che ci riporterà, volenti o nolenti, a un mondo che dovrà imparare a farne a meno.

Ma per chi ha chiara la situazione planetaria dei combustibili fossili, la lettura del libro di Pollan è semplicemente agghiacciante. La parte più agghiacciante di tutte è la prima sezione, dove si esamina l’industria (ormai non si può più chiamarla “agricoltura”) della coltivazione del mais (“corn”) negli Stati Uniti.

Che l’America sia oggi il “granaio dell’umanità”, e lo sia stata per molti anni, è cosa abbastanza nota. Questa capacità degli Stati Uniti di esportare grano e – soprattutto – mais in tutto il mondo viene spesso vista come un’ulteriore riprova della superiorità del sistema economico americano. E’ vero, si dice, che gli americani consumano una quantità sproporzionata di risorse mondiali rispetto alla loro popolazione, ma è anche vero che con queste risorse producono più di tutti gli altri paesi del mondo e danno anche da mangiare a tutti.

Ma c’è qualche problema in questa immagine di una cornucopia senza fine di cibo che esce dai campi del Midwest americano. La fantastica resa delle coltivazioni di mais è stata ottenuta a un prezzo; e questo prezzo è stato pagato con una cambiale in combustibili fossili. Adesso, l’assegno sta ritornando per l’incasso e potremmo scoprire che il conto è scoperto.

Il libro di Pollan si legge quasi come un romanzo dell’orrore quando descrive come, all’inizio del ventesimo secolo, gli agricoltori americani coltivavano la ricca terra lasciata loro dalle immense praterie non toccate da mani umane. Lo strato di humus fertile era allora circa quattro piedi (circa 120 cm), ma adesso si è ridotto a meno di due piedi (60 cm). In natura, per fare un centimetro di humus fertile ci vogliono circa due secoli. In un secolo, i coltivatori americani hanno distrutto quello che la natura aveva impiegato migliaia di anni a creare. Non solo, mentre l’humus di una volta era una ricca mistura di nutrienti che potevano far crescere qualsiasi pianta, quello che è rimasto è una polvere grigia che non genererebbe niente se non fosse caricata tutti gli anni con quantità crescenti di fertilizzanti artificiali.

Fa impressione leggere come tutto questo è avvenuto in pochi decenni. Fino agli anni ’80, circa, l’agricoltura del Midwest era ancora qualcosa che somigliava a quello che noi pensiamo debba essere l’agricoltura: c’erano fattorie, animali, terreni di diversa natura che venivano coltivati in modo diverso. Tutto è sparito da quando il governo Nixon ha deciso che l’agricoltura non doveva essere considerata niente di diverso dagli altri settori dell’economia. La perversità di questa azione merita di essere descritta in dettaglio.

Esistevano fino agli anni '80 in America meccanismi economici che servivano per evitare la sovraproduzione di mais. Il governo dava un sussidio all'agricoltore in proporzione al mais stoccato nei silos. Con i silos ben pieni, l'agricoltore non aveva incentivi a produrre ulteriore mais e poteva produrre altre cose. Ma dagli anni '80, il governo paga agli agricoltori un minimo garantito per ogni "bushel" di mais messo sul mercato. Quindi, l'incentivo per l'agricoltore è di produrre sempre di più. Inoltre, il minimo viene ridotto tutti gli anni, cosicché gli agricoltori si trovano in una spirale perversa in cui devono produrre sempre di più per guadagnare sempre meno. Questo ha generato la corsa ai fertilizzanti, alle specie ingegnerizzate, ai semi prodotti dall'industria chimica, alla distruzione di tutte le attività che non fossero piantare mais; alla sparizione dalla superficie della terra di ogni forma vivente che non fosse mais, con l’eccezione dell’occasionale agricoltore alla guida del suo trattore.

Per un industria, incentivi a produrre sempre di più possono anche essere una cosa buona, ma ci sono limiti a quello che l'agricoltura può fare. Un'industria può rinnovare il proprio macchinario ogni anno, ma la produzione di una monocultura intensiva a lungo andare distrugge l'humus fertile che non si può rimpiazzare. Inoltre, il mais messo sul mercato comunque e a qualsiasi costo, riduce i prezzi a un livello tale che viene svenduto per usi folli e sciagurati come la "stufa a mais" e l'etanolo per autotrazione.

Oggi, la pianta di mais è un’officina dove si trasformano combustibili fossili in proteine e carboidrati. La produzione è dipendente dalla disponibilità di pesticidi e di specie di mais ingegnerizzate; semi che non possono riprodursi in natura, ma che devono essere continuamente forniti dall’industria chimica che li crea. Se mai c’è stata un’industria insostenibile, l’agricoltura americana ne è l’esempio perfetto. Se dovessero cominciare a mancare i fertilizzanti prodotti dai combustibili fossili, tutto il midwest americano si trasformerebbe in pochi anni in una distesa sterile di polvere grigia che le piogge spazzerebbero via in pochi anni. Da li’, il sistema di “fast food” americano, tutto basato sul mais a basso prezzo, scomparirebbe anche quello. Le conseguenze......, non stiamo a parlarne; meglio non pensarci sopra nemmeno.

Dal punto di vista europeo e italiano, la corsa alla iperproduzione americana ha, in un certo senso, protetto la nostra agricoltura. Certe aree della pianura padana che hanno adottato il mais americano, ma qui da noi non vediamo ovunque l’invasione delle monoculture che distruggono tutto il resto. Abbiamo ancora boschi e fattorie che producono agricoltura di una certa qualità D’altra parte, la resa della nostra agricoltura in termini di capacità di produrre cibo è insufficiente. L’agricoltura nazionale non è mai riuscita a sostentare più di circa 20-25 milioni di persone. Se non importassimo cereali dall’estero, e in particolare dagli Stati Uniti, come potremmo dar da mangiare ai 60 milioni di abitanti attuali della penisola? E cosa succederebbe se gli Stati Uniti decidessero di utilizzare il loro mais per fare etanolo per le loro automobili? Cosa succederebbe se la loro produzione agricola crollasse a causa dell'erosione e della mancanza di fertilizzanti? Anche su questo punto, meglio non pensarci troppo sopra.


In questo commento ho esaminato solo la prima parte del libro di Pollan, che tuttavia merita di essere letto per intero. E' un esame generale delle abitudini alimentari moderne e della struttura dell'industria alimentare che va dagli allevamenti intensivi di pollame fino alle abitudini di quelli che ancora cercano di vivere di caccia, pesca e raccolta. Da notare che Pollan racconta di aver chiesto di poter visitare un mattatoio, ma il permesso gli è stato negato dai gestori. Un'altra delle tante contraddizioni del nostro mondo che ci fa vedere in mondovisione l'impiccagione di Saddam Hussein ma si vergogna di farci sapere da dove vengono gli hamburger che mangiamo.


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sabato, gennaio 27, 2007

Il suicidio verde

Esce in questi giorni il nuovo libro di Dale Allen Pfeiffer "Mangiando Combustibili Fossili" (eating fossil fuels).

Pfeiffer è un geologo americano che ha scritto molti articoli sul picco del petrolio che appaiono sul suo sito "mountainsentinel." Forse meno noto di altri commentatori su questo argomento, Pfeiffer è tuttavia un attento e acuto studioso; sotto molti aspetti diversi passi avanti rispetto a molti altri.

Tutti si preoccupano del prezzo dei carburanti, ma, con questo libro, Pfeiffer è andato diritto al cuore del problema. Il trasporto ha bisogno di petrolio, certo, ma ancora di più ne ha bisogno l'agricoltura. Di trasporto, entro certi limiti, possiamo anche fare a meno, ma del cibo prodotto dall'agricoltura no.

Il libro di Pfeiffer è uno studio molto approfondito e dettagliato sulla situazione agricola risultante dalla cosiddetta "rivoluzione verde" cominciata negli anni '70. Questa serie di cambiamenti nelle pratiche agricole mondiali merita di essere citata come uno dei grandi errori storici del genere umano. Nel desiderio comprensibile di produrre più cibo per una popolazione in crescita, ci siamo trovati incastrati in una spirale senza uscita in cui più cibo si produceva, più la popolazione cresceva. Più la popolazione cresceva, più c'era la necessità di produrre cibo. La produzione ha potuto crescere incrementando sempre di più il ruolo dei combustibili fossili, ma ora che siamo al limite della produzione di combustibili fossili, le ripercussioni potrebbero essere devastanti.

Dopo la rivoluzione verde, l'agricoltura non è più quella di una volta. Se un tempo l'agricoltura era un processo che trasformava la luce solare in sostanze alimentari, oggi possiamo dire che è un processo che trasforma combustibili fossili in sostanze alimentari. La rivoluzione verde ha aumentato l'energia utilizzata dall'agricoltura di un fattore 50 o anche 100. Negli Stati Uniti, ci vogliono oggi circa 10 unità di energia fossile per produrre 1 unità di energia alimentare. Se a questo si aggiungono i costi di trasporto, di distribuzione, di refrigerazione, eccetera, si stima che per produrre il cibo consumato in un giorno, un americano medio dovrebbe lavorare per tre settimane se non avesse l'ausilio dei combustibili fossili. La situazione sembra critica dato che già oggi oltre il 10% delle famiglie americane sono classificate come "food insecure", ovvero sempre sull'orlo della fame.

In più, la rivoluzione verde ha causato un'erosione irreversibile di immense aree una volta fertili, ma che ora possono ancora produrre soltanto con l'apporto massiccio di combustibili fossili. Se questo apporto venisse a mancare, la desertificazione è in agguato. Lo stesso, l'uso estensivo e sconsiderato dell'irrigazione ha salinizzato grandi aree, esaurito gli acquiferi e danneggiato fiumi e sorgenti. Gli effetti sono ancora tutti da vedere, ma già ora si comincia a capire che la rivoluzione verde è stata un suicidio collettivo; un suicidio differito nel tempo, ma un suicidio comunque.

Quello di Pfeiffer è un allarme che ci ricorda che i problemi che dovremo affrontare a breve scadenza potrebbero essere molto diversi da quelli che ci aspettiamo. Tendiamo a vedere la crisi che verrà in termini della crisi degli anni '70; ci aspettiamo che la carenza di petrolio produrrà alti prezzi della benzina, code ai distributori, magari razionamenti, sicuramente difficoltà negli spostamenti. Negli anni '70, la crisi non ebbe effetti alimentari. Ma, negli anni '70, la situazione dell'agricoltura era completamente diversa da quella odierna. L'agricoltura dipendeva enormemente di meno dai combustibili fossili e la distribuzione dei prodotti alimentari non era basata su una filiera così a grande distanza come lo è quella odierna. Non dimentichiamoci, poi, che negli anni '70 c'erano circa 4 miliardi di persone al mondo, oggi ce ne sono 6 miliardi e mezzo.

I dati di Pfeiffer sono principalmente per gli Stati Uniti. Per l'Italia e l'Europa la situazione potrebbe essere leggermente diversa; per nostra fortuna l'agricoltura Italiana sembrerebbe più diversificata di quella degli Stati Uniti, che è sostanzialmente una monocultura di mais. Tuttavia, i fenomeni di erosione e di degrado agricolo sono evidenti anche qui da noi. In aggiunta, siamo soggetti alla desertificazione causata dal cambiamento climatico. Basta usare "google earth" per vedere quanta dell'area del sud d'Italia e in particolare la Sicilia, stiano sempre più somigliando al Nord Africa in termini di vegetazione.

Ci figuriamo il futuro come se ripetesse sempre il passato, ma la nuova crisi potrebbe essere completamente diversa dalla precedente. Potrebbe essere, in effetti, una crisi principalmente alimentare. Questo ci può apparire inverosimile, siamo abituati al concetto che le carestie sono una storia del passato, eventi che interessavano i nostri remoti antenati ma non noi. L'ultima carestia in Italia è stata nel 1898, al tempo in cui il generale Bava Beccaris massacrava a cannonate gli operai di Milano che chiedevano un ribasso della tassa sul macinato. Poi c'è stato il razionamento alimentare nella seconda guerra mondiale che, però, non è stata una vera e propria carestia.

Può darsi, dunque, che l'attuale enfasi su certe soluzioni alla crisi incombente partano da presupposti sbagliati e che potrebbero essere addirittura controproducenti. Attualmente il massimo sforzo sta nel cercare di ridurre i consumi energetici degli edifici, in secondo luogo quelli del trasporto. Azioni encomiabili, ma ci servirà a poco avere la doccia calda solare in casa se non avremo da mangiare. In più, si pensa di usare l'agricoltura per produrre biocombustibili, ma l'agricoltura di oggi dipende dai combustibili fossili ed è impensabile usarla per far fronte alla mancanza dei fossili. Se la crisi si presenterà da noi come si è presentata a Cuba e nella Corea del Nord (due casi esaminati in dettaglio da Pfeiffer nel suo libro), il problema consisterà nell'assicurare cibo per tutti.

I Cubani sono riusciti a sbarcare la crisi, ma per parecchi anni hanno dovuto stringere la cinghia in modo non figurato; la disponibilità alimentare per persona ha avuto un crollo brutale con la caduta dell'Unione Sovietica che riforniva l'isola di alimentari. Con grande pazienza e con un ritorno a tecniche agricole sostenibili, Cuba è riuscita a rimettere la produzione alimentare locale al passo con le necessità della popolazione. La crisi non ha causato un declino di popolazione a Cuba, che continua ancora oggi a crescere ma che sembra avviata a stabilizzarsi nel prossimo futuro su livelli sostenibili per l'economia locale. Per arrivare a questa stabilizzazione non sono state necessarie misure coercitive. L'agricoltura sostenibile, apparentemente, non genera la deleteria esplosione della popolazione che invece si produce con l'agricoltura basata sui combustibili fossili.

Come sempre, il futuro non si può prevedere, ma riguardo al futuro si può essere preparati. Pfeiffer nel suo libro descrive anche come il movimento "grassroot" può organizzarsi per far fronte alla crisi. Non è detto che questi metodi - o quelli cubani - siano applicabili al caso italiano e europeo, ma comunque dobbiamo cominciare a pensare al futuro in termini di agricoltura; altrimenti potremmo dover stringere la cinghia qualche buco di troppo.


Il libro di Pfeiffer è acquistabile sul sito mountainsentinel



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giovedì, gennaio 25, 2007

Davvero viviamo in tempi oscuri

Molti anni fa, negli anni trenta, Bertolt Brecht scrisse un poema intitolato "A quelli che verranno" che cominciava con le parole "Davvero viviamo in tempi oscuri".

Per noi, quelli che sono venuti parecchi decenni dopo, i tempi oscuri di Brecht ci appaiono lontani in un certo senso, e in un certo senso fin troppo vicini. Torture, guerra, morte, devastazione, follia; è la sensazione di qualcosa che ci sta divorando dall'interno, come gli alieni dei film di fantascienza; oppure di qualcosa ce ci invade inesorabilmente come la nebbia del nulla del film "La storia infinita". Viviamo anche noi in tempi oscuri, forse addirittura più oscuri di quelli di Bertolt Brecht.

Il legame fra i nostri tempi e quelli degli anni trenta potrebbe essere assai più concreto di quanto non appaia dai vari sintomi esteriori. E' un legame che coinvolge le basi stesse della nostra civiltà, allora come oggi dipendente da oscure sostanze estratte dal cuore della terra. Il petrolio ai nostri tempi, il carbone ai tempi di Brecht.

Non molto tempo fa, ho scoperto quanto simile fosse la storia del carbone a quella del petrolio studiando l'andamento della produzione del carbone inglese. Quello che avevo scoperto leggendo le statistiche della "coal authority" erano i veri motivi della seconda guerra mondiale, cosa che ho descritto in un articolo sulla ASPO newsletter. Tutto mi è ritornato in mente con una piccola epifania di comprensione in questi giorni leggendo un vecchio libro trovato fra le carte di una zia, l "Almanacco della Donna Italiana" del 1941. E' una specie di messaggio in bottiglia arrivato da quei tempi ormai lontani che, tuttavia, sono uno specchio perfetto dei nostri.

Da questo almanacco, sembra che la vita di 66 anni fa non fosse molto diversa da quella di oggi. Ci sono articoli su cosa fare quando ci sono i muratori in casa, come allevare i figli; si parla di arte, di letteratura e di moda. Eppure, nel 1941, la guerra era diventata qualcosa che non si poteva più ignorare. Era una cosa che cominciava a mordere nella vita di tutti i giorni, specialmente dopo la dichiarazone di guerra all'Inghilterra e il disastro che era stato l'attacco alla Grecia nell'Ottobre 1940. Troviamo a pagina 203, dopo un articolo sulla pittura contemporanea e prima di uno sulla vendita a rate e su "come essere belle", un articolo intitolato "Anno XVIII." Qui, Ridolfo Mazzucconi, prolifico autore di testi patriottici del ventennio, spiega alle donne italiane le ragioni e l'andamento della guerra.

A distanza di quasi settanta anni dall'inizio della guerra, ci rimane ancora oggi misterioso come avvenne che l'11 Giugno 1940 l'Italia si risolse a dichiarare guerra a una nazione tradizionalmente alleata, l'Inghilterra, che in quel momento non minacciava minimamente l'Italia. In qualche modo, la cosa doveva avere una sua logica al di là della follia momentanea di un dittatore. Quello che leggiamo spesso nei libri di storia è che gli Italiani erano ancora offesi con gli alleati per come erano state spartite le spoglie della prima guerra mondiale nel 1919 a Versailles. Spiegazione che va indietro a vent'anni prima ed è un po' curiosa e inverosimile. Si può veramente fare una guerra per un litigio di vent'anni prima? Ancora più curioso è che Mazzucconi non nomina niente del genere; anzi menziona la "bella fratellanza" dell'Italia con l'Inghilterra degli anni 15-18.

Questo della "bella fratellanza" non è un concetto sbagliato. Inghilterra e Italia erano state veramente "sorelle" da quando l'Inghilterra aveva aiutato l'unificazione italiana al tempo di Garibaldi. Un po' era stato perché agli inglesi faceva comodo un contrappeso mediterraneo all'impero austro-ungarico, ma anche per una genuina simpatia per gli italiani e la rivoluzione italiana di quel tempo.

I rapporti stretti e amichevoli fra Inghilterra e Italia risalivano a ben prima. Risalivano all'inizio del secolo diciannovesimo, a quando l'Inghilterra aveva reso possibile la rivoluzione industriale italiana con le sue forniture di carbone. Erano state le carboniere inglesi a trasformare l'Italia da un insieme di staterelli agricoli a una nazione industriale. In un certo senso, nell'800 l'Italia era stata una colonia inglese, ma anche molto più di una colonia. Per gli Inglesi facoltosi, il viaggio in Italia da farsi in gioventù era diventato parte integrante della loro cultura; un viaggio alle origini della civiltà occidentale, della quale l'Italia manteneva ancora le vestigia. Lo si faceva ancora nel '900 e ci ricordiamo del bel libro di Forster "Camera con Vista" che descrive la vita degli Inglesi a Firenze nei primi anni del secolo. Qualche traccia di quelle abitudini rimane ancora ai nostri giorni.

Ma negli anni trenta del ventesimo secolo, le cose erano cambiate. Qualcosa si era rotto nel rapporto fra Italia e Inghilterra, fino ad allora idillico. Nel 1935, l'Italia invadeva l'Etiopia, sconvolgendo tutti gli equilibri locali e mondiali. Quale ventata di follia ha portato l'Italia a cercarsi un impero in un paese poverissimo che non aveva niente di utile per gli Italiani? Perché andarsi a mettere in diretto contrasto con l'Inghilterra, che era alleata dell'Etiopia? Comunque fosse, era il primo passo della strada che quattro anni dopo avrebbe portato a una follia ben peggiore: la dichiarazione di guerra all'inghilterra.

Forse era soltanto follia, o forse c'era un metodo in quella follia. E un certo metodo, c'era. Lo si trova descritto in poche righe del testo di Mazzucconi. Ecco l'epifania di cui parlavo (p. 205 dell' "Almanacco"):

(L'inghilterra ordinò) con provvedimento repentino la sospensione dell'inoltro di carbone tedesco a noi diretto via Rotterdam. In compenso, si offrì di sostituire la Germania nelle forniture di carbone: ma il servizio era subordinato a condizioni tali che accettarli sarebbe stato aggiogarsi al carro dell'interesse politico britannico e pregiudicare nel modo più grave la nostra preparazione bellica. Il governo fascista rispose con la dovuta bruscheria; e il carbone tedesco che non poteva più venire per mare trovò più comoda e breve la strada del Brennero.

Questa faccenda del carbone fu una salutare crisi chiarificatrice dell'orizzonte politico. Il 9 e il 10 Marzo
(1940), Ribbetrop era a Roma e la visita diede luogo a un affermazione netta e precisa. L'asse era intatto, l'alleanza fra Italia e Germania continuava. Qualche giorno dopo, il 18, Mussolini e Hitler si incontravano per la prima volta al Brennero e allora anche i ciechi furono obbligati a vedere e i corti di mente a capire.

Queste poche righe descrivono tutto il dramma dell'entrata in guerra dell'Italia contro l'Inghilterra. Teniamo conto che l'Italia dell'epoca, come quella di oggi, non aveva carbone e che, a quel tempo, il carbone era altrettanto, e forse più, vitale di quanto lo è oggi il petrolio. Senza carbone, gli Italiani non potevano sopravvivere e lo dovevano avere o dall'Inghilterra o dalla Germania; gli unici due produttori in grado di fornirglielo. E con l'Inghilterra e la Germania in guerra fra loro, l'Italia doveva fare una scelta.

Ma questi pochi giorni del 1940, dove si decise la sorte dell'Italia, furono solo il punto culminante di una storia del carbone che era cominciata molto prima. Abbiamo detto che l'industria italiana era stata creata dal carbone inglese. Che cosa era successo che aveva rotto il legame fra Italia e Inghilterra? Che cosa aveva reso l'offerta inglese di carbone nel 1940 "inaccettabile"?

A quell'epoca, si poteva pensare che fosse la perfidia degli albionici la ragione per la quale non ci volevano fornire il carbone e, invero, Mazzucconi è autore di un testo del 1935 intitolato "La Perfida Albione". Oggi, invece, abbiamo uno strumento intellettuale che ci permette di riconoscere che cosa era successo. Un concetto semplice: il picco del carbone. La produzione inglese aveva "piccato", ovvero raggiunto il suo limite produttivo, nei primi anni 20.

Il picco ci è più noto per il petrolio, dopo che Marion King Hubbert negli anni 50 aveva previsto quello del petrolio negli Stati Uniti. Ma la teoria di Hubbert vale altrettanto bene per il carbone, come pure per tutte le risorse minerali. Il picco è il risultato della conbinazione di fattori economici e geologici; via via che si estrae una risorsa questa diventa più cara da estrarre. A lungo termine, il sistema economico del paese estrattore non riesce più a continuare a espandere l'estrazione, che comincia a declinare, Ecco qui il picco del carbone inglese (da ASPO).Il massimo produttivo del carbone inglese fu nel 1913, a quel tempo in Italia se ne importarono quasi 10 milioni di tonnellate. Dopo quella data, le importazioni di carbone inglese scesero intorno intorno alle sei milioni di tonnellate negli anni venti, per poi precipitare negli anni trenta. Allo stesso tempo, le importazioni italiane di carbone dalla Germania aumentavano (da Walter H. Voskuil Economic Geography, Vol. 18, No. 3. (Jul., 1942), pp. 247-258.).

A parte la "appropriata bruscheria" del governo fascista che Mazzucconi ci descrive, gli eventi del 1940 non fecero che sancire la situazione di fatto. L'Inghilterra semplicemente non poteva rifornire l'Italia di carbone; né allo stesso prezzo né alle stesse condizioni della Germania che non aveva ancora raggiunto il suo picco di produzione. La scelta di Mussolini fu basata molto di più sul carbone che sull'ideologia. In un certo senso era una scelta logica, anche se di una logica perversa.

Ma, al tempo di Ridolfo Mazzucconi il concetto di picco di produzione non esisteva. La caduta delle importazioni in Italia fu attribuita alla perfidia inglese, proprio come, più tardi, la grande crisi del petrolio degli anni settanta fu attribuita alla perfidia degli sceicchi. Per Mazzucconi la guerra era il risultato di una "lotta rivoluzionaria" dei popoli dell'Asse contro "il basso istinto di conservazione" delle grandi potenze, la Francia e l'Inghilterra. Sempre secondo Mazzucconi, lo scopo della guerra è, alla fin dei conti far si che "il color verdolino chiaro col quale vengono segnati per convenzione cartografica i territori italiani" prenda il posto di "molto viola francese e di troppo arancione britannico"-

Oggi, ci è facile prendere in giro Mazzucconi, la sua perfida albione e il suo verdolino italiano che rimpiazzava il viola francese e l'arancione britannico. Lui, come tutti a quell'epoca vedeva il futuro oscuramente, come in uno specchio. Il suo futuro per noi è passato e la gioia insensata con cui Mazzucconi ci racconta di come le città inglesi erano "successivamente e razionalmente" sottoposte ad "azioni distruttive di apocalittica intensità" ci appare per quello che era; totale follia. Si immaginava Mazzucconi o qualcuno in Italia che quelle azioni distruttive di apocalittica intensità sarebbero ritornate al mittente e con gli interessi? Eppure, il nostro futuro ci è altrettanto ignoto di quello che per Mazzucconi era il futuro nel 1940. Non solo altrettanto ignoto, ma altrettanto e, forse più, inquietante; specialmente riguardo alle "azioni distruttive di apocalittica intensità"

"Davvero, viviamo in tempi oscuri" diceva Bertolt Brecht. Oggi, l'oscuro potere del carbone di allora è stato rimpiazzato dall'oscuro potere del petrolio. Brecht, il futuro l'aveva visto bene; come sarà il nostro?

Veramente io vivo in tempi oscuri!
La parola sincera è follia. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
non ha ancora saputo
l’atroce notizia.

Che tempi sono questi, quando
un discorso sugli alberi è quasi un delitto,
perché evita di parlare delle troppe stragi?
E l’uomo che attraversa tranquillo la strada
potrà mai essere raggiunto dagli amici
che vivono nel pericolo?

È vero: io mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è solo un caso. Niente
di quello che faccio mi autorizza a sfamarmi.
Mi risparmiano per caso. (Basta che il vento giri
e sono perduto.)

“Mangia e bevi” mi dicono “e sii contento di esistere”.
Ma come posso mangiare e bere, quando
quel che mangio lo strappo a chi ha fame
e il mio bicchiere d’acqua manca a chi ha più sete di me?
Eppure mangio e bevo




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(da A quelli che verranno di Bertolt Brecht, 1938)

martedì, gennaio 23, 2007

Il villaggio a consumo zero

Su "La Repubblica" dell'altro giorno, 21 Gennaio, troviamo un bel titolone sulla cronaca di Firenze


IL VILLAGGIO A CONSUMO ZERO
Nasce a Sesto il più grande centro residenziale ecosostenibile.



Bello vero? O perlomeno così sembra a una prima occhiata. Leggendo il testo dell'articolo scopriamo che si progettano "600-700" abitazioni "tutte votate all'abbattimento dei consumi grazie a tecniche costruttive e impianti all'avanguardia. Questo avveniristico villaggio, un paradiso del risparmio energetico , ecc. ecc......"

Leggete meglio. Questo "paradiso" comprende otto (dicesi 8 su un totale di 600-700) appartamenti effettivamente a "consumo zero". Comprende poi 184 appartamenti di "classe A" ovvero a consumo ridotto - un terzo di quello normale.

E gli altri 408 ( o 508)? Boh? L'articolo non dice. Saranno classe X,Y oppure Z? Si dice solo che l'intero quartiere "potrà allacciarsi a un impianto di teleriscaldamento" senza dire da cosa questo sarà alimentato.

Li per li, quando lo avevo visto senza ancora leggerlo bene, avevo pensato; guarda che cosa interessante; per una volta un sindaco ha fatto una cosa buona. Strano; mi sembrava quasi una cosa inquietante. Poi, leggendo bene, mi sono tranquillizzato. L'universo continua ad essere lo stesso di sempre; continuano a prenderci per il xxxx, come sempre.



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ENERGIA, MATERIE PRIME E AMBIENTE, Firenze 10 Marzo 2007

ENERGIA, MATERIE PRIME E AMBIENTE


Giornata di Studio Organizzata da ASPO-Italia (associazione per lo studio del picco del petrolio e del gas) in collaborazione con l’università di Firenze, il Comune di Firenze e Intesa Sanpaolo.


Sabato 10 Marzo 2007 Firenze, Palazzo Vecchio, Salone dei 500


Questa giornata di studio si propone di esaminare la questione della disponibilità di materie prime, energetiche in particolare, in un ottica che parte da una visione globale per arrivare a trarre delle conseguenze anche a livello locale. Il contributo degli esperti deriva in buona parte dal lavoro dell’associazione “ASPO” (Associazione per lo studio del picco del petrolio”) il cui rappresentante internazionale presente al convegno sarà il dr. Ali Morteza Samsam Bakhtiari, esperto petrolifero Iraniano. Il convegno esamina sia il problema sulla base degli studi più recenti, sia possibili soluzioni all’avanguardia realizzate da ricercatori e imprenditori in Italia

Il convegno è aperto al pubblico e la partecipazione è gratuita. Tutte le conferenze sono in Italiano. Programma provvisorio, Gennaio 2007


INTRODUZIONE

Alfonso Pecoraro Scanio
, ministro dell’Ambiente

Claudio del Lungo, Assessore all’ambiente, comune di Firenze

Leonardo Dominici, Sindaco di Firenze


I PROBLEMI:

Ali Morteza Samsam Bakhtiari, ASPO-International, National Iranian Oil Company, La Situazione Petrolifera Mondiale

Ugo Bardi (Università di Firenze). Il ritorno del carbone.

Luca Mercalli (Società Meteorologica Italiana): La situazione climatica. Problemi globali e riflessi sulla situazione italiana

Luca Pardi (CNR, Pisa). La situazione demografica internazionale e italiana


LE SOLUZIONI:

Gaston Maggetto, (Vrije Universiteit Brussel) I Veicoli Elettrici come soluzione per il futuro del trasporto

Massimo Ippolito
(Sequoia automation, Torino). Il “kitegen” un nuovo metodo di generazione di energia eolica

Emilio Martines (CNR Padova). Prospettive della fusione nucleare

Giuseppe Grazzini (Università di Firenze). Efficienza energetica nei trasporti e nell’edilizia

Toufic el Asmar (Università di Firenze). Energia e risorse nei paesi mediterranei: veicoli elettrici ad alimentazione solare: il progetto Europeo “RAMSES” .

Carlo Buonfrate (Intesa SanPaolo), Il finanziamento degli investimenti nel settore energetico


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domenica, gennaio 21, 2007

La ritirata dei negazionisti

E' uscito su "Libero" del 18 Gennaio un articolo a firma di Antonio Martino intitolato "L’effetto serra: tante bufale inventate." Il testo è riportato più sotto, preso dal sito dell' Istituto Bruno Leoni

A una prima lettura, il contenuto dell'articolo non sembra particolarmente interessante. Leggiamo della Groenlandia che era verde al tempo dei vichinghi, che gli scienziati una volta prevedevano un'imminente glaciazione, che la terra si raffreddava quando si doveva riscaldare, eccetera. Le solite leggende, tante volte smentite, ma che persistono, apparentemente indistruttibili.

Un giorno o l'altro, queste leggende qualcuno dovrebbe catalogarle e numerarle. Così, quando uno vuol scrivere che l'effetto serra è una bufala, basta che scriva qualcosa tipo "mi riferisco alle leggende 11, 23, 42, 123 e in più gli ambientalisti sono degli stronzi" In una riga, ha detto tutto quello che c'è di critica tecnica nell'articolo di Martino. In questo modo, l'autore si risparmia la fatica di scriverlo e il lettore di leggerlo.

Ma questo articolo merita un po' più di attenzione di quanta ne valgano gli sragionamenti che si trovano comunemente su internet. Intanto, l'autore, Antonio Martino, sembrerebbe essere proprio l'ex ministro della difesa del governo Berlusconi. Non risulta che il sig. Martino abbia qualifiche nella scienza del clima, né che se ne sia mai occupato in dettaglio; la sua formazione risulta quella di un economista. L'articolo di cui ci occupiamo sembrerebbe piuttosto seguire il pensiero espresso più di una volta da Carlo Stagnaro, membro dell "executive team" dell'Istituto Bruno Leoni, nel cui sito l'articolo è apparso.

Date le qualifiche dell'autore, questo testo deve essere visto come un documento politico. Considerando i vari legami dell'istituto Bruno Leoni e dei suoi membri con le varie think thank conservative americane (per esempio il Cato Institute) lo possiamo prendere come rappresentativo di una certa linea di pensiero che al momento sembrerebbe prevalente in certi circoli conservatori negli Stati Uniti. Non è, decisamente, la sparata del solito zuccone ignorante e contento di esserlo.

Letto bene, in effetti, l'articolo di Martino non nega che il riscaldamento globale esista, nonostante le varie affermazioni che, prese isolatamente, sembrerebbero dire proprio questo. No, anzi, nell'edizione apparsa su "Libero" l'articolo era corredato di una foto di orsi bianchi in difficoltà per mancanza di ghiaccio e da un riquadro che faceva notare che gli ultimi 5 anni sono stati i piu' caldi nella storia. Più che negare il riscaldamento globale, l'articolo nega che sia opera dell'uomo. In un certo senso, è una ritirata della corrente di pensiero che possiamo chiamare "negazionista" che, fino a non molto tempo fa, tendeva ad affermare che la terra non si stava riscaldando affatto.

Se il riscaldamento globale non è opera dell'uomo, se ne potrebbe dedurre che non ci possiamo fare niente. Questa sembra essere, infatti, l'attuale linea negazionista. A un esame critico, questa linea è estremamente debole. Nessuno nega che il clima sia influenzato da vari fattori, incluso alcuni che non dipendono dall'attività umana: macchie solari, oscillazioni dell'asse terrestre, eccetera. Il problema è che se il clima è così sensibile a fattori apparentemente marginali, ne consegue che lo deve essere ancora di più di fronte al fattore assolutamente non marginale che è la combustione di idrocarburi fossili da parte degli esseri umani. Questa combustione ha causato un incremento della concentrazione di CO2 mai osservato nel milione di anni di record che abbiamo; non una cosetta da poco. Se il clima è fragile, in effetti, il minimo che si possa dire è che non si deve stuzzicarlo troppo. Anche ammesso che l'attuale riscaldamento non sia causato dall'attività umana, non è bene continuare a bruciare combustibili fossili, cosa che sappiamo esserecausa di ulteriore riscaldamento, perlomeno potenzialmente.

Anche qui, non sembra che Martino (e nemmeno Stagnaro nei suoi vari interventi sul tema) neghino veramente che l'attività umana può danneggiare il clima. Entrambi economisti, vedono il problema più che altro in termini economici. Nella loro visione, si tratta di pesare costi e vantaggi dei provvedimenti che si potrebbero prendere per fermare, o ridurre, il riscaldamento globale. Questo concetto risale ai primi lavori sul tema pubblicati da William Nordhaus che già nel 1977 era arrivato a concludere che i costi di intervenire contro il riscaldamento globale non erano giustificati dai benefici. Il recente rapporto Stern del 2006 è arrivato alla conclusione opposta, ovvero che non ci possiamo permettere di non agire contro il riscaldamento globale.

Si può essere daccordo oppure no se questo modo ragionare sia appropriato a decidere il destino di un intero pianeta. Si può anche mettersi a disquisire quantitativamente sulle stime dei rapporti costi/benefici. Ma c'è un altro punto da considerare. Abbiamo detto che questo di Antonio Martino è un documento politico e, come sappiamo economia e politica sono strettamente legate fra di loro. In particolare, la politica entra di prepotenza quando l'economia comincia ad occuparsi di come la ricchezza è distribuita.

Ora, i modelli economici che valutano i costi del cambiamento climatico sono modelli aggregati, ovvero costi e benefici sono valutati nella media. Ma la media di un pollo al giorno non ti dice che c'è chi sta digiuno e chi ne mangia due. Nella grande lotteria del riscaldamento globale ci sarà chi guadagna e chi perde.

Chi saranno i perdenti del riscaldamento globale? A parte gli orsi polari, possiamo avere il ragionevole sospetto che lo saranno quelli di noi che vivono in un paese Mediterraneo soggetto alla desertificazione e le cui infrastrutture non sono adeguate per adattarsi all'aumento di temperatura previsto. Indovinate di che paese sto parlando? Chi di noi non si potrà permettere di tenere il condizionatore d'aria acceso tutto il giorno, chi vive di un campo che non potrà più irrigare, chi non potrà ottenere il visto per emigrare in Norvegia, bene, dovremo adattarci.

In fin dei conti, il messaggio di Antonio Martino è chiaro: riscaldamento globale o no, non ci pensate neanche a porre dei limiti al sistema industriale. Questo è quello che certe lobby cercano di imporre. Per riuscirci, devono convincere quelli che subiranno i peggiori danni dal riscaldamento globale che sono vere una o entrambe queste cose 1) non esiste il riscaldamento globale o è comunque una cosa di minima entità oppure che 2) non si può far niente per evitarlo. La linea 1) sembra essere stata abbandonata perché non difendibile, ma non completamente; infatti continua a far capolino nell'articolo di Martino. La linea 2) sembra essere al momento quella che viene maggiormente spinta. Ovviamente, nessuna di queste due linee è sostenibile dal punto di vista scientifico. Hanno valore puramente politico e le si possono sostenere soltanto attraverso i metodi detti "consensus building" o "consensus management" (gestione o costruzione del consenso, la buona vecchia propaganda). Infatti, l'articolo di Martino - come del resto quasi tutti i documenti di questo tipo - usa i classici metodi della propaganda: la demonizzazione degli avversari, termini emotivamente carichi (catastrofisti) e lo spaventare la gente (il protocollo di Kyoto è un "pericolo").

Al momento, l'opinione pubblica è confusa e incerta, e sembrerebbe che il martellamento mediatico di quelli che abbiamo chiamato negazionisti stia avendo un certo successo. D'altra parte, è anche vero che al mondo esiste una realtà e che questa pone limiti alla propaganda. La realtà ha costretto il negazionismo a ritirarsi dal diniego puro del riscaldamento alla posizione attuale. Può darsi che nuove iniezioni di realtà costringano i negazionisti a ulteriori ritirate. Speriamo solo che la realtà non esageri a manifestarsi.


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L’effetto serra: tante bufale inventate
di Antonio Martino
È tornata di moda, con grande evidenza, una vecchia storia: la terra è colpita dal riscaldamento globale, che è dovuto alle attività umane; l’unico rimedio possibile per scongiurare irreparabili disastri è offerto dal protocollo di Kyoto, voluto da tutti i governi “buoni”, ma avversato dal presidente degli Stati Uniti d’America, George Bush. Tutte queste affermazioni sono o palesemente false o assai dubbie ed il fatto che vengano ossessivamente ripetute non le trasforma in verità. Varrà, quindi, la pena di riprendere tesi già sostenute in passato e tentare di stabilire come effettivamente stiano le cose. Anzitutto, infatti, non è vero che sia il presidente Bush a rifiutare di accettare gli accordi di Kyoto, sottoscritti dal suo predecessore Clinton. Quando il Senato degli Stati Uniti venne chiamato a ratificare quegli accordi, il 26 luglio del 1997 (il presidente era Clinton), il risultato fu di 95 a zero contro la ratifica. Nessuno, nemmeno gli esponenti dell’estrema sinistra del Senato americano, ha votato a favore. Per ratificare accordi internazionali sono necessari 67 voti (i due terzi del Senato); la ratifica dell’accordo di Kyoto non ne ha avuto nemmeno uno. La posizione di Bush, in altri termini, non è una sua personale fisima, ma è l’opinione condivisa dal Congresso americano e dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. In secondo luogo, mentre è lungi dall’essere dimostrato che la temperatura sul pianeta stia aumentando e che ciò sia dovuto all’emissione di CO2 connessa alle attività umane, i benefici dell’accordo di Kyoto sono semplicemente impercettibili. Nei prossimi 50 anni, l’aumento medio della temperatura previsto dal gruppo intergovernativo di esperti delle Nazioni Unite senza l’applicazione del protocollo di Kyoto sarebbe pari a circa un grado centigrado; grazie all’applicazione dell’accordo, l’aumento sarebbe, invece, di 0,94 gradi. Il vantaggio di Kyoto, in altri termini, sarebbe pari a 0,06 gradi centigradi! E questa è la stima più favorevole all’accordo; secondo Fred Singer (il fisico che ha inventato il metodo per misurare lo strato dell’ozono), l’impatto di Kyoto sarebbe di soli 0,02 gradi da qui al 2050, una variazione talmente piccola da non essere percepita dagli strumenti! Recentemente è stato pubblicato uno studio del CCSP (Climate Change Science Program) basato sui migliori dati disponibili. Mentre è vero che le temperature sono in aumento nell’Artico, è anche vero che sono inferiori a quelle che prevalevano negli anni ’30; nell’Antartico, invece, sono in calo. Ma la conclusione più rilevante che emerge da questo studio è che il contributo umano al riscaldamento globale è trascurabile, sono i fattori climatici naturali soprattutto a determinarlo. Solo così si spiega come mai fra il 1940 ed il 1975, quando i livelli di gas-serra aumentavano rapidamente, il clima si raffreddava (qualcuno arrivò persino a prevedere un’imminente glaciazione!) Quanto all’innalzamento del livello degli oceani, dovuto a fenomeni che durano da millenni, la stima di uno scienziato della NASA di un innalzamento di circa 60 centimetri ogni dieci anni, ripresa da quanti amano crogiolarsi in autentiche orge di eco-catastrofismo, è smentita dallo studio delle Nazioni Unite, che prevede una variazione compresa fra 1,4 e 4,3 centimetri a decennio, e dagli studi di Fred Singer, secondo cui l’innalzamento sarà compreso fra 1,5 e 2 centimetri a decennio. E ancora, è vero che è in atto la fusione dei ghiacciai, ma è un processo che dura da 15.000 anni e che non è quindi dovuto ad attività umane. Essendo dovuto a fattori naturali, è evidente che non possiamo controllarlo. Non sarebbe male se i catastrofisti riflettessero sul fatto che la Groenlandia venne chiamata così (“terra verde”) dai Vichinghi perché era coperta da conifere. Se oggi è un’inospitale terra glaciale, ciò è dovuto ad una modifica del clima che nulla ha a che vedere con le attività umane. Nel lungo periodo, anche in assenza di uomini sulla terra, il clima cambierebbe comunque per fattori naturali. In sintesi: è certo che la mancata ratifica del protocollo di Kyoto non è imputabile all’opposizione del presidente Bush, è certo che le variazioni climatiche non sono “antropogeniche (determinate dalle attività umane) ma sono perlopiù dovute a fenomeni naturali, e sono perlomeno dubbie le dimensioni del problema. Infine, ma più importante, il protocollo di Kyoto, lungi dal rappresentare una soluzione, rappresenta un pericolo certo. Vediamo. Anzitutto, il protocollo di Kyoto non solo non è stato ratificato dagli Stati Uniti ma non viene applicato da Paesi come la Cina e l’India che sono i principali responsabili delle emissioni globali. Il fatto che l’Unione Europea bigottamente insista nel rispetto dell’accordo è solo una palese forma di autolesionismo, di penalizzazione dell’economia europea, senza conseguenze di sorta per i nobili obiettivi dichiarati, Come se non bastasse, i gas responsabili dell’”effetto serra” sono per il 95,5% di origine naturale e solo per il 4,5% connessi ad attività umane. In altri termini, le restrizioni previste dagli accordi di Kyoto riguardano meno del 5% dei gas immessi nell’atmosfera; per potere avere un qualche effetto, quindi, le riduzioni dovrebbero essere drastiche. Le conseguenze sarebbero devastanti per tutte le economie del mondo, non solo per quella americana: un rallentamento dello sviluppo e molti milioni di posti di lavoro distrutti. Il “verdismo”, la propalazione acritica di profezie di catastrofi imminenti dovute alle attività umane, è un fenomeno pericolosamente reazionario, contrario a tutte le attività umane: la costruzione di case (“cementificazione”), infrastrutture (“deturpano il paesaggio”), energia nucleare (pericolosa), centrali tradizionali e industrie (“inquinano”), agricoltura moderna (“OGM, no grazie!”) e ricerca scientifica. Siamo in presenza forse del pericolo maggiore per le nostre libertà, il nostro benessere e lo sviluppo nell’intera storia dell’umanità.

Da
Libero, 18 gennaio 2007



(Ringrazio Mauro Ghibaudo per la segnalazione di questo articolo)

sabato, gennaio 20, 2007

un milione di Km quadrati in meno



Quella che vedete sopra è una immagine che riporta, come riga rosa l'area media occupata dai ghiacci marini a Settembre nel periodo 1979-2000.
Le quattro immagini che vedete sono invece relative agli ultimi 4 anni.

L'immagine fa parte di uno studio molto interessante, che potete leggere da soli qui:

http://nsidc.org/sotc/sea_ice.html

Riporta un grafico che sintetizza, più di tante parole, il trend in corso.


In tre anni il pack a fine Settembre si è ritirato da quasi un milione di km quadrati di mare. L'estate 2006 è stata caldissima e l'inverno che stiamo vivendo, lo sappiamo, è anche esso uno dei piu' caldi in assoluto mai registrati.

L'aggiornamento dell studio, con tutta probabilità riporterà un ulteriore ritiro di altre centinaia di migliaia di Km quadrati. Si può dire già ora con ragionevole certezza, osservando l'estensione dei ghiacci in tempo reale, qui:

http://nsidc.org/cryosphere/glance/

I media cosa dicono? Ormai si ammette che il problema riscaldamento globale esiste. E si cerca di far comprendere CHE CI SI DEVE ABITUARE.

Ma cercare di far qualcosa no, eh?
Ad esempio firmare, una buona volta, il protocollo di Kyoto o, avendolo firmato, cercare di stare nei limiti. Insufficiente, come molti studi ribadiscono, ma sempre un inizio.

Ma già, quale è il problema? Se sulle alpi piove andremo a sciare in Norvegia.


Pietro C.

Gambe in spalla e pedalare


Abbiamo un Presidente del consiglio ciclista, ci dicono di continuo ( ed hanno ragione) che un pò di moto ci farebbe bene e sappiamo bene che ogni fonte alternativa di energia dovrebbe essere incentivata.
Stimolato dalla notizia di un ragazzino delle medie che ha inventato un caricabatterie per cellulare a criceto e da una richiesta del gestore di una palestra di poter modificare le macchine della sua palestra per recuperare l'energia prodotta durante le sessioni di allenamento dei suoi clienti mi sono divertito a fare qualche conticino, ovviamente dopo essermi calato nei consueti panni della lavandaia di Borgunto.
Il risultato?
Beh, niente di entusiasmante ma l'investimento si presenta, anche a i prezzi attuali dell'energia, in grado di offrire un piccolo contributo energetico con tempi di ritorno, sempre ai costi attuali, intorno ai dieci anni. Se fosse defiscalizzato potrebbe cominciare ad essere interessante.
Ridicolo? Forse, ma non esiste LA soluzione ai nostri problemi energetici, ma LE soluzioni, miriadi di piccole soluzioni, ciascuna in grado di dare il suo modestissimo contributo.
Buona lettura.
Facciamo i conti: diciamo che noi pigroni italiani andiamo in palestra uno su sei e quest'uno due volte la settimana.
20 milioni di presenze la settimana.
Facciamo mezz'ora ( siamo pigroni) di esercizi con macchine convertibili utilmente alla produzione elettrica.
facciamo che ( siamo pigroni) pompiamo circa 100 W in quella mezz'oretta.
Ovvero lasciamo sul contatore delle palestre 0,05kWh.
Moltiplicato 20 milioni fa 1000.000 di kWh= 1GWh alla settimana (50 GWh/anno).
ovvero, mediamente, circa 2.000 barili risparmiati la settimana, 100.000 all'anno.
Ovvero circa 300 al giorno, ovvero circa lo 0,015%di quanto importiamo ( 2 milioni) e lo 0,03% ( equivalente) di quanto consumiamo per fini elettrici, ovvero pari agli impianti fotovoltaici quello che abbiamo installato nel 2006 grazie al conto energia.
Messa in un altro modo:
50 Gwh/anno corrispondono a quanto prodotto da 40 Mw di fotovoltaico installato, ovvero ad un investimento di 200 milioni di euro.
Se vogliamo corrisponde anche a quanto prodotto da una centrale tradizionale da 7 MW.

facciamo la riprova: ogni macchina viene utilizzata mediamente 5 ore e con mediamente 50 watt di potenza applicata.
Ogni giorno restituisce quindi 250 watt ora, insomma cinque centesimi, al meglio.
diciamo che in una palestra ci sono 10 macchine.
La palestra produce 2,5 kWh.

Ammettiamo che il maggior costo per allacciamento e dinamo interna sia di 300 euro/macchina ( credo sia plausibile, considerando un unico inverter da un kW allacciato alla rete).

Una macchina ammortizzerà il maggior costo in 6000 giorni: SE defiscalizzato ci vorrebbe la metà del tempo, 3000 giorni ovvero dieci anni ( come un impianto fotovoltaico)
Direi che, considerando i miseri kwh prodotti al giorno, una palestra al massimo potrebbe coprire il 10% dei PROPRI consumi.
Non è certo un gran contributo, senza dubbio.
Ma i tempi di ritorno dell'investimento non sono peggiori di quelli del fotovoltaico ed in più senza costi aggiuntivi per lo stato, basterebbe defiscalizzare la cosa o renderla detraibile.

L'italia ha la leadership nel settore delle macchine da palestra, quindi tutti soldini che resterebbero in casa.

100.000 barili di petrolio è quanto consumiamo ( piu' o meno) in un'ora.

Pero' pero'....
Forse si può fare di meglio.
Poichè la macchina termica umana ha una efficienza bassissima, il 90% dell'energia chimica che utilizziamo se ne va in calore.
Sarebbe assai piu' interessante recuperare l'energia prodotta con una pompa di calore e mi risulta, anzi che molte discoteche già lo facciano.
In questo modo, probabilmente si potrebbe recuperare almeno dieci volte piu' energia.
Comincerebbe ad essere qualcosa intorno allo 0,3% del nostro fabbisogno elettrico...quanto l'installato fotovoltaico attuale, se non ho sbagliato i conti da qualche parte.

C'e' qualche politico di buona volontà disposto a farsi ridere ( un po') dietro?

A guardare il lato positivo i giornali ne parlerebbero diffusamente
( varati gli incentivi alla produzione umana di energia elettrica, il titolo ricorrente).


8o)



Pietro C.

Il prezzo scende, il picco è ancora lontano?

Post ricevuto da Marco Lilla

Quanto scoramento in questi ultimi mesi per chi ha intuito la teoria del picco della produzione petrolifera: nonostante i tagli alla produzione dell'OPEC e degli altri Paesi produttori, le difficoltà nella capacità di raffinazione delle qualità via via meno pregiate di greggio, i prezzi che da fine agosto tendono costantemente al ribasso insinuano più di un dubbio sull'imminenza del peak oil, dunque:

Contrordine Peakoilers! Il prezzo scende, il picco è ancora lontano!?

No, non credo che il prezzo del barile, se osservato in un breve periodo, rifletta da vicino le tendenze reali che i lettori di questo blog intuiscono bene. Perché no? Perché il prezzo del barile non salta fuori dall'incontro tra fantomatiche domanda e offerta di una miriade di piccoli operatori! Infatti, penso ci siano alcuni elementi da tenere sempre a mente.

Il prezzo del barile è determinato essenzialmente dalla speculazione finanziaria, che ha luogo nei principali Paesi consumatori di risorse, USA in testa; ma questi speculatori hanno un orizzonte temporale molto breve, già qualche settimana costituisce il lungo periodo. Poi i loro feelings sono dettati dalla lettura veloce e acritica di report di poche righe, realizzeranno il picco e lo tradurranno in movimenti di prezzo solo quando qualcuno dirà loro di farlo!

Il prezzo del barile in fondo non riflette affatto anche su un periodo di diversi mesi ciò che la realtà delle quantità in gioco ci suggerirebbe. Per esempio, può essere controllato attraverso l'artificio della moneta, e la massa monetaria americana non è più di dominio pubblico casualmente da alcuni mesi! Poi un pò di complottismo non guasta, governi e multinazionali possono manovrarlo per fini geopolitici o semplici tattiche elettorali (qualche spunto qui e qui, grazie a Debora Billi).

3) infine, un prezzo che rifletta le teorie peakoil significherebbe il panico dalle parti delle borse finanziarie: da quelle parti sono molto affezionati al paradigma della crescita illimitata, Limits to Growth non è sulle loro scrivanie! In generale, il prezzo attualizza anche e soprattutto le previsioni sugli scenari futuri, basati appunto sulla proiezione in avanti del passato, un pò come fanno i Maugeri&Co., quindi perché stupirsi?!

Il prezzo del barile riflette la realtà della produzione e del consumo solo se osservato su un periodo abbastanza lungo perché le tendenze reali possano manifestarsi. Insomma lo sappiamo, sono le quantità che contano!



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venerdì, gennaio 19, 2007

Un miglio cubico di petrolio

Vi ricordate nei fumetti di Topolino che il deposito di dollari di zio Paperone era di "tre ettari cubici"? Bene, la produzione mondiale di petrolio è molto più grande come volume.

L'attuale produzione di petrolio "convenzionale" corrisponde approssimativamente a un miglio (1.6 km) cubico di petrolio all'anno, ovvero 26 miliardi di barili. L'immagine qui sopra, da "The Oil Drum" da un'idea delle dimensioni del cubone, comparato alla torre Eiffel.

Per una definizione scientifica dell "ettaro cubico" di Paperon de Paperoni vedi questo link. Si suppone comunque che un ettaro cubico sia un cubo la cui faccia è un ettaro, ovvero ha cento metri di spigolo. Corrisponde quindi 10^6 metri cubi. Un miglio cubo ha uno spigolo di 1.6*10^3 m, quindi ha un volume di 4*10^9 metri cubi. Ne consegue che il cubone di petrolio annuale può contenere più di mille depositi di Paperone.

La domanda successiva sarebbe com'è che a uno gli viene in mente di fare questi conti, ma lasciamo perdere.......












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Bush si converte sul clima?


Voci e controvoci si susseguono sul prossimo discorso del presidente Bush sullo stato dell'Unione, previsto per la fine del mese. Si dice, e si nega, che sulla spinta del primo ministro Tony Blair resenterà un cambiamento radicale della politica americana rispetto ai cambiamenti climatici, accettando adesso di mettere dei limiti alle emissioni di gas serra.

Meglio tardi che mai; forse, ma anche se George W. Bush si trasformasse in un santo con l'aureola non ci sarebbe troppo da illudersi. Ci sono delle ragioni economiche profonde che fanno si che gli Stati Uniti sarebbero comunque in difficoltà per adattarsi a un obbiettivo di riduzione delle emissioni. Basti il fatto che il loro sistema energetico è basato in gran parte sul carbone per la produzione di energia elettrica, il combustibile più inquinante che esiste. Ma anche il trasporto estremamente dispersivo e tutto basato su combustibili fossili; un disastro insomma.

Se poi l'idea per ridurre le emissioni è di rimpiazzare la benzina con etanolo da mais (come dicono nell'articolo qui sotto), allora non ci siamo proprio. Il mais (corn) prodotto negli Stati Uniti esiste soltanto grazie a quantità massicce di fertilizzanti, pesticidi, e meccanizzazione; tutte cose che derivano dal petrolio. Poi, per fare etanolo da mais occorre una distilleria che, negli Stati Uniti, funziona quasi sempre a carbone. Inoltre, la resa energetica del processo di produzione è bassa; secondo i calcoli siamo vicini al punto in cui ci vuole più energia fossile per produrre un litro di etanolo di quanto quel litro di etanolo potrà produrre in un motore. Per finire, l'etanolo usato come combustibile nei veicoli consuma mais che non può essere usato per scopi alimentari e la produzione alimentare è in grossa difficoltà ovunque.

Insomma, niente da stare allegri. Ma vediamo almeno cosa ci dirà il presidente. Dopotutto, Paolo di Tarso fu fulminato sulla via di Damasco e le vie del signore sono infinite. Fulminerà George Bush sulla via di Washington?





Bush Set for Climate Change U-turn
Guardian via Buzzle.com

Downing Street says that belated US recognition of global warming could lead to a post-Kyoto agreement on curbing emissions.
~~
George Bush is preparing to make a historic shift in his position on global warming when he makes his State of the Union speech later this month, say senior Downing Street officials.

Tony Blair hopes that the new stance by the United States will lead to a breakthrough in international talks on climate change and that the outlines of a successor treaty to the Kyoto agreement, the deal to curb emissions of greenhouse gases which expires in 2012, could now be thrashed out at the G8 summit in June.

The timetable may explain why Blair is so keen to remain in office until after the summit, with a deal on protecting the planet offering an appealing legacy with which to bow out of Number 10.

Bush and Blair held private talks on climate change before Christmas, and there is a feeling that the US President will now agree a cap on emissions in the US, meaning that, for the first time, American industry and consumers would be expected to start conserving energy and curbing pollution.
(13 Jan 2007)



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giovedì, gennaio 18, 2007

il petrolio e i comuni mortali


I prezzi del petrolio continuano ad abbassarsi; al Nymex sono ora fra i 50 e i 52 dollari al barile.

Curiosamente, la discesa dei prezzi non corrisponde a una crescita della fornitura. Al contrario, un po' dovunque, la produzione cala. A sinistra, vediamo la produzione saudita nell'ultimo anno e mezzo (da "econbrowser").

Questi dati sembrerebbero dare ragione a Matthew Simmons che, con il suo "Crepuscolo nel deserto" del 2003 ha sostenuto che la produzione Saudita avrebbe cominciato a declinare a breve scadenza a causa del graduale esaurimento.

D'altra parte, c'è anche chi dice che i Sauditi stanno deliberatamente riducendo la produzione per cercare di mantenere alti i prezzi. Può darsi, ma se è vero, chi è che sta producendo? Altri produttori sono in declino terminale. La produzione mondiale di petrolio "convenzionale" è ferma ormai da quasi due anni a 73 milioni di barili al giorno (dati IEA). Sta ancora aumentando la produzione degli "altri liquidi", ma sembrerebbe che a tutti gli effetti pratici abbiamo piccato fra il 2005 e il 2006.

Può darsi che il picco si manifesti con un'abbassamento dei prezzi? Non è impossibile che il calo della domanda sia più importante del calo dell'offerta; questo potrebbe essere sia il risultato dell'inverno anormalmente caldo, sia di una recessione imminente. Nel primo caso, ci possiamo aspettare un bel rimbalzo dei prezzi appena farà un po' più freddo, oppure quando accenderemo i condizionatori d'aria (se continua così, forse già a Marzo?). Nel secondo, il prezzo continuerà ad abbassarsi ma avremo altri e peggiori problemi di quelli dei prezzi della benzina

Come sempre, comunque, il petrolio segue sue regole che sembrano sfuggire alla capacità di comprensione di noi comuni mortali.




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domenica, gennaio 14, 2007

L'Erba del Ruanda

Nei commenti che appaiono sui giornali a proposito della strage di Erba, i perpetratori sono spesso definiti "mostri". L'etimologia della parola indica qualcosa di straordinario, di inusitato, appunto da "mostrare".

Eppure, le foto degli assassini di Erba, le parole che sono loro attribuite, il loro comportamento, sono cose che non sembrano tanto straordinarie; piuttosto sembrano una folle parodia della normalità.

In effetti, il comportamento dei mostri di Erba potrebbe essere più "normale" (inteso come comune) di quanto non sembri. Pochi dei commentatori di questi giorni hanno visto negli eventi di Erba il parallelo con un evento recente, simile anche se più su larga scala; le stragi in Ruanda del 1994.

Se a noi sembra incredibile, inusitato, inspiegabile, che una coppia di persone normali massacri a coltellate i propri vicini di casa; in Ruanda è successo esattamente questo, soltanto non una volta ma abbastanza volte da fare un totale di, forse, un milione di vittime. Anche li', i vicini di casa hanno massacrato i loro vicini di casa. Coloro che si ritenevano parte dell'etnia detta "Hutu" hanno massacrato quelli che ritenevano parte dell'etnia detta "Tutsi", persone che parlavano la stessa lingua e che vivevano nello stesso paese da secoli e secoli. La follia della vicenda è ancora maggiore se pensiamo che gli Hutu hanno allegramente massacrato non solo i Tutsi, ma anche altri Hutu.

La ragione degli eventi del Ruanda ancora oggi ci sfugge. Non riusciamo a capire cosa possa essere accaduto che ha trasformato in maniaci omicidi tante persone che avevano famiglie, genitori, figli, case e una vita che non poteva essere troppo diversa da quella di tutti quelli che hanno le stesse cose. Gli stessi assassini, interrogati qualche anno dopo i fatti, non sembrano in grado di rendersi conto bene di quello che è successo. Sembra che si siano trovati a vivere in un incubo; in uno di quei brutti sogni dove le regole della vita normale non valgono più per essere sostituite da regole mostruose che tuttavia sembrano normali nel mondo folle e perverso del sogno. Un sogno sanguinoso che era una folle parodia della normalità.

Questa folle parodia della normalità, dove ci si libera di un vicino di casa come se fosse un animale pericoloso, sembra essere alla base della strage di Erba altrettanto bene di quelle del Ruanda. Ma come ci possiamo spiegare questa discesa nella follia, questa perdita di ogni contatto con i riferimenti morali di una cultura, la nostra e come quella Ruandese, anch'essa tradizionalmente cattolica, che dovrebbero accettare, in principio, l'idea di "ama il prossimo tuo come te stesso"? E comunque l'idea che il prossimo non si uccide a coltellate quando è fastidioso non è patrimonio esclusivo del cattolicesimo ma di tutti gli uomini di buona volontà di questo disgraziato pianeta.

Jared Diamond nel suo libro "Collapse" del 2005 si è provato a fare un'analisi della situazione Ruandese e di cercare i motivi che hanno portato al collasso sanguinoso della società. La visione di Diamond è stata discussa e anche criticata, ma c'è qualcosa di giusto nel quadro che dipinge di un paese che aveva esaurito le sue risorse. Il Ruanda era, ed è tuttora, uno dei paesi più fertili e più popolati dell'Africa, ma queste stesse caratteristiche lo avevano portato a sovrasfruttare il suolo. A causa dell'erosione, l'agricoltura era arrivata al collasso e la discesa nella follia è stata la reazione di gente che non vedeva altri sbocchi che il farsi spazio a spese dei propri vicini. Così è stata la discesa nella follia della coppia assassina di Erba che, evidentemente, non vedeva altro spazio a sua disposizione che quello che poteva ottenere eliminando i propri vicini.

Il Ruanda non è stato l'unico esempio di follia omicida collettiva nella storia; è solo il più vicino a noi nel tempo. Ce ne sono stati molti altri, Diamond nel suo libro ne riporta alcuni. Qui, vale la pena di ricordare soltanto quello della Germania degli anni 1920, esausta, disperata e umiliata, che non ha trovato di meglio che rifugiarsi nella follia nazista per poi fare su larga scala ai gli stati vicini quello che un giorno la coppia di Erba avrebbe fatto ai vicini di pianerottolo.

La coppia assassina di Erba ci può sembrare mostruosa e rara; il caso del Ruanda remoto per la distanza e la differenza di cultura; il caso della Germania una follia particolare e forse irripetibile che pure ha preso un popolo vicino a noi culturalmente e geograficamente. Ogni evento nella storia è particolare e può essere un'eccezione. Ma, presi tutti insieme, questi casi e quelli che riporta Diamond, disegnano un quadro preoccupante.

Viviamo in un mondo che sembra aver perso ogni riferimento a una visione della vita non basata esclusivamente sulle risorse materiali. Per questo, forse siamo più vulnerabili allo stress da carenza di risorse di quanto non vogliamo ammettere e, forse, la follia omicida che sta percorrendo il mondo in questo momento, è causata proprio da questo (e la coppia assassina di Erba ne è una piccola ma non isolata manifestazione). Stiamo diventando mostri anche noi? Chissà?




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mercoledì, gennaio 10, 2007

Se sai, insegna; se non sai, impara: la polemica sull'energia eolica

Il titolo di questo post si riferisce a un vecchio proverbio Somalo (incidentalmente, preso dall'eccellente mostra fotografica sulla Somalia dell'Università della Tuscia che è esposta a Mantova in questi giorni).

Dal proverbio, possiamo dedurre dei corollari, uno dei quali è che "se non sai, è meglio che non insegni" che è una saggia massima che eviterebbe tanti errori clamorosi. Purtroppo, un caso in cui la massima è stata ignorata è in una recente polemica contro l'energia eolica in cui si è lanciato Carlo Cerofolini sul sito "ragionpolitica" di Forza Italia.

La polemica di Cerofolini è di tipo politico più che tecnico; ovvero è una serie di attacchi agli ambientalisti accusati di imbrogliarci consapevolmente allo scopo di rifilarci quella "patacca" che è l'energia eolica. A parte gli insulti basati sull'ideologia, tuttavia, Cerofolini deve ben basarsi su qualcosa di concreto se vuole dimostrare che l'energia eolica è un imbroglio. In pratica, si basa principalmente sul fatto che l'energia eolica costa più cara di altre.

Questo sarebbe già di per se discutibile; il costo dipende da tanti fattori e se si includono i cosiddetti "costi esterni" le cose cambiano in favore dell'eolico. Comunque, ammesso anche che sia vero che l'energia eolica costa più cara di altre, la critica rimane molto debole. I prezzi sono variabili che cambiano rapidamente. Se avessimo dovuto giudicare tecnologie come, per esempio, i telefoni cellulari solo una quindicina di anni fa soltanto sulla base del prezzo di allora, avremmo concluso che erano una tecnologia troppo cara per essere degna di considerazione. Il progresso tecnologico cambia rapidamente le cose; l'energia eolica è una tecnologia ancora giovane, suscettibile di sostanziali miglioramenti. Basta pensare, per esempio, al progetto kitegen per l'eolico d'alta quota che promette riduzioni di costi che potrebbero essere veramente radicali.

Cerofolini stesso sembra rendersi conto che la sua critica basata solo sul prezzo è debole. Si lancia di conseguenza con grande foga in una serie di argomentazioni che non fanno onore alla sua competenza sull'argomento. Prima scopre che la potenza media di una torre eolica è minore di quella massima, come è logico che sia. Poi si lancia a sostenere che l'energia eolica è peggiore di quelle tradizionali anche in termini di emissioni di gas serra:

Per quanto poi attiene l'emissione dei cosiddetti gas serra in atmosfera provenienti dai vari tipi di centrale elettrica(1) - riportati in grammi di anidride carbonica equivalenti per 1 KWh - secondo ricerche fatte dall'Istituto svizzero Paul Scherrer si hanno i seguenti valori: lignite: 1340, carbon fossile: 1071, petrolio: 855, gas naturale: 605, energia nucleare: 16, forza idrica: 4, fotovoltaico (p-Si): 193, fotovoltaico (m-Si): 121, vento: 36; solo che, alla luce di quanto prima scritto, per sostituire 1 KW convenzionale occorrono ben 24 KW eolici installati e quindi il valore di gas serra equivalenti di questa fonte vanno moltiplicati per 24 e così passano da 36 grammi a 864 grammi per KWh, dato che è di poco superiore a quello delle centrali a petrolio e più alto del 43% di quello delle centrali a gas.

Il lettore non completamente familiare con certe questioni tecniche potrà aver bisogno di un attimo di attenzione per capire l'errore madornale in cui è caduto Cerofolini, ovvero quello di confondere la potenza con l'energia. Cerchiamo di spiegare come stanno le cose.

Energia e potenza sono correlate, ma decisamente non sono la stessa cosa. La potenza si definisce come l'energia prodotta (o consumata) per unità di tempo. Ci aiuta nella comprensione un parallelo automobilistico: un motore potente può produrre rapidamente energia e questo si traduce in velocità del mezzo. L'energia, invece, la possiamo prendere come, grosso modo, proporzionale ai chilometri percorsi. Si possono fare gli stessi chilometri con macchine di potenza massima molto diversa ma, ovviamente, in tempi diversi.

La potenza si misura in "chilowatt" (kW) mentre l'energia si esprime spesso (anche se questo non è del tutto corretto) in "chilowattora", (kWh). 1 kWh corrisponde all'energia prodotta da un motore di 1 kW che funziona a potenza costante per un'ora. Notate che secondo le convenzioni del sistema internazionale la "k" si scrive minuscola in entrambe i casi. Cerofolini sbaglia scrivendo "KW" e "KWh." Questo è un dettaglio, ovviamente, ma è spesso un dettaglio rivelatore che chi fa questo errore è un dilettante.

Detto questo, le centrali eoliche sono un po' come i motori delle automobili; hanno una potenza massima (o "nominale") ma non funzionano quasi mai alla potenza massima. Un'automobile può avere, diciamo, 50 kW di potenza massima, ma nella pratica per viaggiare in città ne basteranno 10 o 20. Possiamo definire come una "potenza media" nell'uso di un'automobile e lo stesso possiamo fare per una torre eolica. La potenza massima e la potenza media sono correlate fra loro attraverso un fattore che viene definito come "fattore d'uso." Nel caso di una torre eolica, in un sito ventoso, la potenza massima può essere 5-6 volte quella media (non 24 volte come dice Cerofolini, ma questo è un altro discorso)

Invece, l'energia fornita da una torre eolica è un po' come i chilometri percorsi da un'automobile. I km percorsi si accumulano uno dopo l'altro, non c'è un "chilometro medio" contrapposto al "chilometro massimo" così come non c'è un'"energia media" contrapposta a un "energia massima".

Vedete allora l'errore di Cerofolini. Non ha torto (a parte il fattore numerico esagerato) quando dice che

per sostituire 1 KW (sic) convenzionale occorrono ben 24 KW (sic) eolici installati

Ma a questo punto fa confusione fra energia e potenza, scambia i kW con in kWh, e dice

e quindi il valore di gas serra equivalenti di questa fonte vanno moltiplicati per 24

il che è una sciocchezza; è come se dicesse, nel caso di un'automobile, "i litri di benzina consumati vanno moltiplicati per 24" per tener conto del fatto che la potenza massima del motore è (ipoteticamente) 24 volte quella media.

Ne consegue che, quando nei vari testi si da il valore dei gas serra emessi in funzione dei kWh prodotti, questo è un valore perfettamente comparabile con le emissioni per kWh di ogni altra fonte energetica. Come è ovvio, dunque, e al contrario di quanto sostiene Cerofolini, l'energia eolica ha emissioni di gas serra molto inferiori a quelle delle fonti tradizionali secondo gli stessi dati che Cerofolini presenta.

Per maggiore chiarezza, dovremmo anche aggiungere che, durante l'uso, un impianto eolico NON emette gas serra di nessun tipo. Le emissioni che Cerofolini cita sono dovute all'energia necessaria per costruire e montare l'impianto, cosa che oggi viene fatta utilizzando in gran parte energia fossile. Ovviamente, in un futuro che si spera non sia troppo remoto, sarà possibile costruire e montare impianti eolici usando energia totalmente creata da fonti rinnovabili. A questo punto, l'eolico, come anche il fotovoltaico e altre tecnologie rinnovabili, saranno totalmente a "zero emissioni."

Spiegata la cosa, potremmo anche farci quattro risate sulla gran confusione che ha fatto Cerofolini, ma vale anche la pena di rifletterci sopra. L'energia è una cosa seria; senza energia non si può sopravvivere e senza energia a buon mercato il sistema industriale italiano non può sopravvivere; con esso non può sopravvivere la nostra prosperità come nazione. Fare delle scelte sull'energia vuol dire influenzare profondamente il nostro futuro e quello dei nostri figli. Non lo si può fare sulla base di considerazioni raffazzonate, ideologiche, e semplicemente sbagliate come quelle che abbiamo visto.

Questo non vuol dire che le scelte di politica energetica debbano essere lasciate ai soli specialisti; al contrario in democrazia abbiamo bisogno di un pubblico informato e consapevole che sia in grado di fare delle scelte. Ma se si vuole che il pubblico decida consapevolmente bisogna fare in modo che riceva informazioni corrette e sensate. Un sito definito come "Dipartimento Formazione" del maggior partito politico italiano non fa bene il suo dovere quando ospita testi di basso livello come quello di cui abbiamo discusso qui. Chi pretende di insegnare, secondo un altro corollario del proverbio somalo, dovrebbe prima preoccuparsi di imparare.






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Orsi, cammelli e dollari


Con il petrolio, siamo in una situazione "strana," per dirla gentilmente. Le notizie dall' orso russo petrolifero sembrano le più strane di tutte. Ci arriva la notizia che la Bielorussia ha cominciato a rubare petrolio dall'oleodotto che porta il petrolio russo in Germania. In qualche giorno hanno tirato via quasi 80.000 tonnellate secondo Semyon Vainshtok, presidente di "Transneft" che si occupa dell'oleodotto. A questo punto la Russia ha bloccato l'oleodotto ed è curioso che gli europei se la siano presa tutti con la Russia e non con la Bielorussia.

Sempre a proposito del petrolio e gas Russo, il senatore americano Lugar (presidente del Foreign Relations Committee) aveva sostenuto in un articolo apparso sul Washington Post una settimana fa che la NATO dovrebbe prendere qualsiasi interruzione di fornitura dalla Russia come un atto di guerra e agire di conseguenza. Non c'è che da sperare che nessuno gli dia retta; o che qualcuno gli spieghi che non è cosa buona invadere la Russia in inverno, nenche in tempi di riscaldamento globale.

In altri settori, le cose non sono meno strane. Dal paese dei cammelli, non orsi, l'Arabia Saudita, ci arriva la notizia che la produzione Saudita; proprio ieri, 9 Gennaio, la Aramco ha annunciato un taglio alle forniture ai paesi asiatici. Sono i tagli imposti dall'OPEC, si dice. Forse, ma la discesa della produzione saudita era cominciata già da Agosto dell'anno scorso.

Nel frattempo, continua la discesa del "petrolio di carta", quello dei mercati finanziari, sceso per un breve attimo sotto i 54 dollari al barile al Nymex, 9 Gennaio. La produzione cala, ma i prezzi scendono. Sembra che sia dovuto alla scadenza di alcuni contratti che gli investitori si devono affrettare a concludere. Sembrerebbe anche un effetto psicologico di "trend" che viene percepito come in calo.

Su tutto, aleggia la voragine umana e finanziaria della guerra in Iraq e di quella, possibile, in Iran di cui si continua a parlare con insistenza.

La situazione è, davvero, strana e instabile. Se il petrolio di carta si accorge di cosa sta succedendo al petrolio vero, c'è tutto il potenziale per un bel rimbalzo verso l'alto. Se al tutto si aggiunge una bella guerra, beh, quest'estate avremo di che ragionare su orsi russi e cammelli sauditi.





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