venerdì, marzo 30, 2012

I brufoli e la gobba

Ovvero "nucleare e molto altro" - Settembre 2011


Di Mirco Rossi

già pubblicato su
O LA BORSA O LA PACE? TRA CRISI RIVOLUZIONI E ATTESE 
Annuario geopolitico della pace 2011 
della Fondazione Venezia per la Ricerca sulla Pace 
Altreconomia Edizioni www. Altreconomia.it/libri 19,90 euro


Sino a qualche mese fa si parlava in continuazione di brufoli: uno era in pericolosa suppurazione e alcuni nuovi stavano per nascere in luoghi molto più fastidiosi di altri. La particolare attenzione con cui si è reagito ha bloccato i nascituri (almeno per ora) ma non ha potuto guarire l’infezione che sta proseguendo, solo un po’ circoscritta da bende precarie ma in un posto lontano, che a noi non dà molto fastidio. Molti altri foruncoli rischiano di maturare e iniziare a spargere i loro germi patogeni tutt’intorno; ce dovremmo preoccupare, ma come al solito sinché non succede non ce ne curiamo.

Abbiamo salvaguardato il nostro giardino, il resto ci appassiona poco; ci rimane indifferente quasi come quella gigantesca gobba, da cui i brufoli si alimentano e sono cresciuti. Nemmeno la notiamo, quasi sia un’entità trasparente, invisibile, inconsistente. Eppure sotto di essa gemono, sempre più compressi e sofferenti, l’economia, lo sviluppo, l’occupazione, le crisi che attanagliano questa civiltà globale, dei consumi e della crescita.

Nel delirio dell’illusione di onnipotenza, maturata sui progressi della scienza e della tecnologia, si procede senza sosta a sfruttare la natura e le sue risorse, dimentichi dei limiti che caratterizzano la realtà. Una realtà che investe anche la dimensione numerica della presenza umana su questo pianeta.

La terra non è una cornucopia che, come racconta la mitologia, rigurgita frumento o frutta all’infinito. Le risorse non rinnovabili (minerali, metalli, combustibili) sono state già in larga parte estratte e distrutte; alcune hanno iniziato un lento inarrestabile declino, per altre gli scenari non escludono a breve l’esaurimento o una presenza residuale.

Quelle rinnovabili spesso non risultano più disponibili a sufficienza in quanto sfruttate ad una velocità superiore a quella del naturale ciclo di rinnovamento e conservazione (pesci, foreste, acqua potabile, territorio fertile).

Particolarissima importanza assume la sfera dell’energia fossile (petrolio, gas, carbone) e nucleare in quanto garantisce oggi circa il 90% del fabbisogno energetico del pianeta.

E dovrebbe far riflettere il fatto che nulla, che non sia totalmente naturale, possa essere prodotto, fatto, trasformato, trasportato, lavorato senza l’apporto di un certo quantitativo di energia che, mentre viene impiegata, si degrada e non risulterà mai più disponibile.

Ogni manufatto, di qualunque tipo, “assorbe” una quota di energia, sostanzialmente irrecuperabile, per sempre.

Stiamo tirando fuori dalla crosta terrestre, per distruggerle definitivamente in circa due secoli, enormi quantità di risorse formatesi poco dopo il big-bang (uranio) o nelle ultime centinaia di milioni di anni (carboni e idrocarburi). E mentre da qualche anno si sta evidenziando una certa sensibilità per i tragici omaggi che i processi di trasformazione di queste energie primarie rilasciano nell’ambiente (inquinamento, riscaldamento globale, mutazioni climatiche), quasi nessuna attenzione viene posta al fatto che una tale ricchezza “di base” non può durare in eterno. I quantitativi presenti in natura sono quasi sempre imponenti, ma per forza di cose limitati (in misura diversa caso per caso) e quando costruiamo qualcosa rimane sempre meno energia per il futuro.




Segnali critici di declino per qualche risorsa sono ormai evidenti e dovrebbero allarmare tutti coloro (e sono tantissimi, a destra, a sinistra, in alto e in basso della scala sociale) che rincorrono la crescita continua di beni, di oggetti, di prodotti.

L’idea di crescita si è installata nell’immaginario collettivo, sia nella frazione ricca che in quella povera del mondo (qui almeno in parte giustificata!), ed è vissuta come un diritto naturale, con l’aggravante che sempre più spesso essa genera una “ricchezza” effimera, superficiale, frivola, incapace di rispondere al bisogno di reale benessere insito in ogni persona.

Lo sviluppo fondato sulla crescita quantitativa (in progressione geometrica) viene ostinatamente perseguito come unica risposta all’aumento della popolazione mondiale, al problema del lavoro, dell’occupazione; viene letto come sinonimo di prosperità e miglioramento sociale, proposto come medicina taumaturgica capace di “risolvere” (con artificio matematico) da sola la questione del debito pubblico. Dimentichi che l’abitudine di chiudere i bilanci statali “in rosso”, ormai consolidata in quasi tutti i paesi del mondo, si configura in realtà come un vivere “a credito” (non autorizzato) delle generazioni future, lasciando loro un mondo sempre più caldo, inquinato, indebitato e con i magazzini di risorse naturali pressoché esauriti.

Eppure l’irrazionalità dell’idea che risorse limitate per definizione possano garantire una crescita senza fine, emerge in tutta evidenza. Con una semplicità che appare persino offensiva.

In parecchie decine di conferenze, dibattiti, tavole rotonde, prima del referendum di giugno ho parlato a lungo di brufoli-nucleari chiarendo già alle prime parole che, pur rappresentando essi un problema con i fiocchi, la questione gigantesca che abbiamo davanti è altra. All’inizio mi si guardava sempre con un certo sospetto ma al termine una nuova consapevolezza serpeggiava tra il pubblico. Fuor di metafora, l’energia nucleare per uso pacifico rappresenta solo l’aspetto più epidermico, minoritario e non certo risolutivo del desiderio insensato che l’umanità ha di garantire a sé stessa la disponibilità di energia necessaria a continuare sulla strada della costante crescita, dell’incremento anno su anno del PIL.

Dopo Fukushima, ampi strati di cittadini hanno dato vita a una forte opposizione contro l’energia elettronucleare, in gran parte originata dall’emozione degli eventi e dalla paura che un disastro di tali dimensioni ha risvegliato. Pochi tuttavia conoscono i motivi che, oltre ai ben noti e gravi pericoli per la salute (soprattutto in caso d’incidente) e ai problemi relativi alle scorie, giustificano una tale contrarietà. Alcuni emergono chiaramente se si allarga lo sguardo al panorama completo delle fonti energetiche primarie (idrocarburi, carboni, idroelettrico, nuove rinnovabili, geotermico):

1) L’energia nucleare (oltre 430 reattori, teoricamente attivi) produce un quantitativo di elettricità che a livello mondiale rappresenta solo poco più del 5% dell’energia primaria e del 12 % dell’energia elettrica.

2) L’elettricità rappresenta meno del 40% dei consumi energetici mondiali. Se anche, come ormai risulta opportuno, possibile e necessario, si riuscisse ad aumentare questa quota (convertendo per esempio i sistemi di trasporto da combustione interna a elettrico) una larghissima parte dei nostri fabbisogni energetici resterebbe “scoperta”, non potrebbe mai essere soddisfatta con la fonte elettrica (servirà carbone per ridurre i minerali di ferro a ghisa, petrolio e gas per tutte le plastiche, i fertilizzanti, i lubrificanti, i carburanti, i tessuti sintetici, la gomma, gli asfalti, i medicinali, i colori, le colle ecc).



3) L’uranio, unico elemento in grado oggi (ma probabilmente anche in futuro) di mantenere attiva autonomamente nel tempo una reazione di fissione nucleare, è un metallo ricavabile da particolari minerali, che solo in quantità limitata lo contengono in percentuali sfruttabili. Le stime sulle riserve ancora esistenti variano parecchio, tanto che quelle ottimistiche parlano di poco meno di un secolo di durata mentre quelle pessimistiche di meno di un trentennio. Si sta iniziando a lavorare minerale con tenori di uranio sempre più bassi, scontando un progressivo aumento dei costi. Già da tempo è più conveniente recuperare nuovo combustibile dalle cariche delle bombe dismesse con gli accordi SALT e rilavorando il cosiddetto “uranio impoverito”.

4) Nessuno è in grado di definire oggi, in particolare dopo quanto accaduto a Fukushima, il costo della costruzione di una centrale nucleare. Per la centrale di Olkiluoto (quasi terminata sulla base di un progetto approvato nel 2002), la sola di cui siano disponibili in termini accettabili i costi, si parla ormai di oltre 6,5 miliardi di euro. Alla messa in servizio dell’impianto mancano parecchi mesi, se non anni, e non è escluso che il disastro giapponese obblighi a nuove misure di sicurezza che complicherebbero il quadro. Non casualmente dalla fine degli anni '70 i privati si sono tenuti ben lontani dall’industria nucleare, rimasta appannaggio delle strutture statali, spesso interessate a questa tecnologia particolarmente onerosa per scopi non propriamente pacifici.

5) Nessuno ha mai realmente implementato nei costi della centrale il prezzo del suo smantellamento a fine vita. Si tratta di una cifra molto elevata ma in realtà sconosciuta, relativa a un’operazione affatto risolutiva dei problemi legati alla radioattività residua e che dura da alcuni decenni, a secoli o millenni. Le esperienze sinora fatte sono poche e parziali e non permettono di esprimere standard di costi affidabili. Nella fase iniziale dell’epoca nucleare la questione non veniva presa in considerazione; da qualche tempo alcuni paesi (Francia e USA) hanno deciso di implementare nel prezzo del kWh una quota da accantonare per finanziare lo smantellamento dell’impianto. Alcuni stimano che l’ordine di grandezza complessivo di questo onere non sia molto lontano da quello di costruzione dell’impianto.

6) Gradualmente negli ultimi 30 anni quasi un centinaio di reattori sono stati spenti per “vecchiaia” e sono in attesa che si creino le condizioni per iniziare le attività di smantellamento. Le risorse a questo scopo non sono facilmente reperibili, come non lo sono quelle necessarie a mantenere in efficienza molti altri impianti nucleari ormai “anziani”. Inghilterra e Francia ne hanno diversi “in grave difficoltà”, per carenza di risorse manutentive. Negli USA aumentano le denunce di scarsa manutenzione degli impianti più vecchi. Gli stress-test a cui dopo Fukushima si è deciso di sottoporre tutti gli impianti, se fatti seriamente aumenteranno di sicuro il numero di casi bisognosi di significativi interventi se non di anticipata chiusura.

7) Nessuno ha mai potuto o può definire i costi reali della messa in sicurezza e conservazione nel tempo delle scorie e dei materiali radioattivi provenienti dallo smantellamento. Lo stoccaggio oggi non può far riferimento a nessun deposito definitivo funzionante. Asse II° nella Bassa Sassonia sembrava sigillato per sempre dagli anni ’80 ma a causa di impreviste e pericolose infiltrazioni d’acqua molto probabilmente dovrà essere aperto e svuotato dei suoi 126.000 fusti. Yucca Mountain nel Nevada era prossimo a iniziare l’attività quando, a seguito di nuove valutazioni geologiche, il sito è stato bocciato: dopo quasi 30 anni di lavori (e decine e decine di milioni di dollari spesi) il progetto ora è completamente abbandonato. Inoltre il mantenimento in sicurezza di un sito non ha tempi prevedibili e quindi risulta pressoché impossibile definirne l’onere.

8) Come indefinibile a priori (e anche a posteriori) è il costo economico di un incidente grave. Seppure le vittime della fase critica iniziale degli incidenti nucleari, almeno sinora, siano state inferiori a quelle di altri incidenti ritenuti pressoché “normali” in questa epoca, l’impossibilità di eliminare la radioattività e le sue tragiche conseguenze sul biosistema, per tempi molto lunghi, rende “non valutabile” (quindi non accettabile) il danno inferto a intere regioni; dal punto di vista materiale ma ancor più etico e sociale. Per “default” di questi problemi è costretta a farsi carico la società nel suo insieme, per generazioni.

Se, in uno scenario di persistente crisi economica mondiale, si considera il modesto ruolo quantitativo e temporale che la fonte nucleare può svolgere nel panorama energetico globale e si sommano le criticità relative al mantenimento in funzione degli impianti che invecchiano, la crescita dei costi di costruzione di nuovi impianti rispondenti a più elevati livelli di sicurezza, i limiti relativi alle risorse di uranio, l’incognita degli oneri di smantellamento, gli insoluti problemi di stoccaggio delle scorie e il crescente rifiuto sociale, diventa completamente irrazionale immaginare una fase espansiva per l’energia nucleare.

Eppure qui da noi c’era anche chi aveva il coraggio di sostenere che la costruzione di impianti nucleari avrebbe sostituito buona parte delle importazioni di greggio e sarebbe stata la risposta più opportuna al prezzo, troppo elevato, del petrolio; dimenticando – tra l’altro! - che in Italia solo il 4% dell’energia termoelettrica viene generata bruciando prodotti di raffineria, che l’energia termoelettrica nel suo insieme rappresenta il 66% dell’offerta nazionale di elettricità e che tutta l’elettricità italiana equivale a un terzo (34%) dell’energia totale consumata nel paese.




Si dimostrava così la palese incompetenza nel cogliere il segnale che l’inversione di tendenza della “gobba” era iniziata, l’incapacità di fronteggiare il progressivo declino della risorsa “principe”, il petrolio: la fonte che quasi da sola ha garantito lo straordinario sviluppo del pianeta per tutta la seconda metà del secolo scorso.

Nessuna altra fonte conosciuta è così prolifica di energia e di sostanze come il petrolio che, ormai dal lontano 1980, ogni anno scopriamo sempre in quantità inferiore a quella che consumiamo. Leggendo i dati statistici sembra che le riserve esistenti non diminuiscano ma il fenomeno è in buona parte dovuto a rivalutazioni, a volte collegate a più moderne tecnologie di estrazione ma spesso originate da “nuove stime” (non meglio giustificate) dei giacimenti già conosciuti. Tanto che diversi studiosi ritengono scarsamente affidabili i dati ufficiali forniti dai paesi produttori, come, per esempio, quelli dell’Arabia Saudita.

In ogni caso le quantità di petrolio sono ancora molto consistenti; probabilmente è stata estratta circa la metà di quello esistente. Quindi il problema non va enunciato con “il petrolio è terminato” (ce ne sarà almeno per parecchi decenni ancora, si spera anche più) bensì con “cresce progressivamente la difficoltà a soddisfare la domanda globale”, in relazione ai problemi nel trovarlo, alla possibilità di estrarlo e ai risultati dell’estrazione.

Infatti, pur accettando per veri i dati sulle riserve, la questione va oltre le stime dei quantitativi ancora esistenti, o ipotizzati: aspetto determinante è il ritorno utile dell’attività di ricerca ed estrazione. Cioè il rapporto tra l’energia ottenuta e quella investita per trovare ed estrarre, per esempio, nuovo petrolio.

Nelle varie analisi riferite agli scenari energetici inspiegabilmente non si tiene conto dell’energia che si consuma con le attività organizzative, gestionali, di ricerca, di esplorazione marina e terrestre, di sondaggio, di perforazione, di prove, di messa a punto e coltivazione del giacimento, di lavorazione e trasporto della risorsa. E questo rapporto, mediamente, non può che diminuire nel tempo: le ferree leggi dell’economia costringono inevitabilmente a sfruttare per prime le riserve “più buone e più facili”, quelle che garantiscono profitti immediati e consistenti, lasciando per ultime le più complicate, di peggiore qualità, quelle meno vantaggiose.




In termini tecnici si parla di ERoEI (Energy Returned On Energy Invested), un indice che per buona parte della prima metà del secolo scorso per il petrolio si attestava attorno a 100. Cioè, con l’energia di un barile di petrolio, si portavano a casa 100 barili di petrolio. Un risultato che oggi, quando va bene, arriva a 15 e sempre più spesso non supera 10, 12, destinato a ridursi ulteriormente.

La logica di questo approccio appare estranea al mondo dei combustibili, anche se normalmente accettata in altri campi. Non suscita meraviglia se lo sfruttamento di una miniera d’oro, o di carbone o di mercurio, viene interrotto quando la risorsa risulta troppo poco concentrata nel terreno. L’estrazione non è più conveniente ma ciò non significa che il metallo o il minerale in quel luogo sia completamente esaurito (anzi se ne può stimare facilmente il quantitativo): semplicemente l’estrazione risulta eccessivamente “costosa” dal punto di vista dello scavo, del trasporto, della lavorazione e quindi non più vantaggiosa.

Questa prassi vale per tutte le sostanze che preleviamo dall’ambiente naturale; nel caso dei combustibili (tutti) la riduzione dell’ERoEI individua con grande precisione la validità della coltivazione di un giacimento mentre il valore monetario riconosciuto alla risorsa ha scarsa influenza sui benefici reali (diversi da quello economico) derivanti dall’estrazione.

L’aumento del prezzo di un barile di greggio sul mercato permette di sfruttare giacimenti più “difficili” e quindi estrarre altro olio, ma sino a un certo limite. Per assurdo, se il prezzo arrivasse a 1.000 $/barile qualcuno potrebbe per un po’ ricavarne enormi profitti economici ma appena l’estrazione offrisse un ERoEI attorno a 3 o 4, risulterebbe appena in grado di garantire alla collettività un livello di pura sussistenza e potrebbe risultare più conveniente indirizzare risorse e lavoro alla coltivazione di terreni e produzione di cibo.






Infatti, l’ERoEI individua anche il livello al quale la comunità può continuare a mantenersi o svilupparsi accumulando e usando “vera ricchezza”, cioè energia, materiali, elementi, in aggiunta a quelli di cui disponeva.

Più basso è l’ERoEI minore sarà il vero “guadagno” socialmente fruibile. Inoltre il basso ERoEI e le difficoltà nel soddisfare la domanda, influenzano direttamente il prezzo del greggio trascinandolo su livelli che l’economia (questa economia!) non è in grado di sopportare a lungo.

Sono elementi che condizionano profondamente le possibilità di sviluppo (quello vero, non fittizio) e che una parte degli economisti considera tra i principali fattori da porre alla base delle crisi economico-finanziarie globali cui assistiamo dal 2008.

La possibilità di produrre nuovi beni e nuovi servizi in un determinato paese può essere attivata e sostenuta (in parte e momentaneamente) da un flusso monetario creato ad hoc, ma ciò comporta indebitamento con l’estero o con le future generazioni di cittadini o inflazione. Un paese che non dispone di reali risorse interne (o di lavoro e impianti adeguati, per poter rivendere poi all’estero le risorse importate trasformate in beni) non può realizzare nessuna crescita o sviluppo.

Se, invece di uno stato, si prende in considerazione l’insieme del pianeta, la possibilità complessiva di produrre nuova ricchezza per l’umanità dipende anzitutto dalla disponibilità di nuove risorse. Contano anche altri elementi importanti e indubbiamente incisivi (scienza, tecnologia, cultura, organizzazione) che tuttavia non possono che applicarsi alla disponibilità di nuovi flussi di risorse lavorabili, sfruttabili, impiegabili. Per un certo periodo può risultare utile e percorribile il riequilibrio tra sacche di agiatezza e di povertà, ma alla fine l’umanità deve attestare la propria consistenza, i propri consumi complessivi e adeguare il proprio stile di vita medio al livello del flusso di risorse disponibile.

In sostanza, ci si può illudere per un po’ stampando denaro, magari spostandolo da un punto all’altro, ma non si possono stampare barili di petrolio. E nemmeno cibo, per produrre il quale oggi serve molto petrolio e molta energia.

In alternativa, ricorrendo alla fantascienza, si può pensare di importare risorse dai marziani e pagarle con parte dei prodotti lavorati da noi umani.

In concreto però si sta evidenziando in questo periodo l’accentuarsi dei conflitti (politici e armati) attraverso i quali chi riesce a mettere in campo una maggiore forza impone la sua autorità e si accaparra quante più risorse riesce a raggiungere. Poco importa se così si uccide, si distruggono territori, ambienti, equilibri sociali: l’imperativo è recuperare risorse primarie per continuare la crescita e aumentare la produzione. Chi può, chi è in grado, continua a perseguirlo, a qualunque prezzo, indifferente ai costi sociali ed ambientali che ne conseguono.

E’ storia vecchia quella di accumulare più ricchezza possibile, caratteristica preminente dell’uomo almeno dalla fase in cui ritenne non più indispensabile organizzare i propri gruppi sociali a livello solidaristico.

Considerate le peculiarità del petrolio, si capisce facilmente perché da qualche decina d’anni l’interesse si concentri in particolare su questa risorsa. Non si trascurano affatto molte altre sostanze, acqua e terreno agricolo compresi, ma il petrolio è al centro degli interessi di tutti i paesi del mondo; in particolare quello ancora relativamente facile da estrarre e di buona qualità. Anche se da qualche anno non si disdegna di grattare il fondo degli oceani con pozzi che superano i 9 km di profondità; si perfora tra i ghiacci perenni, si accendono fuochi a migliaia di metri sotto terra per riscaldare e spingere fuori greggio ostinato, si lavorano ad elevate temperature sabbie oleose scarsamente produttive e altamente inquinanti.







Ma più gravemente si registrano comportamenti sempre più chiari ed espliciti legati in alcuni casi al progressivo esaurirsi di giacimenti, in altri dalla necessità di garantirsi in ogni modo nuove e maggiori disponibilità.

I pozzi del Mare del Nord dal 2000 producono sempre meno e stanno per esaurirsi; ecco allora che l’Inghilterra ritrova l’interesse per le miniere di carbone nazionale, chiuse nei primi anni ’80 e, assieme alla Francia, improvvisamente scopre di condividere gli aneliti di democrazia del popolo libico. La Cina sta accaparrando giacimenti in ogni dove, Africa soprattutto, anticipando enormi quantità di denaro in cambio di promesse di fornitura. Gli USA, da tempo presenti in tutti gli scacchieri petroliferi mondiali, puntano a convincere i nuovi fornitori portandoli a sedere sotto l’ombra del dollaro e dei propri cannoni. La Russia ha esplicitamente rivendicato i fondali sotto i ghiacci del polo nord, a costo di scontrarsi – per ora a livello di diplomazie – con il Canada e gli USA.

Ho fatto cenno solo al petrolio cercando di chiarire che il tempo del greggio facile a basso costo è definitivamente tramontato; ma scenari simili (con alcune importanti varianti temporali e quantitative) sono riferibili al metano e ai carboni. Inoltre quasi nulla ho scritto sulle molteplici e gravissime conseguenze che l’impiego sempre più massiccio di queste fonti determina sul clima e sulla biosfera.







Volutamente ho scelto di circoscrivere queste considerazioni agli aspetti delle fonti d’energia meno avvertiti e meno dibattuti, anche tra coloro che possono essere considerati sensibili a problematiche di questo tipo.

Nel momento in cui – e molti lo considerano prossimo – la domanda di energia globale non potrà essere più garantita dalle possibilità e dalle capacità estrattive, il conflitto non potrà che esplodere. Lo scontro globale per il petrolio resta oggi ancora occultato sotto la foglia di fico della democrazia da esportare, dello sviluppo locale da favorire, ma la situazione sta peggiorando velocemente e con ogni probabilità tra non molto dovremo assistere a guerre guerreggiate esplicitamente per il dominio sui pozzi.

Quasi certamente saranno anticipate da disordini interni alle nazioni socialmente più esposte e fragili, da ricorrenti, profonde e complesse crisi economico-finanziarie (l’attualità ci sta offrendo esempi evidenti) ma dobbiamo anche aspettarci che si verifichino fenomeni di collasso della rappresentatività democratica: quanti cittadini, all’evidenziarsi di una prima sostanziale carenza, privi della benchè minima consapevolezza della situazione, sapranno comprendere l’ineluttabilità di un improvviso razionamento dei carburanti, o dell’elettricità o delle forniture di gas? Quale livello di rappresentatività della volontà popolare potrà vantare un qualsiasi governo costretto dalla mancanza di alternative a simili non rinviabili decisioni?

Assisteremo anche al liquefarsi delle alleanze tra stati, già ora così incerte e fragili.

Per esempio, se dovesse mancare una significativa percentuale di greggio o di metano in Europa, è ipotizzabile un tavolo in cui ciascuno degli stati rinunci di buon grado in proporzione ai propri consumi? Sembra perlomeno arduo, se non inverosimile.

Su questi aspetti oltre un anno fa lo JOE (Joint Operating Environment – United States Joint Forces Command) e il DOE (Department Of Energy) negli USA e, in Europa, un think-tank dell’esercito tedesco (ZtransfBw-Zentrum für Transformation der Bundeswerh), hanno pubblicato dei lavori e presentato attente considerazioni, ma anche se proposte da organismi di questo livello quasi nessuno le ha raccolte e sviluppate.

Gli avvertimenti sugli effetti collegati all’esistenza della “gobba” non mancano certo, ma la crescita resta comunque il feticcio a cui tutto sembra sacrificabile. Trovare soluzioni non è certo facile ma per iniziare è indispensabile almeno essere consapevoli della situazione.

Ci si è mobilitati per il nucleare ma si resta pressoché immobili di fronte alla questione energetica globale: il declino del petrolio e la limitatezza delle fonti di energia fossile. Come paralizzati, dimentichi che nessun pericolo di guerra concreto (fatte salve questioni particolari, tipo Israele-Iran) era ed è ipotizzabile in ordine allo sviluppo della fonte elettronucleare, mentre invece le guerre per il petrolio vengono agite surrettiziamente da decenni e rischiano di diventare esplicite entro breve coinvolgendo ambiti privi di confini.

E’ urgente quindi attivare velocemente i rimedi possibili: riduzione dei consumi e sviluppo di tutte le energie rinnovabili, avvertiti però che difficilmente si riuscirà a coprire il gap che si determinerà a causa del declino dei fossili. Si pone quindi come indispensabile la costruzione di un vero e proprio nuovo sistema di pensiero, orientato a perseguire un diverso benessere sganciato dallo sviluppo materiale e in grado di rigettare il paradigma di un’impossibile costante crescita della produzione e dei consumi. Ben consci che in questo caso nessun referendum potrà salvarci.

martedì, marzo 27, 2012

Perché le riserve di combustibili fossili vengono modificate e cosa significa?


Articolo di Luis Cosin su The Oil Crash del 14 Marzo 2012.
Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti.


Cari lettori,
Questa settimana Luis Cosin si è offerto per chiarire un tema che è solito confondere i profani, cioè come si valutano le riserve petrolifere , cosa significano in pratica e perché stiano cambiando così tanto. Spero che attraverso il suo articolo monografico possiate capire meglio e a contestualizzare i tanti annunci che oggigiorno si fanno sulle grandi scoperte di giacimenti.
Vi lascio con Luis. 

Antonio Turiel

RISERVE DI COMBUSTIBILI FOSSILI: COSA SONO E COME SI MISURANO?

0.- INTRODUZIONE

Ultimamente c'è un gran fluire di notizie che parlano del tema delle riserve di combustibili fossili che stimolano domande:
       Perché subiscono revisioni al rialzo ed al ribasso?
       Si scoprono realmente nuove riserve o sono ampliamenti di quelle esistenti?
       Come si possono conoscere le loro dimensioni?
       Una riserva di gas o di petrolio sono la stessa cosa?
       In definitiva: come si sommano pere e mele?
In questo articolo ho la pretesa di descrivere brevemente il processo di formazione dei combustibili fossili, necessario per comprendere le particolarità di ogni tipo di giacimento, e il processo che viene seguito per scoprire nuovi giacimenti e stimarne la prosuzione futura.

1.- COME SI FORMANO I COMBUSTIBILI FOSSILI
I combustibili fossili sono, essenzialmente, materia organica fossilizzata, proveniente da organismi viventi. In termini quantitativi di massa, la materia vivente è composta essenzialmente da:
                     Glucidi (o carboidrati), che formano parte della parete cellulare e dei tessuti strutturali dei vegetali (steli, rami, foglie, tronco...).
                     Lipidi (o grassi, principalmente trigliceridi) che costituiscono le riserve di energia metabolica.
Essa contiene anche proteine e DNA, ma in quantità che sono proporzionalmente molto piccole, irrilevanti per l'analisi che stiamo per fare. Carboidrati e lipidi si fossilizzano in modo diverso e portano a materiali totalmente distinti.

1.1.- Fossilizzazione dei lipidi: il petrolio e il gas naturale

I lipidi o grassi (in gran parte trigliceridi) sono composti ricchi di idrogeno e poveri di ossigeno. La loro formula stechiometrica:

Cn+1H2n+2O3

E' quasi come quella di un idrocarburo convenzionale (CnH2n+2) e la loro struttura è di lunghe catene di carbonio de idrogeno collegati:

http://www.monografias.com/trabajos31/lipidos/lipidos.shtml




Struttura di un trigliceride tipico, formato da una molecola di glicerina (3 atomi di carbonio a sinistra) e lunghe catene di carbonio e idrogeno che possono superare i 15 o addirittura i 20 legami. I trigliceridi, dal punto di vista chimico, ésteri di glicerina con acidi grassi di lunga catena.

A causa della scarsa presenza di ossigeno, non fermentano, anzi, a causa del calore e della pressione de in assenza di ossigeno sono sottoposti a due tipi di reazione:
                     Transesterificazione, che forma lunghe catene di idrocarburi e che da luogo agli olii minerali (biodiesel).
                     Rottura (“cracking”) termica o pirolisi, che produce la decomposizione termica dei trigliceridi e di altri composti organici in molecole semplici, come alcani, alcheni, sostanze aromatiche (componenti fondamentali del petrolio e del gas naturale) ed acidi carbossilici.
Le molecole piccole, risultato del cracking (fondamentalmente metano 90-95%, etano 2-6%, e propano 1-2%), insieme ad altri gas come elio, sulfuro di idrogeno, azoto e marcaptani formano quello che è conosciuto come “gas naturale”.
Per questo motivo, il gas naturale di solito è presente nei giacimenti di petrolio e costituisce una parte fondamentale delle riserve di combustibili fossili.

Il plancton marino e le alghe microscopiche accumulano grasso in grande quantità nel proprio organismo come riserva di energia:


Per quello che si sa, sono le principali  fonti di materia organica dalla quale derivano il petrolio de il gas naturale che esistono attualmente.

1.2.- Fossilizzazione degli idrati di carbonio: il carbone

Gli idrati di carbonio hanno la formula generica:

Cn+x H2nOn

Stechiometricamente, sono quasi una combinazione di carbonio (C) de acqua (H2O). Per questo si chiamano “idrati di carbonio. Per questo motivo:
                     Possono essere fermentati a causa dell'azione dei batteri anaerobici, che consumano il proprio ossigeno dai carbiodrati per produrre energia, liberando  CO2 e H2O e incrementando gradualmente il contenuto di carbonio anella misura in cui l'ossigeno si  esaurisce (notare che questo non accade coi lipidi, che non fermentano). Questo processo è conosciuto come “carbonificazione”.
                     Inoltre, sottoposti ad altre pressioni e temperature, subiscono una reazione di disidratazione (perdita de acqua), perdendo carbonio elementale (cosa conosciuta anche come “carbonizzazione”). E' ciò che osserviamo, ad esempio quando si riscalda del legno senza farlo ardere ho un blocco di carta. Il processo di disidratazione ad alte temperature e quello che genera il carbone vegetale o “picón”(chiedo scusa, ma non ho trovato una definizione plausibile in italiano, forse biochar, ndT).
Per la sua abbondanza, ci sono due tipi di idrati di carbonio che meritano una menzione speciale: la lignina e la cellulosa. La cellulosa è un polimero naturale, formato da unità di glucosio (che è un carboidrato) polimerizzata (connessa l'una con l'altra in una specie di maglia estesa):




La cellulosa forma le pareti cellulari dei vegetali. La parete di una cellula vegetale giovane contiene approssimativamente un 40% di cellulosa; il legno circa il 50%, mentre l'esempio di maggior purezza della cellulosa è il cotone che ne contiene in percentuale superiore al 90%.


Da parte sua, il legno è ricco di lignina (il nome proviene esattamente dalla parola latina “lignum”, che vuol dire “legno”) che è un altro polimero naturale, di struttura più complessa della cellulosa ma con una stechiometria simile (da carboidrato) ed è presente in gran quantità nelle parti cellulari delle piante e anche le alghe dinoficee del regno dei cromalveolati.

 Per esempio, c'è un tipo di carbone giovane chiamato lignite, così chiamato perché si presenta spesso con la forma del legno dal quale proviene:



2.- COME A QUANDO SI SONO FORMATI I COMBUSTIBILI FOSSILI

I combustibili fossili, ai quali oggi siamo così tanto affezionati, hanno origine in due ere molto specifiche del paleozoico: il Devoniano e il Carbonifero.



I diversi tipi di vita (e di materia organica associata) presenti in questi periodi e le diverse forme in cui si trova fossilizzata, hanno dato vita al petrolio e al  gas nel Devoniano e carbone  nel Carbonifero.

2.1.- Il Petrolio e il Gas naturale

Durante il Devoniano (nome proveniente dalla contea del Devon, in Inghilterra), gli oceani e i fiumi si riempirono di plancton e alghe microscopiche che, come abbiamo visto, accumulavano grandi quantità di grasso nei loro organismi.


Nella misura in cui i loro cadaveri si andavano accumulando in bacini sedimentari, normalmente mari poco profondi e letti di fiumi, e continuavano ad essere ricoperti da nuovi strati di sedimenti, la pressione e la temperatura nei sedimenti più profondi aumentavano fino a che iniziarono le reazioni di fossilizzazione che conducono alla formazione di petroli e gas naturale. Il processo di formazione del petrolio e del gas naturale è lento e casuale e consta dei seguenti passaggi:

                     I sedimenti mescolati con sabbia si depositano in un ambiente anaerobico in fondo ai bacini sedimentari marini e fluviali.
                     Poco a poco, vengono ricoperti da nuovi strati di sedimenti, ciò che fa sì che sprofondino e che aumenti la loro pressione e temperatura.
                     A pressione e temperatura sufficienti, iniziano le reazioni di formazione degli idrocarburi e si trasformano a poco a poco in sabbie bituminose. In alcuni casi il processo avviene qui (per esempio, nei giacimenti di sabbie bituminose del Canada).
                     In seguito, a pressioni anche maggiori , le sabbie bituminose si trasformano (si producono cambiamenti mineralogici) dando luogo a rocce arenarie impregnate di petrolio e gas e si intensifica il “cracking” degli idrocarburi pesanti per dar origine ad altri più leggeri.
                     In alcuni casi, a temperature troppo alte o mantenute per troppo tempo, tutti gli idrocarburi si trasformano in gas naturale.  Normalmente, solo una parte si trasforma in gas e il resto rimane come idrocarburi allo stato liquido.
                     Gli idrocarburi e il gas migrano verso l'alto, solito perché hanno una densità minore dell'acqua e della roccia, o meglio perché vengono trascinati e lavati dallo strato d'acqua inferiore.


 La migrazione continua fino a che:

                     O emergono all'esterno, formando fumarole di gas o affioramenti di bitume, come quelli che si possono vedere in certe zone del mar Morto (da lì proviene il “Bitume della Giudea”):

                     Oppure rimangono intrappolati da una roccia impermeabile, chiamato roccia “copertura” o “trappola” (tipicamente rocce saline di antichi bacini marini oppure rocce argillose di antichi bacini fluviali).


Di fatto, si stima che la stragrande maggioranza del petrolio e del gas (più del 99%!) formatosi nel tempo sia già uscito in superficie. Resta solo quello che, casualmente, è stato catturato in una trappola da una roccia copertura, tipicamente argille (in zone fluviali) e rocce saline (in antichi mari) che sono poco permeabili. La roccia nella quale il petrolio ed il gas restano imbrigliati si chiama roccia “serbatoio” ed è di importanza fondamentale. Dalle sue caratteristiche fisiche e chimiche dipende la quantità di petrolio che si potrà estrarre da un giacimento.



Ogni petrolio ha la “sua” ricetta e la “sua” storia. Non ce ne sono due uguali. Anche la composizione di ciò che si estrae dallo stesso giacimento varia nel tempo.

Per questo motivo, in senso commerciale, si è soliti lavorare con valori medi di densità,  contenuto di zolfo...ecc. Il petrolio commerciale è una miscela di prodotto di vari pozzi con una specifica più o meno costante. Così, estrarre petrolio è paragonabile a questo:

 2.2.- Il Carbone

Durante il Carbonifero (letteralmente “l'età del carbone”) gli alberi ed i vegetali legnosi di grandi dimensioni colonizzano la terraferma e le paludi, ed i loro resti legno e foglie si accumulano in zone paludose, lagunari o marine di poca profondità.


Il processo di formazione del carbone richiede l'azione di batteri anaerobici o calore, è molto più semplice di quello del petrolio ed segue questi passaggi:
                     I vegetali terrestri morti, foglie, legno, cortecce e spore, ricchi in cellulosa e carboidrati, vanno accumulandosi nel fondo di un bacino di sedimentazione, in zone paludose, lagunari o marine di poca profondità. Rimangono coperti di acqua e, pertanto, protetti dall'aria.
                     I batteri anaerobici trasformano lentamente il materiale mediante la fermentazione, consumando l'ossigeno della materia organica stessa, liberando CO2 e H2O e lasciando un residuo sempre più ricco di carbonio.
                     In seguito possono venire coperti da depositi argillosi provenienti da alluvioni o inondazioni, il che contribuirà al mantenimento dell'ambiente anaerobico adeguato perché continui il processo di carbonificazione.

Possiamo trovare diversi tipi di carbone in funzione del grado di carbonificazione che abbia subito la materia organica. Più o meno sono i seguenti:
                     Antracite, che è carbonio cristallino praticamente puro.
                     Bituminoso con poche sostanze volatili.
                     Bituminoso con media quantità di sostanze volatili.
                     Bituminoso con alta quantità di sostanze volatili (carbon fossile).
                     Sub-bituminoso.
                     Lignite con una conformazione che ricorda ancora l'origine vegetale.
                     Torba carbone giovane mescolato con resti di vegetali non ancora carbonificati.

Questi tipi sono abbastanza omogenei in tutto il mondo.
Si pensa che la maggior parte del carbone si sia formato durante il carbonifero (da 190 a 345 milioni di anni fa).


3.- DOVE TROVARLI

Come abbiamo spiegato nell'esposizione precedente, il petrolio e il gas naturale si trovano in:
                     Zone che sono state bacini sedimentarie di mari o fiumi durante il Devoniano.
                     Che abbiano subito processi geologici di trasformazione delle sabbie sedimentarie in arenaria.
                     E che dispongano di uno strato di roccia impermeabile che ha impedito che gli idrocarburi formati salissero fino alla superficie.

Da parte sua, il carbone si trova in:
                     Zone che sono state bacini sedimentari di mari poco profondi e paludi durante il Carbonifero.
                     E che si trovino in zone dalla vegetazione abbondante durante quell'epoca.

E' molto più abbondante del petrolio e del gas. Di solito si trova sotto uno strato di ardesia e sopra uno di sabbia e argilla.

4.- COME SI TROVANO

Il Dio Ade dei greci (Plutone per i Romani) regnava nell'inframondo e custodiva con zelo i suoi tesori. Lo si invocava colpendo il suolo con la mano o con un bastone e lanciando ogni tipo di maledizione. Come troviamo petrolio e gas oggi?

Bene: facendo esattamente la stessa cosa! Anche se le maledizioni si riservano ai casi in cui si trivella e non esce nulla. Una volta che abbiamo identificato un antico bacino sedimentario, una parte fondamantale dell'esplorazione consiste nel fare “mappedegli strati profondi della crosta terrestre. Ciò si ottiene per mezzo di tecniche sismiche:



Un dispositivo generatore di onde sismiche (qualcosa che colpisce il suolo o fa scoppiare piccole cariche esplosive) genera onde che si riflettono e si rifrangono sui diversi strati del suolo e vengono “ascoltati” da geofoni situati ad una certa distanza dalla fonte.
Il suolo, essendo molto denso, è un trasmettitore eccellente del suono, cosa che possiamo verificare in estate, sulla spiaggia, mettendo l'orecchio a terra ed ascoltando i passi di una partita di calcetto a più di 100 metri di distanza. Inoltre, la velocità del suono è molto diversa in funzione della composizione di ciascuno strato. .

Misurando i tempi di ritardo delle onde nel tornare in superficie, ed essere raccolte dai diversi geofoni, e risolvendo i sistemi di equazioni corrispondenti, si possono redigere mappe relativamente precise dei diversi strati.


Esempi di mappe sismiche

Queste mappe sismiche non misurano distanze, ma tempi! Per ottenere la profondità di strato in strato, bisogna conoscere la densità e la velocità del suono in ogni segmento e questo si potrà fare soltanto con i primi sondaggi. I geologi ed i geofisici passano ore davanti a questi diagrammi, assistiti da potenti computer, per cercare di trovare le formazioni suscettibili di diventare trappole per il petrolio. E' tipico il caso degli anticlinali (pieghe convesse verso il basso) e  delle faglie (attraverso le quali il petrolio migra verso la superficie).


Di fatto i computer moderni, con capacità di processo impensabili qualche anno fa, hanno comportato un salto qualitativo nella qualità di queste analisi preliminari ed hanno migliorato drasticamente l'affidabilità di questa tecnologia. Le più recenti scoperte sarebbero state impossibili senza questa tecnologia, poiché richiederebbero migliaia di milioni di ore di calcolo manuale. Una volta localizzata una zona promettente, bisogna fare una prima perforazione... La perforazione del primo pozzo di prova è un momento chiave.
                     Una perforazione onshore (sulla terra ferma) può costare quasi un milione di dollari (senza contare i costi per trasferire i macchinari e le infrastrutture necessarie sul posto).
                     Una perforazione offshore (in acqua, su una piattaforma o una nave) può costare varie volte di più ed è alla portata delle sole compagnie più grandi.

La media dell'industria su scala mondiale è di una perforazione di successo ogni 15-20 dry wells.


Va da sé che, nella perforazione offshore, la complessità ed il costo aumentano rapidamente con la profondità dell'acqua. L'esplorazione in acque profonde (altezza delle acqua superiore a 1000 metri) è diventata praticabile e ragionevolmente sicura solo da 7-8 anni. Il carbone è, in confronto, molto più semplice da localizzare e da estrarre . Di solito affiora in strati lungo le faglie del terreno e si trova fra uno strato di argilla ed uno di ardesia.

Si stima che la maggior parte delle vene carbonifere siano ancora da scoprire, per il fatto che non sia vantaggioso il loro sfruttamento (sono troppo piccole o perché si trovano troppo lontane dai centri di consumo).


5.- COME SI VALUTA LA QUANTITA'


5.1.- “Risorse” (Petrolio nel posto”) e “riserve” non sono la stessa cosa

La quantità totale stimata  di petrolio in un bacino, includendo le parti estraibili e non estraibili, si chiama “risorsa” (“oil in place” in inglese). Date le caratteristiche di ogni bacino e le limitazioni delle tecnologie di estrazione del petrolio, solo una parte delle risorse può essere portata in superficie. Questa parte è denominata “riserve”. Il quoziente riserve/risorse viene chiamato fattore di recupero, FR (“recovery factor”, in inglese) e varia enormemente da un posto all'altro. Dipende da:
                     La densità del petrolio. A maggiore densità, corrisponde maggiore difficoltà di flusso e di estrazione del petrolio.
                     La pressione alla quale si trovi il bacino. A maggiore pressione corrisponde una maggiore densità del petrolio o del gas e minori sforzi per estrarli.
                     La porosità della roccia magazzino. A minore porosità corrisponde una difficoltà maggiore a che il petrolio o il gas fluiscano e saranno necessari più pozzi.
                     La distribuzione fisica del bacino (la sua irregolarità). Ci possono essere zone inaccessibili che richiedano la perforazione di pozzi supplementari.
                     La tecnologia utilizzata: in generale, il fattore di recupero migliora se si fanno ulteriori investimenti in un bacino come:
1. Iniezione di gas o acqua per aumentare la pressione.
2. Inondazione per trascinare il petrolio verso la parte superiore del bacino.
3. Uso di microbi anaerobici che “digeriscano” il petrolio più pesante e lo trasformino  
     in composto più leggeri.
4. “Fracking” (fratturazione idraulica o fisica mediante esplosioni), consistente nel rompere la roccia serbatoio per migliorare la sua porosità. Questo tipo di tecnologia permette di estrarre petrolio e gas dall'ardesia (“shale oil”/”shale gas”), che è una roccia molto poco permeabile. E' un procedimento controverso a causa della possibilità di inquinare le falde acquifere, creare faglie e addirittura anche terremoti locali (se vi guardate il documentario “Gasland” scoprirete che è una certezza, ndT).

In generale:
                     Il gas naturale ha un fattore di recupero superiore al 80%.
                     Le riserve di  petrolio leggero, come quello nigeriano, iracheno o saudita possono arrivare ad un fattore di recupero del 50 %.
                     Quello del petrolio intermedio (per esempio quello del Mare del Nord), di solito non supera il 20%, anche se estratto con tecnologie migliorate (“enhanced recovery”) può arrivare al 25%.
                     E il fattore di recupero del petrolio pesante ed extra pesante, come quello messicano  o venezuelano, raramente supera il 5% attualmente, a causa del fatto che lo sfruttamento non può avvenire a cielo aperto (come nel caso delle sabbie bituminose del Canada).

Attualmente assistiamo ad un certo “revival” di zone che erano entrate in fase di declino grazie alle nuove tecniche di recupero avanzato (“enhanced recovery”). Si parla di recupero secondario o anche terziario

5.2.- Riserve provate, probabili e possibili.

La contabilità delle riserve di petrolio e del gas è l'incubo dell'economista con mentalità da contabile, poiché le riserve non si sommano come euro, dollari, aautomobili o chili di mele. Per cominciare, i criteri per misurare la quantità stimata delle riserve non sono uniformi ed alcune aziende petrolifere statali usano criteri propri (non omologabili) per valutarle. Qui commenteremo gli standard più accettati dall'industria a livello internazionale. In funzione della certezza con la quale si spera di trovare riserve in un giacimento, si parla di riserve provate, probabili e possibili.
                     Le riserve provate sono quelle certezza superiore 90% di essere recuperate alle condizioni tecniche e politiche attuali. Solitamente si parla di P90 o 1P.
                     Le riserve probabili sono quelle con una certezza superiore al 50% di essere recuperate alle condizioni tecniche e politiche attuali. Solitamente si parla di P50 o 2P. Cioè, sono quelle che è più probabile che esistano piuttosto che no.
                     Le riserve possibili sono come “il racconto della latteria”: sono quelle con una certezza superiore al 10% di poter essere recuperate. Solitamente si parla di P10 o 3P. E' una valutazione generosa della dimensione possibile del giacimento.

Per quello che abbiamo detto primasui fattori di recupero, le riserve possibili sono diverse volte superiori a quelle probabili o provate (dell'ordine da 1 a 10 o 1 a 20). Le compagnie (private e alcune statali) si sottomettono periodicamente a revisioni delle riserve per verificare la veridicità dei numeri che pubblicano. Il problema è che due delle maggiori compagnie petrolifere statali, che si presume accumulino più del 60% delle riserve mondiali di petrolio (non c'è bisogno di dire quali!) e dalle quali dipende buona parte della fornitura mondiale, non accettano di sottomettersi a questo tipo di revisione. Si suppone che “qualcuno” stia manipolando quei numeri, ma naturalemnte non sono di dominio pubblico.


5.3.- Stima delle riserve di petrolio e gas

Ci sono vari metodi per il calcolo delle riserve e normalmente si utilizzano tutte visto che qualsiasi informazione che serva da contrasto aiuta nel prendere decisioni di investimento che sono enormemente costose.


Si raggruppano in tre categorie e tutte hanno vantaggi e svantaggi:
                     Bilanciamento dei materiali: usa un'equazione termodinamica che mette in relazione il volume di acqua, petrolio e gas che sono stati prodotti nella storia del giacimento e i cambiamenti di pressione osservati nello stesso, per dedurre il petrolio restante. Richiede una gran quantità di dati (che non sempre sono disponibili) e serve solo per giacimenti che hanno prodotto fra il 10 ed il 15% della propria capacità.
                     Curva di declino: utilizza la curva di produzione storica per stimare la produzione futura, aggiustandola ad una curva di regressione (che di solito è iperbolica, esponenziale ed armonica). Richiede uno storico esteso ed esaustivo perché la stima sia buona.




                     Volumetrici: cercano di determinare la quantità di petrolio presente (“oil in place”) utilizzando la dimensione del giacimento così come le proprietà fisiche delle sue rocce e fluidi. Si presume quindi un fattore di recupero basato sull'esperienza di giacimenti simili il cui comportamento è conosciuto e ciò fornisce delle riserve stimate. Sono le più utili nel momento di prendere una decisione di sfruttamento iniziale e di inizio vita del giacimento.

Nei metodi volumetrici, l'industria è solita usare il seguente modello di tipo “schermata discendente” per determinare le riserve provate, probabili e possibili:


Risorse = Volume del giacimento (V)
            ×
Porosità (φ)
            ×
            Saturazione degli idrocarburi (S)
            ×
            Fattore di espansione a pressione atmosferica (N)
             ×
Fattore di recupero (FR)

Il prodotto Risorse = V×φ× S ×N non è mai maggiore del “oil in place” che, moltiplicato per il fattore di recupero (FR), ci dà le riserve.

Vediamo come si determina ognuno di questi fattori:

                     Volume del giacimento (V): abbiamo già spiegato come il petrolio si trovi detenuto , abitualmente in una roccia impermeabile (roccia sigillo) e uno strato d'acqua inferiore. Il presupposto è stimare tanto lo spessore dello strato quanto la sua estensione. Per questo, i geologi sono soliti fare affidamento su informazioni fornite per pozzi di campionamento realizzati lungo una regione, immagini di sismica a rifrazione e correlazioni con altri giacimenti già conosciuti ( L'industria ha dietro di sé più di 100 anni di esperienza nel fraintendimento della valutazione della dimensione dei giacimenti).
                     Porosità (φ): mediante pozzi di campionamento, si estrae materiale e si sottomette ad una analisi mineralogica per determinare la dimensione media del poro ed il grado di connessione fra pori adiacenti. In questo modo si valuta lo spazio reale disponibile per il petrolio ed il gas “estraibili”.
                     Saturazione degli  idrocarburi (S): nei giacimenti, e dovuto al processo stesso di formazione del petrolio e del gas, questi di solito si trovano mescolati con acqua. La saturazione in olio o gas (la percentuale in massa di olio o gas ed acqua nella roccia)viene determinata mediante campionamenti.
                     Fattore di espansione a pressione atmosferica (N): i giacimenti di solito si trovano sotto chilometri di roccia, a pressioni immense, per cui il petrolio ed il gas si trovano enormemente compressi e si espandono rapidamente nella misura in cui ascendono per il tubo mentre vengono estratti a pressione atmosferica.


Ciò può provocare uno degli incidenti più tipici (e pericolosi) di questo tipo di sfruttamento: il blow out (l'esplosione):


I fattori tipici di espansione sono 100/1 o perfino 1.000/1.
                     Fattore di recupero (FR): come abbiamo detto prima, in funzione delle caratteristiche del giacimento citate anteriormente, si stima per comparazione con altri simili la percentuale di risorse che è possibile estrarre e si determinano così le riserve.

Dato che esiste un margine di errore più o meno ampio in ognuna delle variabili precedenti, è abitudine determinare per ognuna di esse un intervallo di sicurezza, una distribuzione di probabilità (per esempio, triangolare, con valore minimo, massimo è più probabile) e di usare la simulazione di Montecarlo per ottenere una distribuzione probabilistica del prodotto. Questa distribuzione è solita somigliare a questo (una distribuzione di tipo “beta”, che è simile a una normale, ma  con un valore probabile più prudente):
In generale, la conoscenza di un giacimento migliora col suo sfruttamento e la indeterminazione iniziale va diminuendo. Le prime stime di solito sono per difetto e le riserve di solito col tempo, semplicemente per aggiustamenti fra il modello teorico iniziale conservativo e la realtà osservata. Nel 2007, la SPE (Society of Petroleum Engineers), il WPC (World Petroleum Council), la AAPG (American Association of Petroleum Geologists) e la SPEE (Society of Petroleum Evaluation Engineers) hanno elaborato un sistema più sofisticato di valutazione delle riserve che include tanto quelle provate quanto le:
                     Contingenti: quantità di petrolio che si stima si possano recuperare ma i cui progetti sono bloccati e che non sono state dichiarate commerciali per cause contingenti (litigi, assenza di mercati, tecnologia in via di sviluppo).
                     Prospettive: quantità di petrolio che si stima si possano recuperare ma che non sono ancora state scoperte (per esempio, le zone circostanti ai grandi giacimenti molto produttivi) e hanno alcune possibilità di esserlo in futuro.






5.4.- I criteri della SEC (Secouristes and Exchange Commission)

La SEC obbliga le imprese energetiche sono quotate nei mercati dei valori USA a calcolare le proprie riserve in accordo con una metodologia che, in generale, sta diventando obsoleta (le regole datano in gran parte agli anni 70). I criteri economici sono quelli che hanno maggior peso (la normativa è pensata per proteggere l'azionista)  ed un effetto perverso degli stessi è che le riserve crescono quando sale il prezzo  e diminuiscono quando si abbassa, il che non sembra molto ragionevole.

Recentemente sono stati fatti alcuni cambiamenti che cercano di mitigare il ballo di cifre, poiché è controproducente, e cercano di raccogliere in qualche modo le riserve contingenti, anche se con criteri molto conservatori.


5.5.- Stima delle riserve di carbone

Le riserve di carbone si stimano in modo analogo a quelle di petrolio: mediante sismica di alta precisione e pozzi di sondaggio si cerca di determinare l'estensione e lo spessore della vena e le difficoltà tecniche per estrarla. Il tipo di sfruttamento dipenderà dal materiale e dalla sua distribuzione:

                     Le vene di torba e lignite, che sono geologicamente più recenti, normalmente sono orizzontali e vicine alla superficie per non aver subito piegature e si è soliti sfruttarli attraverso miniere a cielo aperto, un'opzione più semplice ed economica in generale (anche se il materiale estratto ha molto meno potere calorico per unità di massa).

                     Quelle di antracite e carbon fossile  (come, ad esempio, quelle esistenti nel nord della Spagna e in gran parte del Nord Europa) hanno molto più potere calorico, ma si trovano di solito in strati antichi, piegati e deformati dalla tettonica, per cui il looro sfruttamento è solita avvenire in miniere convenzionali (tunnel sotterranei) ed è, pertanto, più costosa e pericolosa.


Finiamo con una stima attuale delle riserve di carbone:Finalizamos con una estimación a día de hoy de las reservas de carbón:


I grandi produttori di carbone: