martedì, marzo 31, 2009

Una bomba che sta per esplodere: La Crisi dell'Acqua

Fonte immagine: http://www.operadellavita.it/creazione.htm


Dal libro della Genesi Capitolo 1: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu ..... Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo.... Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto». E così avvenne. Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare….Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo”….. E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra».


A quanto pare il genere umano (uomo e donna) ha preso alla lettera le parole Soggiogare e Dominare. Non solo esso continua ad essere fecondo e moltiplicarsi portando la popolazione mondiale agli attuali 6,5 Miliardi di esseri umani.

- Dominio assoluto e soggiogamento dell’intero sistema;

- Fecondità e Moltiplicazione

Due pilastri della lettura divina della Genesi che probabilmente andavano molto bene nell’antichità quando il genere umano era rappresentato da un numero molto basso di persone e quando la sopravvivenza era assicurata che soltanto quando era il più forte (in questo caso l’Uomo) a dominare.


Mai come oggi il pianeta Terra ed i suoi abitanti, il genere umano (soprattutto) e tutte le altre specie viventi, si sono trovati a rischio di estinzione per il coincidere di tanti fattori destabilizzanti, gran parte dei quali sono dovuti ai comportamenti stessi del genere umano per eccellenza.

Secondo il Terzo Rapporto delle Nazioni Unite sullo Stato delle Risorse Idriche del Pianeta (12 Marzo 2009), la crisi è arrivata ad un livello estremamente grave. Un allarme è stato lanciato per AGIRE e non più parlare. L’acqua come l’ossigeno è elemento vitale è:

- Un arma vitale per la lotta alla povertà

- Per debellare molte malattie

- Per sconfiggere la fame

- Ed è indispensabile per le economie in generale

La crescita della popolazione mondiale, stimata intorno agli 80 milioni di persone all’anno aumenterebbe i fabbisogni in acqua di circa 64 miliardi di m3 all’anno. Tale crescita è soprattutto concentrata nelle città il cui approvvigionamento sarà la vera sfida a venire. Attualmente 1,1 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua pulita quindi potabile; 2,6 miliardi di persone non dispongono di servizi igienici. Tutte queste persone vivono in condizioni di estrema povertà e di insicurezza alimentare.










Per la FAO la questione dell’acqua è destinata a scoppiare come una bomba perché la pressione demografica si farà sempre più forte (si stima il raggiungimento di una popolazione di 8 miliardi di abitanti entro il 2025) ed in parallelo cresceranno sia la domanda alimentare globale che quella energetica.


In termini di produzione agricola, l’evoluzione delle abitudini alimentari pesa fortemente sulle risorse idriche infatti, la crescita economica di molti Paesi emergenti ha creato una classe media consumatrice di latte, pane e carne. La produzione di 1 kg di grano necessita da 400 a 1200 litri di acqua (a seconda delle aree di coltivazione); mentre per produrre 1 kg di carne sono necessari da 1000 a 2000 litri di acqua. L’agricoltura consuma il 75% dell’acqua totale.

L’industria energetica è il secondo settore consumatore di acqua. Con la scusa della lotta contro le emissioni di gas serra si stimola lo sviluppo del grande idroelettrico che assicura ad oggi il 20% della produzione elettrica mondiale; un’altra scusa per la lotta alle emissioni gas serra ma anche l’utopia del voler sostituire il Petrolio con una fonte energetica diversa sta nella coltivazione della biomassa per biocarburanti ed etanolo. Tale settore necessita di 2500 litri di acqua per produrre 1 litro di carburante cosiddetto “Verde”. Sempre nel campo energetico, l’acqua è indispensabile per il raffreddamento delle centrali termiche e nucleari.

Tutti i settori industriali come il tessile, l’elettronica, l’industria agroalimentare, le miniere, il settore metallurgico hanno bisogno di ingenti quantità di acqua per poter funzionare – produrre.

Numerosi segnali di tensione e di conflitto sono ben visibili agli attenti osservatori. Conflitti tra gli utilizzatori e tensioni tra nazioni si stanno moltiplicando. Gli ecosistemi sovra-sfruttati si stanno degradando. In molte regioni la riduzioni della biodiversità e l’inquinamento hanno raggiunto i punti di non-ritorno. Molti fiumi come il Colorado, il Nilo o il fiume giallo non raggiungono più i mari. L’essiccamento di aree umide, la diminuzione dei livelli delle falde freatiche (del sottosuolo) , l’inquinamento per opera delle industrie, dell’agricoltura intensiva e dei rifiuti urbani, la proliferazione di alghe nocive non sono soltanto responsabili di gravi danni alla biodiversità ma impediscono ai sistemi di fornire acqua salubre per le future generazioni.

La crisi dell’acqua ha delle conseguenze drammatiche a livello della sanità pubblica. Nei Paesi in via di sviluppo ed in quelli emergenti, 80% delle malattie sono legate all’acqua. Si parla di 1.7 milioni di morti sia per causa di assenza totale di acqua potabile che di assenza di strutture di depurazione adeguate. Un esempio importante sono le epidemie di colera nello Zimbabwe che hanno provocato 4000 morti a partire dall’Agosto 2008 a causa della mancanza totale di infrastrutture idriche.

Alla faccia della produzione di piante per biocarburanti ed etanolo, la siccità eccezionale che ha colpito l’Australia, la Cina e la California hanno limitato la produzione agricola con ingenti perdite economiche. In Kenia, l’impatto combinato di siccità e inondazioni che si sono susseguiti tra il 1997 ed il 2000 è stato stimato intorno ai 3,8 miliardi di Euro) ossia il 16% del PIL nazionale.

Dopo decenni di inattività, i problemi sono veramente enormi e questi si aggraveranno ancora di più se le politiche saranno sempre le solite. Il problema è che i politici e le solite lobbies (negative) devono smetterla di pensare che l’acqua sia una risorsa inesauribile e devono rivedere tutta la loro politica di gestione delle risorse idriche passando da una gestione insostenibile ed iniqua ad un nuovo modo di valorizzazione dell’acqua come risorsa necessaria ed indispensabile prima di tutto per la vita ed il benessere di tutte le specie viventi compreso noi stessi.

Il deficit o la mancanza di finanziamenti per la costruzione o l’ammodernamento di infrastrutture di approvvigionamento, risanamento e soprattutto di Stoccaggio delle acque (piovane in particolare) è sempre stato considerato come l’ostacolo principale alla buona gestione dell’acqua.

Tuttavia rimane il fatto che, è la presa di coscienza politica del problema da parte del 90% dei politici che ancora è deficiente: ”l’acqua prima del profitto deve essere prima di tutto al centro delle politiche agricole, dell’energia, della salute, delle infrastrutture, dell’educazione”. E qui tocca soprattutto ai capi di stato ed ai governi nazionali di appropriarsi di una questione che è diventata così vitale da essere considerata come un elemento di crisi per le sicurezze nazionali.

Ancora ad oggi, come lo ha dimostrato il Forum Mondiale per l'Acqua tenutosi ad Istanbul, c'è chi vuole speculare sull'acqua giocando sulle ambiguità dei termini "Diritto all'accesso o libertà di accesso all'acqua"?in attesa di che cosa faranno i soliti politici, gli affaristi e le persone al servizio delle multinazionali non ci resta che osservare la gente morire.


(N.B.. tutte le foto sono state scaricate dalla rete salvo quella del mercato africano in alto)

lunedì, marzo 30, 2009

Delle cose della guerra



Illustrazione del manoscritto "de rebus bellicis" che risale a circa la metà del quarto secolo a.d., al tempo della battaglia di Adrianopoli; l'inizio della fine dell'Impero Romano. E' una riproduzione relativamente moderna dell'illustrazione originale, ma questa liburna a ruote alimentata da buoi rende bene l'idea delle strambe invenzioni dell'anonimo autore che reagiva con la fantasia meccanica a una situazione difficilissima.

Trovare nell'Impero Romano uno specchio dei nostri tempi è tradizione assai antica, che ha portato anche a stramberie stupide e pericolose, come quella di Mussolini che si credeva erede degli antichi Imperatori. Ma, a parte questo, è vero che ci sono degli elementi comuni nella parabola di crescita e collasso di tutti gli imperi della storia. In un post precedente, ho fatto qualche considerazione sul picco dell'Impero Romano, avvenuto verso la metà del terzo secolo d.c. secondo le testimonianze archeologiche. Mi sono domandato che percezione avessero gli antichi romani della situazione, citando come esempio le memorie di Marco Aurelio e il "De Reditu Suo" di Rutilio Namaziano. In entrambi i casi, gli autori non sembravano rendersi conto delle ragioni di cosa stava succedendo.

Ultimamente, mi è capitato fra le mani un altro documento interessante che ci descrive un mondo al collasso e che somiglia per molti versi al nostro. E' il "De Rebus Bellicis" (delle cose della guerra) scritto molto probabilmente poco dopo la battaglia di Adrianopoli (378 a.d.) che segnò la fine militare dell'impero - anche se la sua fine politica arrivò molto dopo.

Non sappiamo il nome dell'autore di questo manoscritto. Da come scrive, tuttavia, è chiaro che era un funzionario della burocrazia dell'impero che, nonostante la sua enfasi sulle cose militari, quasi certamente non aveva nessuna esperienza sul campo. Anzi, l'interesse di questo manoscritto è proprio nel fatto che non tratta soltanto di cose militari ma ci racconta molte cose su come percepivano la situazione quelli che vivevano in un impero che aveva ormai iniziato la sua traiettoria di crollo finale.

Marco Aurelio, verso la fine del secondo secolo, non percepisce nemmeno che c'è qualcosa non va nell'immenso impero romano del suo tempo. Rutilio Namaziano, nel quinto secolo, vede il disastro intorno a lui ma non ne capisce le ragioni e neppure la portata. Viceversa, il nostro anonimo capisce benissimo che l'impero è allo stremo e che bisogna fare qualcosa per evitare il un disastro. Capisce anche abbastanza bene quali sono le cause del problema e le identifica correttamente con i costi dell'apparato militare, con il decadimento delle strutture governative, e con la minaccia dei barbari (che lui definisce con il pittoresco termine di "circumlatrantes", che abbaiano intorno ai confini). Non è chiaro se identifichi correttamente il fatto che tutte e tre questi problemi hanno la stessa origine: l'Impero Romano era un'organizzazione militare che viveva delle spoglie delle regioni conquistate. Una volta che era stato costretto a difendersi, aveva perso la sua sorgente di sostentamento - nè più ne meno di come la nostra civiltà sta gradatamente perdendo la sua sorgente di sostentamento: il petrolio e gli altri combustibili fossili.

L'anonimo, quindi capisce quali sono i problemi e - probabilmente - si prende anche qualche rischio personale nell'elencarli esplicitamente in un epoca in cui (come in quasi tutte le epoche) criticare i principi è cosa assai rischiosa. Ma quando si tratta di arrivare a proporre delle soluzioni, ahimè, il nostro anonimo parte completamente per la tangente. Non si rende conto che le sue proposte politiche sono improponibili: ridurre le tasse per esempio. Non si rende nemmeno conto che implorare gli amministratori a non rubare è cosa poco efficace. E, infine, quando comincia a proporre soluzione militari, entra in un regno di pura fantasia. E' un dilettante molto ottimista, ma chiaramente un dilettante

Così, il nostro anonimo propone e dettaglia fantasiose macchine belliche: carri falcati, navi da guerra potentissime, balliste a lunga gittata, giavellotti che, se non colpiscono il nemico, lasciano per terra una testa carica di spuntoni che comunque danneggerà i barbari avanzanti. I commentatori hanno fatto notare un dettaglio rivelatore di come questi giavellotti a doppio uso non funzionerebbero se fossero invece i Romani ad avanzare. L'anonimo vede soltanto la necessità di una strenua difesa contro i barbari, "circumlatrantes".

Tutto questo macchinario improbabile ha affascinato a sufficienza i lettori che il manoscritto è stato riprodotto in epoche medievali e rinascimentali cosicché è arrivato fino a noi. Può darsi che abbia influenzato Leonardo da Vinci e, più tardi, Voltaire. Ma né i carri falcati né nessuna delle macchine belliche miracolose dell'anonimo sono mai state costruite. Erano sogni di un dilettante che immaginava di poter salvare in qualche modo un mondo che ormai era condannato a scomparire. In fondo, non è la stessa cosa dell'idrogeno per noi?

venerdì, marzo 27, 2009

Una previsione di 10 anni fa


created by Dario Faccini





Dieci anni fa, il 6 marzo del 1999, l'Economist usciva nelle edicole di tutto il mondo con una copertina assai significativa: due operai intenti ad operare su una conduttura venivano inondati da un impressionante getto di petrolio. Il titolo era ugualmente diretto, “Drowning in Oil” cioè "Annegando nel petrolio". Quell’edizione dell'Economist ha fatto storia ed è stata citata in molti contesti come un esempio di previsione economica sbagliata. Vale però la pena di rivederla a dieci anni di distanza, analizzando non soltanto le conclusioni ma soprattutto i ragionamenti e le motivazioni sottostanti che, si vedrà, offrono spunti di confronto molto interessanti.

La rivista includeva un Editoriale che riprendeva il titolo della copertina ed un articolo intitolato "Petrolio a buon mercato". Entrambi gli articoli analizzavano il futuro dei mercati petroliferi ipotizzando che l'andamento discendente del prezzo del greggio, giunto allora ai 10$ al barile, potesse continuare fino a toccare i 5$.
Tra le cause del crollo dei prezzi venivano citati l'inverno caldo e la crisi in Asia, mentre, per quanto riguarda i rischi di un futuro indebolimento della domanda, si accennava al protocollo di Kyoto e alla possibilità di un'interruzione nel lungo periodo di crescita economica degli USA. Inoltre, nonostante i prezzi bassi, molte compagnie, nel tentativo di rientrare dai grandi capitali investiti, avrebbero comunque terminato i progetti già avviati di espansione della produzione.
Fin qui niente di eclatante. Ma c'erano altre considerazioni più interessanti.
La prima era la constatazione che un rapido avanzamento tecnologico aveva portato il costo complessivo di produzione degli idrocarburi non-Opec dai 25$ per barile equivalente degli anni '80, fino ai 10$ di quegli anni (Golfo del Messico 10$, Mar del Nord 11$, Russia 14$, Fonte CERA). Questo basso costo era stato raggiunto grazie agli alti prezzi degli anni '70-'80 che avevano già pagato lo sviluppo tecnologico e gli investimenti strutturali. Tale costo rappresentava quindi il limite superiore del prezzo del barile oltre il quale poteva essere aggiunta nuova capacità produttiva. I soli costi operativi di estrazione dei pozzi già esistenti invece erano più bassi, ad esempio 4$ per il Mar del Nord, e questi rispecchiavano il limite inferiore teorico cui sarebbe potuto scendere il prezzo del petrolio prima che i pozzi meno competitivi finissero fuori mercato.

Questo punto è interessante perché rappresenta una considerazione abbastanza obbiettiva che è possibile confrontare con dati recenti sugli attuali costi complessivi di produzione (ricerca, sviluppo ed estrazione) del solo greggio. Il risultato è che in meno di 10 anni il costo economico di produzione di un barile di petrolio è aumentato globalmente di 5-10 volte(!), e questo è un dato di fatto visto che entrambe le serie di stime provengono dalla stessa fonte cioè il Cambridge Energy Research Associates (CERA). Certo il dato dell'Economist andrebbe riportato al valore del denaro del 2007, ma anche in questo caso rimarrebbe assai impressionante l'esplosione dei costi di produzione. Un altro grafico attribuito ad uno studio del CERA del 2002 (che si trova ad es. a pag 7 di questa presentazione) indica come l'accelerazione dei costi sia avvenuta in realtà solo negli ultimi 5-6 anni.

Un’altra considerazione di un certo peso scaturiva dall’osservazione che i bassi prezzi del petrolio stavano minando la stabilità economica e sociale di molti paesi produttori, soprattutto nel Medio Oriente e nel Messico. L'Arabia Saudita, per esempio, si era fatta carico di grandi tagli produttivi nel tentativo di sostenere i prezzi. Nonostante ciò, questi sembravano continuare a scendere, diminuendo la principale fonte di entrate e di sostegno all'oneroso stato sociale saudita. Secondo l'Economist quindi, sarebbe stato ipotizzabile per il paese arabo un cambio di strategia: una massiccia immissione di capacità produttiva sul mercato nel tentativo di fornire un po’ di ossigeno al suo bilancio annuale. Se poi l'esempio saudita fosse stato seguito da altri stati produttori del Golfo Persico, allora, grazie al crollo dei prezzi petroliferi, si sarebbe potuta verificare una sorta di “concorrenza sleale” che avrebbe fatto uscire dal mercato le regioni con i maggiori costi di estrazione a vantaggio di un ritorno del Medio Oriente sulla scena come principale protagonista (e produttore).
Quest’ultima argomentazione può apparire più un'ipotesi di fantapolitica e una segnalazione di un rischio piuttosto che una dinamica in procinto di avverarsi. In essa si può comunque leggere il timore, espresso più volte nella rivista, di un ritorno alla dipendenza petrolifera da un'area politicamente instabile ed organizzata con un cartello in funzione antioccidentale. Il ricordo delle passate crisi petrolifere era evidentemente più vivido che non ai giorni nostri.
In effetti si rimane sorpresi nell'osservare che in realtà, previsioni dei prezzi a parte, questi articoli rispondevano alla domanda: "Perché un basso prezzo del petrolio potrà danneggiare la crescita economica globale ed i consumatori.". Il ragionamento principale era quello già accennato: un basso prezzo del petrolio avrebbe messo in difficoltà sia la stabilità del Medio Oriente, detentore delle principali riserve, sia la competitività delle compagnie occidentali che dopo le crisi petrolifere avevano investito in aree produttive “difficili”. C'era però un altro rischio: se i prezzi fossero rimasti troppo bassi, le economie dei paesi produttori sarebbero potute entrare in recessione minando la crescita globale. Sembra oggi assurdo, ma nell'editoriale si osservava che i bassi prezzi del barile avrebbero potuto innescare una tale crisi nelle economie “produttrici” da non essere compensata globalmente dalla maggiore crescita di quelle “consumatrici”.
Quindi i giornalisti dell'Economist ammettevano implicitamente che, a tutela del consumatore globale, era necessario non un prezzo basso ma un prezzo “giusto” del barile. Un ragionamento decisamente lungimirante e più articolato del ritornello odierno sul “calo degli investimenti petroliferi”. Purtroppo non indicavano né quale fosse questo prezzo né come fosse possibile determinarlo.

Insomma questi articoli non erano certo un infuso di ottimismo. Il calo del prezzo del petrolio era vissuto come un rischio e non certo, al pari di oggi, come un sollievo. L’entità delle riserve non era in discussione, ma altrettanto non si poteva dire della futura capacità produttiva minata da problemi di ordine geopolitico. Il petrolio poteva pure essere una risorsa abbondante ma le passate crisi petrolifere avevano insegnato che era comunque troppo importante per l’Economia globale per poter abbassare la guardia. L’Editoriale, apprestandosi a concludere, sorprende ancora:

<<[...] un'interruzione delle forniture di petrolio danneggerebbe enormemente l'economia mondiale. Questo è il motivo per cui, anche se i prezzi scendono, i governi dei paesi consumatori dovrebbero essere in guardia contro i pericoli della dipendenza del petrolio. Ad esempio si dovrebbe mantenere la ricerca impegnata nello studio di alternative ai motori a combustione interna finora alimentati da carburanti petroliferi, come i sistemi a celle combustibili che possono ricavare l’idrogeno dal gas naturale (Sic!). Un altro modo è frenare il consumo attraverso alte tasse petrolifere. Il paese con più possibilità di intervento è l'America che consuma un quarto del petrolio mondiale, quasi tutto per i trasporti. Le tasse americane sul petrolio sono così basse che non tengono neppure conto dei costi ambientali come l'inquinamento. Non c'è momento migliore di attuare il gesto politicamente imbarazzante dell'aumento delle tasse come quando il prezzo del petrolio è così basso che il denaro può essere rapidamente restituito abbassando qualche altra imposta.[1]>>

Riduzione del consumo di energia? Internalizzazione delle esternalità ambientali tramite tassazione sui carburanti? C’è di che far svenire molti insigni economisti moderni
L’articolo poi si conclude applicando, ancora una volta, una sorta di “principio di precauzione” generato dal buonsenso:

"Tutto questo servirebbe però ancora soltanto a mitigare i rischi futuri. A parte tutto, il ritorno alla normalità dei mercati petroliferi e la fine del potere Opec sono benvenuti. Ma proprio come negli anni '70 la scarsità di petrolio sembrava un dato di fatto, anche la sua abbondanza di oggi potrebbe essere data per scontata. Questa normalità potrebbe durare per un pò, ma è imprudente supporre che possa durare per sempre.[2]"

E questa previsione, forse, si sta avverando più velocemente di quanto credesse lo stesso autore.



[1] "Yet any interruption to oil supplies would be hugely damaging to the world economy. That is why, even as prices fall, governments of consuming countries should be guarding against the dangers of oil dependence.
One way of doing this is to keep researching into alternatives to the petrol-powered internal combustion engine, such as fuel-cell systems, which can derive hydrogen from natural gas. Another is to curb consumption through higher petrol taxes. The country best able to make a difference is America, which consumes a quarter of the world’s oil, almost all of it for transport. American petrol taxes are so low that they do not even take account of environmental costs such as pollution. There is no better time to perform the politically awkward feat of raising taxes than when oil prices are low and the money can be quickly handed back in lower taxes elsewhere."

[2] "Yet even this would serve only to mitigate the future risks. By all means, welcome the return of normality to oil markets and the end of OPEC’s power. But just as oil’s scarcity seemed a fact of life in the 1970s, its abundant flow might be too easily taken for granted today. Normality could last a while; but it is unwise to assume that it will endure for ever"

giovedì, marzo 26, 2009

I bamboccioni del petrolio

Per utilizzare un termine che è sempre più in voga, propongo questo paragone con i bamboccioni.

Secondo le più imparziali stime sulle reali riserve petrolifere attuali, che sono poi alla base di tutto quello che ASPO divulga, siamo in corrispondenza del picco della curva di produzione mondiale di greggio. Non è molto importante sancire se il "punto" di massimo si situi a luglio 2008 o a gennaio 2010; quello che conta è contestualizzare la situazione per riuscire a gestire le enormi implicazioni che scaturiranno. Anche perchè un destino molto simile toccherà, con piccoli differimenti nel tempo, ad altre risorse minerarie che ad oggi sono altrettanto vitali per garantire il substrato necessario a "non far cadere" i sistemi estrattivi, industriali, dei trasporti, dei servizi, finanziari e socio-politici. Stiamo parlando del gas naturale, del carbone e dell'uranio.

Il punto è che l'intero mondo sviluppato è un bamboccione del petrolio; più in generale, un bamboccione delle risorse fossili, e ha serie difficoltà a liberarsi dal cordone ombelicale, per ragioni essenzialmente di convenienza economica e di inerzia dei macrosistemi. Un po' come avviene per i veri bamboccioni, italiani e non.

Come dice lo stesso nome, le risorse fossili sono destinate ad "esaurirsi"; naturalmente, non è che il 19 agosto 2082 avremo estratto l'ultimo barile di greggio, e il giorno dopo ci sarà l'armageddon. Gli effetti sono di respiro molto più ampio e distribuito, anche se non per questo meno duri.

In particolare, in prossimità del picco e nella fase discendente i sistemi citati sopra manifestano delle "instabilità ad alta frequenza".

Lo stiamo già vivendo: una diminuzione dell' "offerta" petrolifera comporta necessariamente delle difficoltà per i comparti industriali, che puntano, almeno nell'attuale paradigma, alla mitologica "crescita in(de)finita". In successione, scaturiscono difficoltà per le persone che perdono il posto di lavoro, difficoltà per gli istituti di credito che non riescono più a realizzare il previsto, difficoltà per gli Stati che intervengono per salvare industrie, banche e famiglie, e così via in una spirale perversa [si veda per un approfondimento l'ottimo post di Gail the Actuary, matematica nel settore attuariale ed editor/contributor a http://www.theoildrum.com/: "Peak oil and the financial crisis"].

In pratica, ci sono tutti gli elementi per veder partire un effetto valanga inarrestabile.

La razionalità scientifica ci porta a ritenere che ora che siamo al massimo della capacità produttiva fossile, occorrerebbe lanciare un massiccio piano di diffusione delle tecnologie di produzione di energia rinnovabile e di recupero materiali. Una razionalità ancora superiore (ma inattuabile, non potendo tornare indietro nel tempo) ci suggerirebbe che questo avrebbe dovuto essere fatto nel punto di "flesso" dell'ipotetica gaussiana della produzione petrolifera mondiale, intorno ai primi anni '80. Poco prima, cioè, che la curva esibisse sintomi di "stanchezza" (dopo il flesso, la "velocità di crescita" diminuisce; questo è un segnale di avvicinamento di un plateau).

E' difficile prevedere cosa avverrà esattamente, e la distribuzione nel tempo degli eventi; quello che è certo è che sarà un impatto non indifferente, come una di quelle enormi sfere metalliche che vengono utilizzate per abbattere gli edifici. Ecco, è come se l'umanità fosse all'interno di un vecchio edificio prima che arrivi la mazzata. L'intera struttura traballerà, e si sgretolerà in alcuni punti più fragili; ma con molta informazione, tanto sangue freddo e - non lo nascondo - un po' di fortuna, non assisteremo al collasso, e prenderemo coscienza collettiva dell'urgenza delle scelte da intraprendere.

mercoledì, marzo 25, 2009

Non tutte le crisi vengono per nuocere

Questo grafico a torta, che ho ricavato dai dati statistici provvisori disponibili per il 2008 sul sito di Terna S.p.A., rappresenta la ripartizione tra le varie fonti del Consumo Interno Lordo di Energia Elettrica. Per Consumo Interno Lordo, si intende la produzione nazionale lorda, cioè quella misurata ai morsetti dei generatori elettrici più il saldo tra importazioni ed esportazioni. Come anticipato in un mio precedente articolo, siamo in presenza di un evento storico: Per la prima volta dal 1981 il Consumo Interno Lordo si riduce rispetto all’anno precedente, da 360,2 Twh a 357,4 Twh (- 0,8%). Questa riduzione complessiva è il frutto di un aumento della Produzione Nazionale Lorda, da 313,9 Twh a 317,9 Twh, e di un calo delle importazioni, che passano da 46,3 Twh a 39,5 Twh.
In un altro mio articolo è possibile confrontare il grafico del 2008 con quelli del 2006 e 2007.

Analisi.
Continua la tendenza verso una sempre più marginale (5,1%) dipendenza dal petrolio della produzione termoelettrica, la conferma del ricorso al gas naturale come principale fonte per il termoelettrico, che raggiunge quasi il 50%, un contributo stabile dei combustibili solidi (carbone), ma si registra una riduzione apprezzabile del saldo tra import ed export (principalmente energia nucleare proveniente dalla Francia) e un sensibile aumento (+ 2,8%) del peso delle rinnovabili determinato da una crescita della produzione idroelettrica, da 32815 GWh a 39980 GWh (+ 21,8%), dovuta a un inverno più piovoso, e da un’ulteriore crescita dell’eolico, da 4035 GWh a 6437 GWh (+ 59,5%).
Proviamo ora ad abbozzare un’analisi politico – strategica a partire da questi freddi numeri. E’ molto probabile che il calo del Consumo Interno Lordo non sia un fattore contingente ma un dato strutturale. Potremmo cioè essere in presenza del picco italiano del consumo di energia elettrica, effetto per il 2008 del combinato disposto degli alti prezzi petroliferi e della successiva crisi finanziaria. I primi sintomi di ripresa economica e di rilancio della domanda mondiale potrebbero essere tarpati sul nascere da una nuova volata delle quotazioni del petrolio che innescherebbero un meccanismo di retroazione negativa nei confronti dei consumi elettrici, variabile fortemente dipendente dalla crescita economica.
Ipotizziamo quindi, cautelativamente, che il Consumo Interno Lordo italiano di energia elettrica oscilli nei prossimi anni intorno al valore del 2008, mantenendosi sostanzialmente costante. Potremmo quindi pensare a uno scenario di breve – medio termine che preveda una ulteriore moderata crescita del gas naturale, fino al 55%, una maggiore penetrazione delle rinnovabili, fino al 25%, una stabilizzazione del saldo tra importazioni ed esportazioni intorno al 10%, l’azzeramento della dipendenza dal petrolio e un dimezzamento della dipendenza dal carbone.
A partire da queste ipotesi, utilizzando i valori emissivi contenuti nella Decisione della Commissione 29/01/2004 attuativa della Direttiva 2003/87/EC per il monitoraggio dei GHG (Green House Gas), otteniamo una minore emissione complessiva del sistema elettrico italiano di circa 25 Mton (milioni di tonnellate) di CO2, corrispondenti alla riduzione prevista per il settore elettrico dalla delibera CIPE 19/12/2002 in applicazione del Protocollo di Kyoto.
Questo scenario richiede però alcune scelte politiche chiare. La prima riguarda la diversificazione delle fonti di approvvigionamento del gas naturale. Questo combustibile è nettamente il meno inquinante e consente alti rendimenti energetici nelle centrali a ciclo combinato. Però occorre evitare cali improvvisi delle forniture legati a decisioni imprevedibili dei paesi produttori. Questo implica, piaccia o non piaccia, la costruzione di un numero sufficiente di rigassificatori. E’ necessario rafforzare le politiche di partnership con la Francia che consentano di consolidare i rapporti commerciali nel settore elettrico e infine attuare una nuova politica selettiva di incentivazione delle rinnovabili che punti a massimizzare la produzione a parità di potenza installata.

lunedì, marzo 23, 2009

Caporetto 2009

Andamento della produzione industrale in Italia. Da "Italian Economy Watch"

Nel 1917, nessun giornale Italiano riportò la notizia della disfatta di Caporetto. Ve lo posso dire perché faccio collezione di libri e giornali dell'epoca ed è una cosa che ho notato molte volte. Chi, a quel tempo, avesse voluto capire che cosa stava succedendo esattamente al fronte, dai giornali avrebbe solo potuto vagamente intuire che qualcosa stava andando male, anzi parecchio male. Lo si vedeva dal parossismo di insulti contro gli Austriaci, dall'incremento della retorica bellica e dai disegnini delle truppe imperiali rappresentate come grandi scimmioni pelosi con l'elmetto a punta.

Non vi so dire se la notizia della disfatta italiana a Caporetto sia apparsa esplicitamente sui giornali degli altri paesi. E' probabile, comunque, che fosse più facile farsi un'idea dell'andamento del fronte italiano all'estero che sui giornali Italiani, dove un giornalista che avesse voluto dire le cose come stavano sarebbe stato esposto all'accusa di "disfattismo".

Qualcosa di simile sta succedendo in questo momento per la nostra Caporetto economica. Dai giornali italiani, non si riesce a rendersi conto di cosa sta succedendo. Si può solo intuire che qualcosa sta andando male, anzi parecchio male, dal parossismo di insulti contro questo e contro quello. I giornali non se la prendono contro le truppe imperiali, ma trovano come bersaglio i vari rumeni, zingari, immigrati eccetera. Non siamo arrivati ancora a disegnarli come scimmioni pelosi con l'elmetto, ma ci siamo vicino.

Così, se uno vuol capire che cosa sta succedendo anche qui difficilmente può far conto sulla stampa italiana, dove chi volesse far capire le cose si troverebbe subito esposto all'accusa di "catastrofismo" (equivalente moderno del disfattismo di una volta). Lo possiamo fare, però, dando un'occhiata alla documentazione che arriva dall'estero.

Allora, guardate l'andamento della produzione industriale italiana dal blog di Howard Hugh, "Italian Economy Watch". Non so se lo volete chiamare una Caporetto economica, ma era da quando l'ISTAT mantiene i dati sulla produzione industriale che non si vedeva un disastro del genere. E non è solo la produzione industriale che sta crollando: il fronte ha ceduto su tutta la linea. Leggetevi l'articolo di Hugh: c'è da rabbrividire: tutto il sistema industriale italiano è in rotta. Si dimostra ancora una volta come il sistema economico italiano, basato sul turismo e sulla trasformazione di materie prime importate dall'estero, è un modello ormai obsoleto in un mondo in cui si comincia a sentire la scarsità delle risorse minerali.

Troveremo una linea del Piave sulla quale attestarci? Forse si, ma ricordiamoci che il Piave non fu il risultato della retorica, ma di veri sacrifici e delle truppe mandate in aiuto dell'Italia dagli alleati. Anche stavolta, la retorica ci servirà a poco e di sacrifici ne dovremo fare che ci piaccia o no. Speriamo che qualcuno ci dia una mano, altrimenti potrebbero servire a poco anche quelli.

L'orologio del futuro

Il "cipollone" meccanico che mi sono comprato quest'anno per Natale, riproduzione moderna di un orologio una volta in dotazione al personale delle ferrovie dello stato. L'ho comprato perché mi piaceva, ma in quel momento non avrei saputo dire perché. Ora, qualche mese dopo, l'ho capito. L'orologio meccanico non è il passato: è il futuro.



Io sono della generazione di quelli che da bambini ricevevano in regalo l'orologio per la prima comunione. Mi ricordo ancora di quello che regalarono a me: era un orologio d'oro, non saprei dire se di oro vero o placcato. Molto probabilmente, la seconda cosa.

Mi ricordo che quell'orologio dorato non mi piaceva per niente e non l'ho portato quasi mai. Questo anche perché, mi piacesse portarlo o no, andavo a scuola in una delle zone più malfamate della periferia di Firenze. A quel tempo non si parlava tanto del problema criminalità e non girava ancora droga, ma non era decisamente il caso per un ragazzo di girare in quelle zone con un orologio d'oro al polso. Così quell'orologio se n'è rimasto tranquillamente per tanti anni in un cassetto a prendere polvere. Forse c'è ancora, da qualche parte.

Era ancora un'epoca in cui avere l'orologio - d'oro o non d'oro - ti dava una certa distinzione sociale: non tutti se lo potevano permettere. Ce lo racconta anche Don Milani nel suo "Esperienze Pastorali" quando dice che per le famiglie negli anni '50 dover regalare l'orologio al figlio che fa la comunione era un discreto sforzo economico. E non vale, dice Don Milani, che lo regali lo zio, perché quando farà la comunione il cugino sarà come se se al babbo arrivasse la cambiale dell'orologio. Don Milani aveva una percezione acutissima della situazione sociale e economica dei suoi tempi.

Ma passava rapidamente il tempo in cui avere l'orologio era sufficiente per distinguerti socialmente. La cosa cominciava a dipendere da che orologio avevi. Mio zio ingegnere portava un cronometro che aveva la lancetta dei secondi che si poteva fermare e far partire. Era un oggetto che mi affascinava enormemente, era quasi parte dell'universo fantascientifico in cui leggevo di astronavi e di pistole disintegranti. Chi poteva, aveva orologi con tante lancette e tanti piccoli quadranti.

Mi pare che fosse negli anni '70 che cominciarono a comparire i primi orologi digitali. I miei amici che se li potevano permettere,ostentavano il quadrante a LED che si illuminava soltanto quando si premeva un bottone; altrimenti la batteria non ce la faceva. In poco tempo, l'orologio meccanico con le lancette fu consegnato alla pattumiera della storia. Tutti gli orologi erano elettronici e con il quadrante rigorosamente digitale.

Credo che il "picco dell'orologio" come status symbol sia stato più o meno negli anni '80, dopo di che il ruolo è passato al telefonino; simbolo classico dello yuppy anni '90. C'è sempre uno status symbol predominante: un tempo era il cappello, poi è stata l'automobile, poi - appunto - l'orologio e infine il telefonino. Chissà che nel futuro non possa diventare il fatto di avere i pannelli fotovoltaici sul tetto; ma per arrivarci forse bisognerà trovare il modo di farli dorati come i vecchi orologi per le prime comunioni.

Via via che gli oggetti tecnologici calano di prezzo, perdono il loro ruolo di status symbol. I telefonini, probabilmente, hanno già fatto il loro tempo in questo ruolo. Questo potrebbe far ritornar fuori gli orologi che, nel frattempo, si sono liberati della tirannia dei quadranti digitali e sono tornati alle buone, vecchie lancette; molto più facili da leggere. Curiosamente, la sconfitta dei quadranti digitali è stata veramente totale. Oggi, non si trovano nemmeno più in vendita nei negozi dei cinesi.

C'è chi l'orologio non lo porta proprio e chi è tornato ai pacchiani orologi d'oro come status symbol. Personalmente, ho fatto una strada un po' diversa. Ancora prima della sconfitta dei quadranti digitali, mi ero comprato un orologio a lancette a un mercatino per (mi pare) quattordici euro. Con quello, sono andato avanti per anni, solo cambiando ogni tanto la batteria e il cinturino (in rigorosa plasticaccia nera). Poi, qualche mese fa, camminavo per la strada e mi è capitato sotto gli occhi questo orologio a cipolla; non un pezzo d'antiquariato ma una riproduzione moderna di un orologio degli anni '20. Perché no? Mi sono detto. Me lo sono comprato e ho messo in un cassetto il vecchio e fedele orologio da polso. Da allora, uso l'orologio a cipollone normalmente.

Mi ci è voluto un po' di tempo per capire esattamente perché il vecchio cipollone mi attira tanto. Ha a che vedere - indovinate - con il picco del petrolio e, soprattutto, con il picco dei minerali. Vedete, un orologio digitale moderno è fatto con tanta bella tecnologia, ma è anche vero che per farlo ci vuole molta energia e tanti materiali rari e in via di esaurimento. In più, va con la batteria a litio che non è poi così raro, ma la batteria è comunque una cosa costosa da produrra. Insomma, credo che di fronte a certi aggeggi ci sia da domandarsi se ne abbiamo veramente bisogno via via che entriamo in un'epoca di scarsità di materie prime.

Ora, non mi fate fare l'oscurantista e non mi fate dire cose che non ho detto. Non dico che bisogna tornare in tutto e per tutto alla tecnologia degli anni '20. Non si potrebbe fare a meno della microelettronica per far funzionare un telefono cellulare o un navigatore satellitario. L'orologio meccanico che porto è soltanto l'emblema di un concetto. Lo è perché usa soltanto materiali comuni e poco costosi: acciaio, cromo, vetro e poco più. Un orologio così non fa uso di risorse rare, può durare decenni e ti dice che ore sono con una precisione sufficiente se solo ti ricordi di caricarlo tutti i giorni. Per tante cose, va benissimo. E' esattamente come utilizzare una bicicletta (altro oggetto tipico degli anni '20 e anche prima) al posto di una macchina. Per certe cose, ci vuole un veicolo più robusto e più pesante di una bicicletta e per quello dobbiamo destinare le risorse rimanenti a costruirlo solido e efficiente usando trazione elettrica e batterie. Ma quando non c'è bisogno di trasportare roba pesante o su lunghe distanze, basta una bicicletta. E' una questione di proporzione.

E' andata a finire che quando parlo ai convegni faccio vedere il mio orologio a cipollone e racconto che è un'immagine del futuro. E' un futuro sobrio, nel senso che se sappiamo gestire bene le risorse che ci rimangono, potremo ancora avere quello che ci serve, ovvero sapere che ore sono. Se non ce le sapremo gestire, ci troveremo di fronte a un futuro povero, che è tutta un'altra cosa: avremo orologi molto belli e complessi che, però, segneranno l'ora esatta soltanto due volte al giorno.