sabato, gennaio 31, 2009

Una notizia buona e una cattiva

Sul sito dell’Unione Petrolifera, sono disponibili i dati sui consumi petroliferi italiani nel 2008. Il dato totale evidenzia anche per l’anno appena trascorso una tendenza storica alla riduzione dei consumi petroliferi, che sono stati pari a circa 80,9 milioni di tonnellate, con una diminuzione del 3,6% (-3.057.000 tonnellate) rispetto al 2007. Questo calo costante è stato trainato negli ultimi anni dal progressivo abbandono dell’olio combustibile per l’alimentazione delle centrali termoelettriche nazionali (a vantaggio prevalentemente del gas naturale). Ma la novità importante è che per la prima volta si registra una riduzione dei consumi di carburanti per autotrazione, cioè benzina e gasolio, che passano da un totale di 38,1 Milioni di tonnellate del 2007 ai 37, 2 milioni di tonnellate del 2008 (- 2,4%). Finora, la crescita costante della domanda totale di carburanti per autotrazione era avvenuta in presenza di una graduale sostituzione della benzina con il gasolio. Quest’anno però, anche il gasolio subisce una leggera riduzione. Inoltre, nello stesso periodo le nuove immatricolazioni di autovetture sono risultate in diminuzione del 13,4%, con quelle diesel a coprire il 50,6% del totale (era il 55,7% nell’anno 2007).
La crisi economica ha determinato quindi nel settore dei trasporti una conseguenza positiva, cioè la riduzione della mobilità su gomma. La sensibile riduzione delle differenze di prezzo tra benzina e gasolio, ha poi invertito la tendenza apparentemente inarrestabile alla sostituzione di auto alimentate a benzina con quelle diesel. La somma di questi due fattori dovrebbe produrre effetti positivi sul livello di emissioni inquinanti e climalteranti del sistema dei trasporti italiano.
C’è però una cattiva notizia. Invece di affrontare la crisi dell’auto orientando le risorse pubbliche a favore del riequilibrio modale tra gomma e ferro e tra mobilità privata e collettiva, le istituzioni mondiali, comprese quelle italiane, stanno finanziando massicciamente il salvataggio pubblico delle aziende automobilistiche, nell’illusione che questi provvedimenti possano determinare una ripresa dell’economia e dell’occupazione. Ma, come gli economisti più avveduti hanno consigliato (leggete questa intervista del Premio Nobel Joseph Stiglitz), invece di continuare a buttare soldi su un modello di sviluppo insostenibile, sarebbero invece auspicabili interventi pubblici nel settore delle infrastrutture ecologiche, e politiche dei redditi finalizzate a trasferire risorse dai ceti più ricchi a quelli più poveri.
Per quanto riguarda il settore dei trasporti, ho stimato in un precedente articolo le risorse finanziarie statali da destinare a sostegno di un grande programma decennale di potenziamento del sistema ferro-tranviario nelle aree urbane italiane. I circa 15 miliardi di euro necessari potrebbero essere reperiti in parte cancellando progetti autostradali inutili (solo il Ponte sullo Stretto vale dai 4 ai 6 miliardi) e per il resto aumentando ad esempio le accise sui carburanti di appena 2 centesimi al litro (considerando un consumo annuo di carburante di circa 45 miliardi di litri, si otterrebbero 9 miliardi di euro in dieci anni).

venerdì, gennaio 30, 2009

Abitudini, inerzie e altre patologie / 5 : horror - pannolini



Anche se non ci pensiamo molto spesso, il classico "pannolino" non è un prodotto così banale come può sembrare a chi non è del ramo (come me), ma è ormai un vero e proprio concentrato di tecnologia, e ci sono fior di multinazionali che sviluppano materiali e architetture "ottime" per migliorare ancora le prestazioni (che, per la verità, sono molto prossime a un asintoto).

Riporto di seguito la storia, così come l'ho tratta da un sito scientifico/divulgativo.


[...]


Anni ’50-’60: la struttura di base

Tutte le innovazioni che hanno portato al pannolino usa e getta moderno, immesso sul mercato nel 1961, furono effettuate a partire da una struttura di base messa a punto nel 1951 dalla stessa Donovan e composta da una parte esterna impermeabile, da un sistema assorbente a base di carta e da un metodo di chiusura in cui le spille da balia furono sostituite con fermagli di metallo e di plastica.


Anni ’70: si perfeziona la qualità

È dagli anni settanta in poi che il pannolino monouso subì le variazioni qualitative più significative in termini di maggiore potere assorbente e traspirante che, insieme alla perfetta vestibilità e all’elevato comfort, sono i requisiti essenziali dei prodotti attualmente disponibili. Furono introdotte le fibre di cellulosa al posto della carta assorbente e utilizzati sistemi di chiusura sempre con caratteristiche di maggiore praticità (strisce di velcro, linguette regolabili).


Anni ’80: un migliore potere assorbente e drenante

Agli inizi degli anni ottanta al corpo centrale assorbente, formato da due strati di fluff in pura cellulosa a fibra lunga, venne aggiunto un polimero superassorbente (super absorbent polymer o SAP) in grado di ritenere una quantità di urina pari a 20-30 volte il proprio peso. In pratica lo strato di cellulosa contenente SAP consente la tenuta e l’imprigionamento dei liquidi, mentre l’altro strato possiede un effetto drenante. Nello stesso periodo fu anche dimezzato lo spessore del pannolino modificando il rapporto tra la consistenza dello strato fluff (più ridotto) e quella del SAP (più spesso), con evidenti vantaggi in termini di vestibilità e di praticità d’uso, caratteristiche che vennero ulteriormente migliorate negli anni successivi.


Dal 2000 ad oggi: tecnologia all’avanguardia al servizio della delicatezza e ipoallergenicità cutanea

Gli anni 2000 sono stati contrassegnati dall’introduzione di uno strato sottofiltrante - formato da fibre atte a velocizzare l’assorbimento dei liquidi - interposto tra il nucleo centrale assorbente e la superficie a contatto della pelle formata da un tessuto-non tessuto (polipropilene) resistente e ipoallergenico.L’ultima innovazione in termini cronologici è stata la realizzazione di un rivestimento esterno microforato traspirante che, lasciando circolare liberamente l’aria, abbassa l’umidità interna e mantiene la cute più fresca e asciutta, caratteristiche essenziali a prevenire o ridurre i casi di dermatite da pannolino così frequenti tra i neonati e i bambini.




Prima degli anni '60, esistevano soltanto i "pannolini tradizionali riutilizzabili", che a loro volta costituivano il naturale perfezionamento di fasciature in cotone/lino utilizzate nei secoli precedenti.

E' fuori discussione il fatto che il livello qualitativo di oggi non ha paragoni, soprattuto in termini di resistenza nel tempo alla penetrazione dell'umidità; si tratta però di un'iper-prestazione, più che tutto di una "comodità" (essenzialmente, in termini di tempo speso per l'igiene del bimbo) che paghiamo tutti in termini energetici e ambientali. Non è un caso che l'esplosione dei pannolini "usa e getta" sia avvenuta negli anni di grande crescita nella disponibilità petrolifera ed economica pro capite (il boom degli anni '60).

Se al tempo "buttare via" dei pannolini aveva un effetto praticamente trascurabile, oggi non è più così. Lascio a un'altra occasione (o a qualche lettore curioso) lo sfizio di calcolare la massa o il volume di pannolini gettati ogni giorno nel mondo, e mi limito ad osservare che si tratta di rifiuti "da discarica" (o da inceneritore), in quanto non elevabili a materie secondarie. Una vera sequenza horror per chi ha a cuore lo stato di salute dei cicli energetici.



PS Non vorrei fare dell'assolutismo, soprattutto perchè non mi sono mai occupato del problema in prima persona, non avendo figli :-) Tuttavia, se oggi siamo a un 99,99999% di usa e getta, una società al 90% di lavabili, e 10% di usa e getta (per quando si ha proprio fretta) sarebbe davvero così fuori dal mondo?

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Gli altri post della saga:


- Abitudini, inerzie e altre patologie / 4 : paranoie da lavapiatti
- Abitudini, inerzie e altre patologie / 3 : il paradosso del frigorifero
- Abitudini, inerzie e altre patologie / 2 : l'etica del rasoio
- Abitudini, inerzie e altre patologie / 1 : la pausa caffè

giovedì, gennaio 29, 2009

Jutta Gutberlet e la "community economics" per la gestione dei rifiuti urbani


Jutta Gutberlet in piena azione "sul campo" mentre intervista uno dei 1800 catadores della discarica di Rio de Janeiro, in Brasile. E' docente presso la facoltà di Geografia dell'Università di Victoria, in Canada


Lo scorso dicembre (poco più di un mese fa), abbiamo avuto a Firenze la gradita visita del prof. Jutta Gutberlet, di cui vi avevo già parlato in un post precedente.

Avevo invitato Jutta Gutberlet da noi per raccontarci la sua esperienza con la gestione dei rifiuti a San Paolo, in Brasile. Questo lo ha fatto con due interessantissimi seminari; uno a Firenze (polo di scienze sociali) e l'altro a Sesto Fiorentino (polo scientifico). Peccato che fossimo già vicini alle ferie natalizie e che la visita è stata breve; per cui non c'è stata la possibilità di un'interazione approfondita con il gruppo ASPO-Italia. Comunque, è stato già un ottimo inizio.

Il concetto di "picco del petrolio" non è centrale nel lavoro di Jutta, ma il suo approccio è perfettamente coerente con la visione dei "picchisti". La riduzione della disponibilità delle materie prime, in effetti, ci sta portando in una situazione in cui il mondo globalizzato si trova ad aver preso una china discendente che lo porterà a scomparire in tempi più o meno lunghi. A questo punto, le ricette di una volta per combattere la povertà - per esempio sviluppo o grandi opere - non funzionano più.

Lo sviluppo inteso in senso tradizionale crea posti di lavoro, è vero, ma anche consuma risorse di cui siamo sempre più a corto. Per cui, se vogliamo creare lavoro e combattere l'impoverimento generalizzato non possiamo fare a meno di affrontare il problema del recupero delle "materie seconde". Questo recupero si genera nel modo migliore nell'ambito di quella che oggi chiamiamo "filiera corta" che ha il vantaggio, fra le altre cose, di ridurre i costi di trasporto. Inoltre, il basso valore monetario del materiale recuperato si gestisce al meglio in una situazione di economia di comunità dove non pesano le infrastrutture burocratiche dei processi tradizionali. Quindi, è essenziale recuperare le materie seconde attraverso strutture "leggere". Queste possono essere del tutto informali, a livello individuale; oppure possono essere cooperative come quelle che Jutta Gutberlet ha studiato in modo approfondito in Brasile. Le cooperative di San Paolo, in effetti, sembrano aver avuto un notevole successo sia nel recupero dei rifiuti, sia nell'essere riusciti a creare posti di lavoro e un notevole miglioramento dell'accettazione sociale dei propri membri.

Il campo di studi di Jutta Gurberlet è, in realtà, più vasto e più complesso della sola gestione dei rifiuti. E' quello che si chiama "community economics"; ovvero lo studio dell'economia nelle comunità - in particolare quelle povere e svantaggiate. L'economia di comunità non si occupa soltanto di rifiuti, ma di varie e molteplici problematiche. Ci sono questioni di educazione, microcredito, pianificazione, logistica, cittadinanza, accettazione sociale, eccetera. Tutte queste cose fanno parte di un insieme che sta generando un grandissimo interesse che si sta affermando, fra le altre cose, anche nella forma nota come le "Transition Town" che stanno cominciando ad apparire anche in Italia. In effetti, i dati recenti ISTAT che indicano che in Italia il 5% delle famiglie ha difficoltà a trovare abbastanza soldi per pagare il cibo ci rendono le favelas brasiliane più vicine di quanto non ci potessero sembrare fino a non molto tempo fa.

Questo è il lavoro di Jutta Gutberlet, che è nata in Germania, ma che è cresciuta in Brasile e che ora vive in Canada. Una persona di grandissimo valore che speriamo di poter avere di nuovo in Italia nel prossimo futuro. Ulteriori informazioni su questo argomento si trovano al sito del "Participatory Sustainable Waste Management"

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Alcune immagini del lavoro di Jutta Gutberlet.





Pedra sobra Pedra, un sobborgo di San Paolo


Riciclaggio informale, Pedra sobre Pedra



"Catadores" (riciclatori) a Diadema, San Paulo


Riciclaggio fatto a mano alla cooperativa "cooperpires"



La grande discarica di San Paolo, trasfigurata e trasformata in una specie di piramide Maya in questo disegno. E' la copertina del libro di Jutta Gutberlet "Recycling Resources, Recycling citizenship"

mercoledì, gennaio 28, 2009

Il picco dell'Impero Romano

Il "picco di Hubbert" dell'Impero Romano. Ci mancano dati storici dettagliati sull'economia romana, perciò dobbiamo affidarci ai dati archeologici. Qui vediamo alcuni elementi indicativi della vitalità dell'economia romana: l'inquinamento da piombo, indicativo dello stato dell'industria, la quantità delle ossa di animali, indicativo dello stato dell'industria alimentare, e il numero di navi naufragate, indicativo dello stato del commercio. Tutti questi indicatori hanno un massimo intorno al 1 secolo d.c., che corrisponde, in effetti, al momento di massimo fulgore dell'impero. (figura da "In search of Roman economic growth, di W. Scheidel, 2007")



L'imperatore Marco Aurelio (121-180 a.d.) ci ha lasciato le sue memorie che ci sono arrivate, intatte, attraverso quasi due millenni. Ci troviamo molti dettagli interessanti della vita di un uomo che si trovava a essere a capo di un immenso impero. Tuttavia, in queste memorie non riusciamo a trovare il sia pur minimo accenno dal quale si possa dedurre che l'imperatore si rendeva conto che qualcosa non andava con l'impero; che l'immensa struttura che si trovava a guidare stava già cominciando a scricchiolare. Pochi decenni dopo la morte di Marco Aurelio, l'impero andava incontro alla "crisi del terzo secolo" dalla quale non si sarebbe mai più veramente ripreso.

La caduta dell'impero romano è un argomento che ha affascinato gli storici per millenni. Questi, però, non sono mai riusciti a mettersi veramente daccordo sulle ragioni del declino e del crollo. A partire da Gibbon che lo attribuiva all'effetto del cristianesimo, si sono elencate letteralmente decine di cause per il crollo di una compagine che, al suo massimo splendore, sembrava invincibile e eterna. Negli ultimi tempi, - forse per esaurimento delle idee - era venuto di moda dire che l'impero non era mai veramente crollato, semplicemente si era trasformato in strutture politiche differenti. Ma questa interpretazione è stata recentemente abbandonata: i risultati delle ricerche archeologiche hanno documentato il crollo economico, e non solo politico, dell'Impero Romano.

Qui, non pretendo di mettermi alla pari con i tanti storici che hanno discusso con grande competenza questo argomento. Mi limito a proporre una mia interpretazione che è più che altro un piccolo esercizio di dinamica dei sistemi applicato all'impero romano. Per favore, non prendetela per niente di più di questo, ma può darsi che ci dia degli spunti di discussione interessanti.

Allora, il concetto di base della dinamica dei sistemi è quello di "feedback", ovvero il sistema risponde agli stimoli non in modo proporzionale agli stimoli stessi, ma amplificandoli o smorzandoli. Il feedback positivo è quello che causa la crescita rapida di un sistema quando il sistema risponde alla disponibilità di risorse incrementandone lo sfruttamento in modo esponenziale. E' così che crescono, per esempio, le popolazioni biologiche quando hanno abbondante cibo a disposizione. In questo caso, il feedback è strettamente correlato al concetto di EROEI, "ritorno energetico per investimento energetico, dalle iniziali in inglese. Più alto è l'EROEI più rapida è la crescita.

Nel caso dell'impero romano, come spieghiamo la crescita rapida del sistema a partire dal tempo della monarchia e della repubblica? Evidentemente, dobbiamo trovare le risorse di cui l'impero si "nutriva" per crescere. Non ci sono dati quantitativi in proposito, ma possiamo supporre che queste risorse fossero formate principalmente dal bottino delle conquiste. L'impero - come tutti gli imperi della storia - era un predatore dei popoli confinanti. Cresceva per mezzo di un meccanismo di feedback quasi biologico. Sconfitto un popolo confinante, si rubava tutto quello che si poteva rubare e poi si arruolavano gli sconfitti nelle legioni per fargli andare a conquistare altro bottino un po' più in la. Questo meccanismo si chiama accumulazione di capitale. Con l'oro accumulato si potevano pagare nuove legioni e con nuove legioni si potevano invadere nuovi territori e rubare ancora più oro. Al culmine della sua traiettoria, l'Impero aveva mezzo milione di uomini, oltre l'1% della popolazione, sotto le armi in oltre 50 legioni di soldati professionisti.

Tuttavia, il problema della crescita economica, qualunque sia la risorsa sfruttata, sta nella resa economica - meglio detto energetica - della risorsa stessa. Valeva la pena conquistare i popoli vicini solo se c'era una resa economica/energetica sufficiente per dare ai Romani la possibilità di accumulare risorse per nuove conquiste. Ma, col tempo, i Romani si sono trovati di fronte allo stesso problema che abbiamo noi oggi con il petrolio: si sfruttano prima le risorse ad alto EROEI dopo di che uno si trova in difficoltà con quello che rimane; a basso EROEI. In altre parole, l'EROEI diminuisce gradualmente col tempo e con esso la spinta alla crescita.

Al culmine della loro espansione, verso l'inizio del primo secolo a.d., I romani si trovavano in mancanza di prede. A Est, c'era l'impero dei Parti, troppo forte per essere conquistato. A Sud avevano il deserto del Sahara, dove non c'era niente da conquistare. A Ovest avevano l'Oceano Atlantico e a Nord popolazioni allo stesso tempo povere e bellicose: Germani, Pitti e Irlandesi. Tutte risorse a basso EROEI.

Non è un caso che il primo segnale dell'arresto dell'espansione dell'Impero sia arrivato con la sconfitta di Carrhae contro i Parti, nel 53 a.c. A portare le legioni romane in quella sfortunata spedizione in Oriente era Marco Licinio Crasso, a quel tempo "l'uomo più ricco di Roma". Questo ci dice qualcosa di come si accumulava la ricchezza nell'Impero Romano: con la conquista militare. A Carrhae, i Romani erano arrivati con un corpo di spedizione numeroso, bene armato e addestrato. Ma non si dimostrò sufficiente. Il feedback della conquista da positivo si trasformava in negativo. L'impero non accumulava più capitale; lo dissipava. Dal primo secolo in poi, la storia dell'Impero passa attraverso tante campagne militari, più o meno fortunate, ma la tendenza è sempre quella: il declino. Già Augusto aveva ridotto le legioni da 50 a 28, ma il numero di uomini in armi era sempre di oltre 300.000. Più tardi, la rivolta giudaica del 66 a.d. era stata l'occasione di depredare un nuovo nemico; con la differenza che la Giudea era una provincia dell'Impero. Predatore senza più prede, l'impero ormai divorava se stesso. Con il bottino del saccheggio di Gerusalemme, l'impero poteva lanciare una nuova guerra di espansione, quella contro la Dacia al tempo di Traiano. Fu l'ultima conquista Romana.

Il culmine della traiettoria dell'impero forse lo ha colto bene Marguerite Yourcenar nel suo "Memorie di Adriano." A un certo punto, ci descrive l'Imperatore Traiano, ormai non più giovane, che si è lanciato all'assalto dell'Asia e che si rende conto dell'enormità dell'impresa e dell'impossibilità di compierla. Forse, era proprio quell'istante il "Picco di Hubbert" dell'impero. Con la morte di Traiano, finisce un'epoca.

Dopo Traiano, la vita dell'Impero al tempo degli Antonini è quieta ed è anche prospera, ma c'è un problema: i conti non tornano. L'impero dissipa più capitale di quanto non ne incameri. E' come un orologio a molla che nessuno si preoccupa di ricaricare; deve fermarsi prima o poi. I Romani non si rendono conto che un'economia basata sull'agricoltura non può avere gli stessi ritorni economici di una basata sulla rapina. L'impero non riesce a vivere entro le proprie possibilità. Mantiene un immenso apparato militare e si imbarca in un costosissimo programma di "grandi opere" basato sulla fortificazione dei confini (i "limes") dell'impero. E' probabile che questa campagna di costruzioni sia stata più un grande affare per le lobbies militari/edilizie dell'epoca che una vera necessità strategica. Il fatto è, comunque, che i Romani si ritrovano con un immenso sistema di fortificazioni che dovevano essere presidiate a costi - come diremmo oggi - "insostenibili"

Per il terzo secolo a.d., l'impero è ridotto a un guscio vuoto; il nulla circondato da fortificazioni. Il crollo era inevitabile, anche se l'agonia durò un paio di secoli per l'impero di occidente e qualche secolo in più per quello d'oriente. Della fine dell'impero romano di occidente, ci resta il rapporto di Rutilio Namaziano, scritto nei primi anni del quinto secolo a.d. Namaziano, in fuga da Roma, vede il crollo dell'impero davanti ai suoi occhi ma nemmeno lui, come Marco Aurelio secoli prima, riesce a rendersi conto di cosa c'è che non va. Non riesce a capire le ragioni del crollo e le attribuisce solo a un temporaneo rovescio di fortuna.

La dura legge dell'EROEI non perdona.

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Ci potremmo domandare per pura curiosità, cosa sarebbe potuto succedere se i Romani avessero potuto fare un'analisi dinamica della loro situazione quando ancora potevano fare qualcosa per evitare il crollo e il declino. Ammettiamo l'esistenza di un grande sapiente che viene dalle brume di Britannia, un antenato di Merlino che si chiama Ianus Forresterius. Costui va a Roma e si presenta davanti a Marco Aurelio; gli dice "Imperatore, il mio nuovo calcolatore analogico azionato da schiavi, mi dice che l'impero è condannato, e che entro cinquant'anni inizierà il crollo"

Al che, Marco Aurelio è tentato di mandare Forresterius a quel paese (ovvero, a Eburacum, in Britannia, da dove è venuto) ma, essendo una persona paziente, si trattiene.

"Ditemi, saggio Forresterius, che cosa dovremmo fare per evitare il crollo previsto dal suo - ahem - "calcolatore" che, immagino, sia un particolare tipo di oracolo...."
"Imperatore, dovete ritornare alla sostenibilità: state spendendo troppo per le legioni e per le fortificazioni. Dovete sciogliere le legioni e abbandonare le fortificazioni. "
"Ma, Forresterius, se facciamo così, come faremo per evitare che i barbari ci invadano?"
"Imperatore, i barbari invaderanno sicuramente se l'impero si indebolisce per mantenere venticinque legioni."
"Ma se sciogliamo le legioni...."
"Imperatore, dovete studiare sistemi di difesa sostenibile: difendete le città con delle mura. Si chiama "relocalizzazione"....."
"Ma, onorabile Forresterius....."
"Imperatore, se non fate così, i limes crolleranno e l'impero cesserà di esistere!

A questo punto, Marco Aurelio considera seriamente l'idea di fare appendere Forresterius per i piedi dai suoi pretoriani. Essendo però molto, molto paziente, si limita a ringraziare Forresterius e lo rispedisce a Eburacum sotto scorta con l'ordine di non farsi più vedere.

Questo è, più o meno, quello che è successo quando Jay Forrester, ai nostri tempi, ha sviluppato per la prima volta l'applicazione della dinamica dei sistemi al "sistema mondo" e ne ha predetto il crollo per i primi decenni del ventunesimo secolo.
Forrester era l'originatore del gruppo che produsse "I Limiti dello Sviluppo" nel 1972. Non l'hanno appeso per i piedi (anche se c'è stato chi è andato vicino a proporlo), ma non è stato creduto. L'imperatore oggi sta alla Casa Bianca a Washington, ma sembra che non si renda conto di cosa sta succedendo, non più di quanto non se ne rendesse conto Marco Aurelio ai suoi tempi.

martedì, gennaio 27, 2009

I veri mali di questo secolo


Quanto ero piccolino, ho frequentato il catechismo, come credo la maggior parte di chi legge; quasi certamente, se fossi nato in qualche altra realtà sociale (Groenlandia, o Africa centrale per esempio) avrei fatto un altro percorso.

Di quelle ore trascorse nelle aule del catechismo conservo un ricordo quasi fiabesco: l'anziana maestra che parlava di eventi e miti di millenni fa, i brani e le preghiere da imparare a memoria (che fatica !!), gli scherzi e le risate trattenute tra compagni, i "compiti" per casa ...

Senza entrare in lunghe digressioni (non ho competenze filosofiche e teologiche) vorrei condividere con chi legge i pochi concetti che per me sono diventati dei "pilastri": solo recentemente, per la verità, ma che affondano le loro radici in questa esperienza da bambino.


Il diavolo. In pressochè tutte le culture esiste una qualche "personificazione della malvagità", che normalmente ha legami con l'aldilà, o con cose come la cattiveria, la sopraffazione e la guerra, ed è raffigurato come un frankenstein di parti di animali innestate su un corpo più o meno umano. La parola in sè deriva dall'etimo greco "dia bolein" = "colui che divide"; dagli etimi sanscrito ed ebraico antico abbiamo "shatan" (satana) = "nemico, avversario".

Il peccato. E' un concetto molto presente nella cultura cattolica, e anche in quella islamica (seppur in forme diverse). L'etimo della parola è incerto, tuttavia nel latino troviamo "peccare" come "errare, sbagliare il bersaglio".

Proviamo ora ad astrarre da immagini e personificazioni varie, e ad utilizzare la potenza concettuale citata sopra per affrontare i veri problemi di questo secolo: clima ed energia.
La portata di essi è stata afferrata e divulgata da Al Gore, e ora, pare, anche dal neopresidente Barack Obama. Comprenderne l'importanza e l'impatto su basi puramente scientifiche (per avere predizioni il più possibile imparziali e corrette) è fondamentale.
Il cambiamento climatico dovrebbe manifestarsi in tutta la sua importanza più nella seconda metà del secolo (anche se non siamo immuni da probabili anticipazioni legate a feedback positivi); il problema dell'energia, già nella prima metà del secolo e con alta probabilità entro il 2020. In realtà, lo stiamo già sperimentando sottoforma di riduzione della produzione industriale e di instabilità dei meccanismi finanziari, come predetto dal Club di Roma. Queste problematiche sono interagenti e non possono essere "risolte" come un'equazioncina semplice; occorre piuttosto essere consapevoli della loro essenza su scala globale per attuare le virate "giuste", in modo da dare spazio a dinamiche nuove, basate sulla rinnovabilità.

Se siamo divisi sulle decisioni da prendere, mancheremo il bersaglio.

Oggi, capire quali sono le "scelte giuste" è oggetto di dibattiti tanto accesi quanto sterili. Lo strumento per eccellenza, la guida deve essere la Scienza. Quella vera e disinteressata.

D'altronde, per curare una persona malata, il medico serio di oggi deve appoggiarsi su solide basi scientifiche, non a esoterismi ...



PS Una della tante personificazioni del male, Cthulhu, è stata presentata e descritta in azione da Ugo Bardi in questi post:

lunedì, gennaio 26, 2009

Cthulhu contro il minieolico

Cthulhu, la creatura mostruosa e malvagia che infesta gli scantinati dei ministeri italiani e che si dedica al sabotaggio della sostenibilità, contro il risparmio energetico e contro il fotovoltaico. Ora, se la prende con il minieolico, come ci racconta Pietro Cambi in questo post dal blog "Crisis"


Da "Crisis", post di Pietro Cambi

Come volevasi dimostrare.

Sembrava troppo bella la notizia che finalmente, grazie alla delibera ARG/elt 99/08 , era diventato operativo il conto energia anche per gli impianti minieolici.

Dopo un mese di rimbalzi da un operatore telefonico ad un altro sono andato direttamente alla sede Enel di Firenze e mi hanno allungato la NUOVA modulistica necessaria, ai sensi delle delibere Arg/elt/99/08 e AEEG n. 348/07, per richiedere l'allacciamento di un impianto Minieolico da 6 Kw, come quello che vorrei installare su un terreno di Caprese Michelangelo (Ar).

In pratica si tratta di depositare una ENORME mole di documentazione, solo per avere un preventivo dei costi di allacciamento, la stessa mole che sarebbe necessario depositare per centrali elettriche da centinaia di MEGAWATT di potenza e non Kw, come la turbinetta eolica in questione.

Il motivo, sinceramente, mi sembra uno solo: scoraggiare, nei fatti, i piccoli produttori di energia da fonti rinnovabili, secondo uno schema classico ed anche troppo chiaro, nei suoi risvolti ed interessi.

Quando ho letto l'elenco della documentazione necessaria, GIA' IN FASE DI SEMPLICE RICHIESTA DI ALLACCIAMENTO/PREVENTIVO, non ho potuto trattenermi dall'esclamare "§@?#%&!!!"

Potete verificare da soli:

Per i pigri, ecco qui un elenco dei documenti principali ( nemmeno tutti).

F1 - planimetria (carta tecnica regionale) dell'area dove ricade la connessione in scala 1:10.000 o 1:25.000 con ubicazione degli impianti;

• F2 - planimetria catastale dell'area dell'impianto in cui siano evidenziate le proprietà dei terreni sui quali l'impianto di produzione è destinato ad insistere;

• F3 - documento, mediante dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, attestante la disponibilità del sito oggetto dell'installazione dell'impianto. Tale documento deve indicare almeno i presupposti di tale disponibilità in termini di proprietà o di eventuali diritti di utilizzo;

• F4 - documentazione progettuale degli interventi previsti secondo quando indicato nella Norma CEI

0-2. In particolare dovrà essere prodotta la seguente documentazione:

• F4.1 - schema elettrico unifilare della parte dell'impianto a corrente alternata tra generatori e dispositivi di conversione statica ed il punto terminale dell'impianto di utenza per la connessione con indicazione dei possibili assetti di esercizio. Sullo schema sono indicati in dettaglio organi di manovra, protezione presenti ed eventuali punti di derivazione dei carichi;

• F4.2 - descrizione (tipologia, caratteristiche tecniche di targa) dei seguenti componenti:

• F4.2.1 - generatori, convertitori e/o eventuali motori elettrici di potenza;

• F4.2.2 - dispositivi (generale, di interfaccia e/o di generatore) e protezioni associate;

• F4.2.3 - sistemi di rifasamento (eventuali);

• F4.2.4 - eventuali trasformatori;

• F4.3 - caratteristiche sistema di misura dell'energia prodotta e/o immessa (marca e modello del misuratore - solo nel caso in cui non sia Enel Distribuzione a fornire il servizio);

• F4.5 - informazioni sulle eventuali apparecchiature potenzialmente disturbanti presenti nell'impianto (compilazione scheda apparecchiature sensibili e disturbanti del cliente –

Allegato AC alla "Guida alle connessioni alla rete elettrica di Enel Distribuzione");

• F5 - numero delle sezioni di impianto, come definite dall'art. 5.4 della delibera n. 90/07 e successive modificazioni e integrazioni, in particolare quelle apportate dalla delibera n. 161/08;

• F6 - attestazione del rispetto o meno delle condizioni di cui alla deliberazione n. 42/02 (solo nel caso di allacciamenti di impianti di cogenerazione) - modulo disponibile sul sito internet del GSE (www.gsel.it);

• F7 - attestazione del rispetto o meno delle condizioni di cui all'articolo 8, comma 6, del decreto legislativo n. 387/03 (solo nel caso di allacciamenti di impianti ibridi);

• F8 - attestato di versamento dell'importo dovuto;

• F9 - certificazione asseverata da perizia indipendente relativa all'utilizzo della potenza in prelievo esclusivamente per i servizi ausiliari (se è stato compilato il punto C1.13 e il punto D1)




domenica, gennaio 25, 2009

Spigolature: linkoteca di Aspo-Italia



Working in a coal mine (*)

created by Maurizio Tron


L’idea del titolo del post m’è venuta rileggendo il bell’articolo di Giorgio Nebbia:

‘Agli inizi del 1900 si avvertivano anche i segni dell’impoverimento delle riserve di nitrati; il picco della produzione fu raggiunto nei primi decenni del Novecento, anche per la crescente richiesta di esplosivi durante la prima guerra mondiale (1914-1918).Negli anni 20 l’estrazione di nitrati nel Cile fu razionalizzata con l’intervento, nel 1924, dei capitali dei fratelli americani Murry e Sol Guggenheim, con l’adozione di altri perfezionamenti dovuti a Elias Anton Cappelen-Smith Jr. e l’introduzione di macchinari per la frantumazione e l’estrazione del “caliche”. Si ebbe una breve ripresa della produzione negli anni 30 del Novecento, ma nel frattempo i nitrati sintetici si stavano diffondendo in tutto il mondo e il declino del nitro cileno fu inarrestabile e le “oficinas” chiusero una dopo l’altra’

Ora ad abbassare la serranda sono le industrie e le aziende che spesso hanno rappresentato il settore di punta degli ultimi decenni:

‘DHL Deutsche Post taglia 13,000 posti di lavoro American Express taglia 7000 posti di lavoro [….] Motorola taglia 10.000 posti di lavoro Nokia taglia 1800 posti di lavoro. Sony taglia 20.000 posti di lavoro [….] Hewlett Packard taglia 24.000 posti di lavoro Renault taglia 1100 posti di lavoro Le scuole francesi tagliano 25.000 posti di lavoro’ eccetera, eccetera

Nel Regno Unito i politici si mobilitano con risolutezza:

‘THE prime minister is preparing crisis measures to support workers who lose their jobs in anticipation of an avalanche of new year redundancies. Gordon Brown has called an emergency summit of cabinet colleagues, business leaders and trade unions to decide how to cope with the swelling army of the unemployed. Experts say that as many as one in 10 workers could be laid off if the government fails to kick-start the economy, pushing the level of unemployment above 3m’

mentre in Spagna tornano a rifiorire ‘professioni’ neglette:

‘The number of applicants for the Spanish army rose almost 82 percent last year compared to 2007 as a result of job cuts during the economic crisis, Spanish daily El Pais reported on Tuesday’

forse nell’attesa che torni di moda il seminario sacerdotale, arginando così la crisi delle vocazioni.
Come recuperare un lavoro, atipico finché si vuole, ma non passibile di obsolescenza più o meno programmata ? Esiste ad esempio un’iniziativa della regione Lazio:

‘Sellai, tappezzieri, decoratori, fotografi, acquafortisti, falegnami, arrotini, peltrai, orafi, miniaturisti, liutai, tessitori e mosaicisti. Inizia una nuova stagione per gli antichi mestieri e l'artigianato di qualità nel Lazio, l'Assessorato regionale all'Istruzione infatti, al fine di promuovere e conservare gli le antiche arti artigiane che rischiano di sparire, ha messo a disposizione 2.500.000 euro del Por – Fondo sociale europeo 2007/2013, per fornire una formazione professionale nel ramo a disoccupati e inoccupati di età compresa tra i 18 ed i 30 anni’

probabilmente quelle di liutaio e mosaicista non sono esattamente professioni destinate a un radioso futuro, ma vogliamo scommettere che prossimamente i mestieri di falegname, arrotino e tessitore conosceranno una rinascita ? Il bando scade il 2 febbraio 2009
Si potrebbe essere attratti dalla possibilità di lavorare sulle piattaforme petrolifere, almeno finché saranno produttive; ecco dunque uno spunto:

‘Lavorare sulle piattaforme petrolifere nell'oceano. Si può lavorare sulle piattaforme Off-Shore come: manutentori, sommozzatori, catering e staff, ingegneri, chimici, geologi, psicologi, educatori, infermiere, medici ...)’

mentre mi sento di sconsigliare attività del tipo di cui al link seguente:

‘Di fatto è un'attività in proprio con possibilità di guadagni illimitati, economicamente autonoma, che permette di lavorare da casa in totale flessibilità con un investimento iniziale di circa 50 euro (con garanzia 30 giorni soddisfatti o rimborsati). In pratica è un grande centro commerciale online di cui si diventa "soci", il "CLUBShop-mall" che si può PROMUOVERE, GESTIRE ed AMMINISTRARE [….] Non bisogna avere esperienza particolare, ci sono dei corsi on line molto buoni e discretamente semplici da seguire e assistenza da parte di persone che già fanno questo lavoro. Altra cosa positiva è che non bisogna vendere niente a nessuno, solo fare pubblicità. Tutto sembra molto serio. E, soprattutto, non promettono facili guadagni. E' un vero lavoro, a tutti gli effetti’

come no ? Anche il miliardario lo è, sempre a tutti gli effetti. Un’alternativa sensata a simili frottole è quella dell’artigianato, vedi ad esempio:

‘Lunga è la tradizione dell’artigianato a Firenze, che fiorì contemporaneamente alla nascita delle Arti, corporazioni di mestiere che, sorte fra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, favorirono in larga misura lo sviluppo della vita economica, politica e sociale della città attraverso il lavoro artigianale della popolazione’

e, in una prospettiva storica più recente:

‘Ho imparato i primi rudimenti di tessitura su un telaio a due licci circa vent'anni fa, non avendo ahimè tradizioni in famiglia (solo mio nonno era commerciante di stoffa.....) [….] Così è iniziata per me una nuova fase di approccio al lavoro. Ho cercato di concentrarmi di più sulle emozioni che provo: nell'ascoltare lo scricchiolio del telaio sotto i gesti cadenzati e continui e il tonfo del pettine contro la tela fatta; nel sentire il profumo del filato naturale che scorre, portato dalla navetta, tra i fili dell'ordito; e, perchè no, nel provare fastidio per la polvere che si va accumulando sotto il telaio. Mi sono resa conto che tutto questo: lavoro + emozioni + tempo + sentimenti + pensieri banali e non, tutto ciò va a far parte della storia di quel tessuto. Assieme al seme piantato nella terra, all'acqua che ha macerato la pianta dopo la raccolta, al sole che l'ha essiccata, per arrivare poi alle mani di chi ha filato la fibra e di chi l'ha tessuta ed infine all'atmosfera della casa che ha accolto il tessuto per usarlo come tovaglia, asciugamano, centrino, tenda, o altro e da ultimo come straccio. Tutto questo ha dato finalmente senso al mio lavoro, anche se anacronistico’

Un articolo di Marco Belpoliti (‘Elogio del lavoro manuale’) su La Stampa del 15 gennaio 2009 fornisce una possibile chiave di lettura del fenomeno lavoro in prospettiva futura:

‘Richard Sennett, uno dei maggiori sociologi viventi, pubblica ora un libro quanto mai attuale: L’uomo artigiano (Feltrinelli), una riflessione sul buon lavoro oggi, fatto con arte, sapienza manuale e intelligenza. Il suo punto di partenza è la di­stinzione tra l’animal labo­rans e l’homo faber, intro­dotta dalla sua maestra, la filosofa Hannah Aren­dt. Il primo è l’essere umano simile a una be­stia da soma, la persona che fatica, condan­nata alla routine; il secondo è la figura dell’uomo e della donna che fanno un altro genere di lavoro: l’artefi­ce, il creatore. Sennett pensa che questa distinzione sia sbagliata in quanto l’animale umano è un animal laborans capace di pensiero, in­dipendentemente dal fatto che svolga un lavoro manuale o intellet­tuale. Per il sociologo americano nel fare sono contenuti pensiero e sen­timento; l’artigiano non è tanto il falegname, il liutaio, il fabbro, op­pure il progetti­sta di program­mi informatici, quanto chi mette un impegno per­sonale nelle cose che fa. L’abilità tecnica, scrive, è stata scissa dal­l’immaginazione e l’orgoglio per il proprio lavoro trattato come un lusso. In perfetto accordo con Levi - mai citato nel libro -, descrive l’ar­tigiano come colui che è ancorato alla realtà tangibile e prova soddi­sfazione per il lavoro svolto, così che la ricompensa emotiva appare la molla per raggiungere l’abilità necessaria in ogni tipo di lavoro. Se il termine «maestria» sembra rimandare ai maestri artigiani del Medioevo e del Rinascimento, una realtà tramontata dopo l’avvento della società industriale, Sennett propone una nuova definizione del termine: maestria è «il desiderio di svolgere bene il lavoro per se stesso». Questo tipo d’attività riguarda sia il medico come il meccanico, l’informatico come l’artista, ma anche quella di genitori. [….] Oggi ben poche istituzioni si pon­gono come fine quello di produrre la­voratori felici. La felicità è stata spo­stata nella sfera del consumo. Inol­tre, la new economy ha distrutto le forme tradizionali di ricompensa, dal­la gratificazione psicologica a quella economica. La ricchezza destinata ai dipendenti di livello intermedio è ri­masta stagnante nell’ultima genera­zione, mentre quella di coloro che stanno ai vertici è salita alle stelle. Nel 1974 in un’azienda americana un dirigente guadagnava trenta volte in più del lavoratore medio, oggi quat­trocento volte di più. Può continuare la quantità ad essere il sistema di va­lutazione della qualità ? E lo stipendio del professore della scuola media di Usurate più basso di quello del torni­tore di Maranello ?’

Per chiudere una foto del dicembre scorso che ritrae Carola Negrino, allieva della classe terza scientifico al Pascal di Giaveno, la quale, dopo una brillante prova di fisica, tornata a posto ha continuato a realizzare una sciarpa all’uncinetto mentre i compagni proseguivano nelle interrogazione. Un bell’esempio di uso intelligente del tempo libero.




(*) Una versione energeticamente interessante dello storico brano di Lee Dorsey, a cura dei Devo, la trovate qui: http://it.youtube.com/watch?v=m_03pw0wkQk

sabato, gennaio 24, 2009

Il prestigioso "Japan Prize" assegnato per il 2009 a Dennis Meadows, autore dei "Limiti dello Sviluppo"


Lo scenario di base dell'edizione del 1972 dei "Limiti dello Sviluppo".
Notate il collasso che doveva iniziare verso il 2010. Non si può ancora dire con certezza, ma l'impressione è che ci abbiano azzeccato in pieno!


E' arrivato in questi giorni l'annuncio che Dennis Meadows, autore principale del rapporto al Club di Roma "I Limiti dello sviluppo" ha ricevuto il prestigioso "Japan Prize" per il 2009, il premio della fondazione giapponese per la scienza e la tecnologia.

E' un bel riconoscimento dopo tanti anni in cui il rapporto era stato vituperato e infamato in tutti i modi possibili. Sarà forse la situazione attuale che sta spingendo la gente a riconsiderare le cose, o forse, semplicemente, un'idea che si sta facendo strada come si merita.

Dennis Meadows è stato ospite del congresso ASPO-5 nel 2006 Pisa e molti di noi si ricordano della sua conferenza e della sua visione del futuro del mondo. A proposito di questo premio, mi ha detto privatamente che è dispiaciuto che Donella Meadows (scomparsa pochi anni fa) non possa ricevere anche lei il premio e che utilizzerà i 500.000 dollari del premio per una fondazione dedicata agli studi sulla sostenibilità.

Ecco l'annuncio dell'editore "Chelsea Green", che ha pubblicato nel 2005 la versione aggiornata del libro

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From Chelsea Green:

Dr. Dennis Meadows wins prestigious Japan Prize

Dr. Dennis Meadows, lead scientist and co-author of The Limits to Growth (1972) and its subsequent updates, is the winner of this year’s Japan Prize from the Science and Technology Foundation of Japan for “Transformation towards a sustainable society in harmony with nature.” This prestigious award is given once a year to people from all parts of the world whose original and outstanding achievements in science and technology are recognized as having advanced the frontiers of knowledge and served the cause of peace and prosperity for humankind. It carries a cash award of 50 million yen (about $500,000) and will be awarded during a Japan Prize Awards week in April 2009.

In 1972, three young scientists from MIT used systems dynamic theory to create a computer model (“World3”) that analyzed global resource consumption and production. Their report, funded by the Club of Rome and published as The Limits to Growth, created an international sensation and acquainted millions with the fact that large-scale industrial activities and population growth could destroy their own foundations—confronting global society with the very real prospects of self-inflicted collapse. It was an international bestseller, with over 30 million copies sold worldwide.

Later voted to be one of the 20th century’s ten most-influential environmental books, the text was the object of intense criticism by economists of the time. They dismissed it as Malthusian hyperbole. But events over the past three decades have generally been consistent with the book’s scenarios. The Limits to Growth later served as the foundation for “The Global 2000 Report to the President” as well as UN’s Brundlandt Commission.

Matthew Simmons, economist and founder of the world’s largest private energy investment banking practice, recently wrote, “The most amazing aspect of the book is how accurate many of the basic trend extrapolations . . . still are some 30 years later.”

Since its initial publication, Meadows, along with the late Dr. Donella Meadows and Dr. Jorgen Randers, has twice authored updates published by Chelsea Green: Beyond the Limits in 1992, and Limits to Growth: The 30-Year Update in 2004. In these updates, an improved world model was used to point out that the limiting features of the earth’s physical capacity, about which The Limits to Growth had sounded a warning, have continued to deteriorate, and that the time left for solving the problem is growing short; the authors urged that mankind not delay in taking the measures necessary to address the situation.

At the time of publication of Limits to Growth: The 30-Year Update, Lester Brown, Director of the Earth Policy Institute said, “Reading the 30th-year update reminds me of why the systems approach to thinking about our future is not only valuable, but indispensable. Thirty years ago, it was easy for the critics to dismiss the limits to growth. But in today’s world, with its collapsing fisheries, shrinking forests, falling water tables, dying coral reefs, expanding deserts, eroding soils, rising temperatures, and disappearing species, it is not so easy to do so. We are all indebted to the ‘Limits’ team for reminding us again that time is running out.”

Since the initial publication of The Limits to Growth, Dr. Meadows has continued to study the causes and consequences of physical growth on a finite planet. Among his numerous endeavors, he co-founded the Balaton Group, a famous environmental research network, and he has published many educational games and books about sustainable development that are used around the world.

“We are honored that Dennis Meadows is a Chelsea Green author and applaud his lifetime of work as an environmental leader, his groundbreaking research, and his dedication to forming a sustainable society,” says Margo Baldwin, president and publisher of Chelsea Green. “Working with Dennis and other Limits to Growth coauthors spurred our decades-long commitment to publishing foundational books the environment and sustainability, including our recently released Thinking in Systems by the late Dr. Donella Meadows.”

Dennis Meadows is Professor Emeritus of Systems Management, University of New Hampshire, and President, Laboratory for Interactive Learning. He lives in Durham, New Hampshire.

venerdì, gennaio 23, 2009

Evento storico?

Sono disponibili sul sito di Terna S.p.A. i dati provvisori dei consumi elettrici italiani nel 2008. Se questi dati, come di solito avviene, verranno sostanzialmente confermati, si accentuerà una tendenza già segnalata in un mio precedente articolo e saremmo in presenza di un evento storico. Per la prima volta dal 1981 la Richiesta di Energia Elettrica nel nostro paese(Consumi Finali più le perdite della rete di trasmissione), si riduce rispetto all’anno precedente, da 339,9 Twh a 337,6 Twh. Un’analoga tendenza si può riscontrare per il Consumo Interno Lordo(la somma della Produzione Nazionale Lorda, misurata ai morsetti dei generatori elettrici, e il Saldo tra importazioni ed esportazioni), che passa da 360,2 Twh a 357,5 Twh. Questa riduzione complessiva è però il frutto di un aumento della Produzione Nazionale Lorda, da 313,9 Twh a 317,9 Twh, e di un calo delle importazioni, che passano da 46,3 Twh a 39,6 Twh.
Nel grafico allegato, ricavato dai dati storici contenuti nel sito di Terna S.p.A., possiamo analizzare l’andamento della Richiesta di energia elettrica, a partire dal 1883 ad oggi. La crescita dei consumi elettrici è stata continua, interrotta brevemente solo in corrispondenza delle due guerre mondiali e del primo shock petrolifero. Questa volta, la riduzione dei consumi nel 2008 potrebbe essere determinata dall’effetto cumulato degli alti prezzi petroliferi registrati per gran parte dell’anno e della successiva crisi finanziaria ed economica, tuttora in corso.
L'attuale riduzione potrebbe anche corrispondere al picco dei consumi elettrici, perché l’uscita dalla crisi economica alimenterà una nuova crescita dei consumi energetici e dei relativi prezzi. Un meccanismo di retroazione negativa che potremmo definire del “cane che si morde la coda”.

giovedì, gennaio 22, 2009

Il picco della produzione industriale?

L'indice Dow Jones Industrial dal 1900 su scala logaritmica*. Da http://www.stockcharts.com/



Se le fonti energetiche fossili stanno piccando e iniziando il loro declino, dovremmo vederne gli effetti sulla produzione industriale, che dovrebbe declinare anche quella.

Nella pratica, non è facile misurare quella cosa che chiamiamo "produzione industriale". Normalmente, gli economisti parlano di un "indice" della produzione che tiene conto dei valori diversi di quello che si produce: un microchip conta molto di più, a parità di peso, di un'automobile. Questo tipo di misura è piuttosto arbitrario e dipende dalla nostra percezione del valore di un prodotto.

Le stesse considerazioni valgono le unità monetarie: possiamo calcolare il valore della produzione industriale in termini di euro o dollari. Ma anche questo dipende dalla nostra percezione del valore di quello che viene prodotto; ovvero di quanto siamo disposti a pagarlo.

L'indice industriale Dow Jones è una media del valore delle azioni di 30 industrie considerate rappresentative. In realtà, non è solo la media, ma una media aggiustata con varie manovre per tener conto dei pesi diversi delle industrie e dei prezzi diversi delle azioni. Mi sembra di capire che non sia corretto per l'inflazione.

Quindi, anche il Dow Jones ha più che altro a che fare con la nostra percezione del valore di quello che si produce. Però, è anche probabile che la nostra percezione sia proporzionale al valore della produzione. Per cui, la stasi e il declino del Dow Jones degli ultimi tempi si possono interpretare come un "picco di Hubbert" della produzione industriale? Non è impossibile: in effetti la stasi in media dura ormai da una buona decina di anni. La fase attuale sembra simile a quella correlata alla grande crisi del petrolio dei primi anni '70 e, in effetti, la situazione è simile sotto molti aspetti.

Per il momento non si può dire con sicurezza come si metteranno le cose, ma non è impossibile che si vada verso un declino globale della produzione industriale. Lo vedremo nei prossimi anni.


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*nota: la scala logaritmica falsa le proporzioni di questo grafico; per esempio il crollo del 1929 ne viene notevolmente ingigantito. Questo è il grafico più completo che sono riuscito a trovare su scala lineare. Evidenzia la crescita rapidissima degli ultimi anni. Per portare questo grafico fino ai dati degli ultimi tempi, dovete pensare che nel gennaio del 2009 il Dow è calato a circa 8000, quindi c'è stato un picco nettissimo, anche se in forma di doppio picco.

http://www.visualizingeconomics.com/2006/05/10/graphing-historical-data-djia/


mercoledì, gennaio 21, 2009

L'economia è uno strumento, non uno scopo




Sulla scia del post " L' efficienza è un mezzo, non uno scopo " me ne è sgorgato uno anche a me, in cui il fulcro è il concetto intrinseco di economia.

Quando ci sono problemi di ordine macroeconomico, qualche potente della situazione si sbraccia per gridare che "Sì, siamo in una crisi, tuttavia i fondamentali dell'economia sono solidi e dobbiamo stare tranquilli" (G.W. Bush, qualche mese fa).

Ora, qualcuno più esperto di me (che non ho una laurea in economia) mi può spiegare questa frase? Io la trovo, in una parola, inconsistente. Un modo per tranquillizzare l'opinione pubblica, facendo leva sul concetto di autorità. Una cosa del tipo:

- "E' così"
- "Perchè ?"
- "Perchè lo dico io"
- "Grazie!"

A livello base troviamo il concetto dell'assegnazione dei prezzi delle Materie Prime, siano esse minerali (petrolio, oro, ...) che biologiche (grano, mais, ...). A livello gestionale, invece, trova posto il capitolo dei bilanci d'impresa. Da un punto di vista "naif", con il meccanismo dei prezzi si dovrebbe riuscire a gestire i flussi di Materie Prime finite, e con gli strumenti per la redazione dei bilanci si dovrebbero governare le aziende, pubbliche e private.

Nella pratica, le cose non sono così semplici, in quanto spesso si creano fenomeni-groviglio che portano ad output economici scollegati con la realtà. Le fluttuazioni dei prezzi sulle Materie Prime possono finire in spirali ribassiste o rialziste, con amplificazioni speculative, e condurre anche a tensioni geopolitiche, come nella recentissima disputa Gazprom russa vs Ucraina (con forti interazioni anche in Europa Orientale e perfino Occidentale).

I bilanci aziendali, e qui vi chiedo di non gridare ad alcuno scandalo, sono molto facili da manipolare. Non voglio dire con questo che tutti lo fanno, ma sicuramente qualcuno sì. Di alcuni abbiamo notizia al tiggì, di molti altri no. Qual è lo scopo? "Far vedere che". Se sulla carta va tutto bene, l'azienda risulta "solida" e allontana lo spettro del ridimensionamento, attira capitali, e potrà continuare a fare quello che ha sempre fatto.

A livello socioeconomico, l'attuale governo italiano ci ha letteralmente martellato circa la necessità di "essere fiduciosi" e di "rilanciare i consumi" [Traslando quest'ultima filosofia, risulterà che non dovremo ridurre i volumi di RSU prodotti, per non mettere in crisi gli attuali inceneritori].

In tutti questi esempi l'economia non è uno strumento di gestione, ma il fine.

Chi mastica un po' di termodinamica e di dinamica dei sistemi non può non vedere l'assurdo in tutto questo. Invece di dichiarare gli imminenti limiti sistemici, li neghiamo, li condiamo di politica e cerchiamo disperatamente di continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto. E in contemporanea, magari, organizziamo gruppi di preghiera contro la crisi.

In questi anni cruciali dobbiamo intraprendere le scelte giuste: ridurre la dipendenza dai fossili, spostare gli attuali concept produttivi verso il target della rinnovabilità, diffondere una sobria "cultura del consumo". La scienza della comodità, visto che è così che l'economia oggi si manifesta, non sarà in grado di darci i giusti feedback in tempo utile, già adesso non lo è: la tendenza, ironia della sorte, sarà proprio quella di accumulare l'intensità di un mega-feedback negativo, posticipandolo soltanto. In questa eventualità, potremo soltanto constatare l'evidenza di gravi sintomi tardivi.

PS Chi è appassionato di automotive sa che i sistemi di controllo passivo (giunto viscoso, controlli di trazione..) sono utili per percorsi non troppo accidentati; in condizioni dure, o peggio estreme sono insufficienti ed è bene non pretendere troppo, ma equipaggiarsi in modo consono al terreno che si sta per affrontare. E il secolo del peakoil & gas non sarà un periodo con poche perturbazioni.

martedì, gennaio 20, 2009

God Bless you, Mr. Obama


(Immagine di Alex Grey)

Profezie




Spigolando su internet, ho ritrovato una cosa che avevo pubblicato su "The Oil Drum" il 9 Marzo 2008 in un articolo dal titolo "Cassandra's curse" (ovvero "La maledizione di Cassandra"). Eccolo qui, tradotto in Italiano:

Ora, immaginatevi che per qualche ragione la temperatura media del mondo dovesse stabilizzarsi, o addirittura scendere leggermente, per qualche anno. O immaginatevi che i prezzi del petrolio si dovessero stabilizzare or scendere per qualche anno. Queste cose non cambierebbero niente ai concetti di riscaldamento globale e di picco del petrolio, che trattano tutti e dure con cambiamenti a lungo termine. Ma sarebbe sufficiente per scatenare un'ondata di demonizzazione simile a quella che aveva travolto "I Limiti dello Sviluppo". Potrebbe facilemente causare un danno simile per gli sforzi contro il riscaldamento globale e l'esaurimento del petrolio.

Visto come stanno andando le cose, credo che basti per dimostrare che, in ASPO, non ci facciamo prendere spesso di sprovvista!

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Ecco il testo originale del mio articolo, in inglese:

Now, imagine that for some reasons the world's average temperatures were to stabilize, or even slightly go down, for some years. Or imagine that oil prices were to stabilize or go down for some years. That wouldn't change anything to the concepts of global warming and peak oil, which deal both with long term changes. But it would be sufficient to unleash a smear wave similar to that which engulfed LTG. It could easily do the same damage to the efforts against global warming and oil depletion.

lunedì, gennaio 19, 2009

In ricordo dei nostri antichi compagni di viaggio


Un bambino (o forse una bambina) neanderthal di circa 30.000 anni fa ricostruito sulla base dei resti fossili all'Università di Zurigo. Con l'avvicinarsi del bicentenario della nascita di Charles Darwin (11 Febbraio) mi è parso il caso di fare qualche commento su questi nostri remoti compagni di viaggio.


Forse, come dicono alcuni, in tutti noi c'è un po' di sangue Neanderthal. Oppure, forse, siamo sempre stati due specie diverse e separate. I Neanderthal, però, sono stati sicuramente nostri compagni di viaggio su questo pianeta per parecchie decine di migliaia di anni, finchè non sono scomparsi, circa 25.000 anni fa.

I recenti studi dei resti fossili dei Neanderthal ci hanno fatto vedere quanto fossero simili a noi. Il computer non ha pregiudizi quando ricostruisce un volto da un cranio. L'immagine del bambino (o della bambina) Neanderthal, le cui ossa furono ritrovate in Spagna molti anni fa, ci ritorna un'immagine di un'umanità quasi sconcertante. Non sappiamo se avesse veramente gli occhi verdi; ma quasi certamente aveva i capelli e la carnagione chiara, come è la tendenza delle specie che vivono in zone fredde, come facevano i Neanderthal. Gli ultimi studi ci hanno detto che avevano spesso i capelli rossi. Guardate questa ricostruzione di una donna neanderthal (da PLoSBiology). Ha un'arcata sopraccigliare prominente, come è tipica dei crani neanderthal. Ma, a parte questo, è una di noi. Portatela da un parrucchiere, un po' di trucco e di rossetto, mettetele un bel vestito, qualche goccia di Chanel n. 5 e (se siete un maschio Cro-Magnon) vi verrà voglia di invitarla a una cenetta romantica a due.

Eppure, è curioso come i Neanderthal abbiano subito una serie di insulti postumi da parte di noi Sapiens a distanza di tanti millenni dalla loro scomparsa. Guardate questa figura; è presa dall'Enciclopedia Britannica (nientemeno!). E' non è una delle peggiori. Da quando si sa dell'esistenza dei Neanderthal, ben pochi sono riusciti a liberarsi dallo stereotipo del "cavernicolo", pesante, curvo, dallo sguardo allucinato: un cretino, un deficiente, un bruto. Una ricostruzione recente del National Geographic ci presenta una "donna Neanderthal", magari non dall'aria troppo cretina, ma che sembra si sia appena liberata della camicia di forza e stia ancora scappando rincorsa dagli infermieri dell'ospedale psichiatrico. Eppure, se i Neanderthal sono sopravvissuti per centomila anni e più, dovevano avere le loro virtù e non potevano essere certamente i cretini microcefali che appaiono in queste ricostruzioni. Deve essere sfuggito a chi le ha fatte che la capacità cranica dei neanderthal era pari (e, secondo alcuni, superiore) alla nostra. Così come gli deve essere sfuggito che una specie umanoide che vive in zone fredde del nord sarà molto probabilmente di capelli e carnagione chiara. Invece, nel 99% buono delle ricostruzioni che potete trovare in giro, i Neanderthal hanno capelli neri e carnagione scura.

Come sempre, tendiamo a sovrapporre alla realtà quella che è la nostra percezione; a forzare i dati a corrispondere a quello che noi pensiamo la realtà dovrebbe essere. Così, la scoperta dei Neanderthal è avvenuta in un periodo, verso la metà dell'800, in cui praticamente tutto il mondo era diventato una colonia europea o era sotto l'influenza europea. L'idea della superiorità degli Europei rispetto alle popolazioni di altri continenti era talmente inserita nel sapere comune che alcuni l'avevano interpretata in senso pseudo-scientifico dopo aver letto l "Origine delle specie" di Charles Darwin, pubblicato nel 1859. Secondo questa interpretazione, l'evoluzione delle specie sul nostro pianeta era un movimento di perfezionamento che andava da specie "inferiori" verso specie "superiori". Era una piramide sulla cui cima stava seduto, tronfio e soddisfatto, l'uomo (o, più esattamente, l'uomo bianco)

Non ci dovrebbe essere bisogno di dire (ma purtroppo c'è bisogno) che il lavoro di Darwin non si presta minimamente a questa visione pseudo-scientifica propugnata dai vari razzisti storici che si sono susseguiti negli anni (e che, purtroppo, tuttora si susseguono). L'idea di Darwin della selezione naturale è che tutte le specie sono ugualmente evolute, in quanto tutte sono adatte a sopravvivere nel loro ambiente. Non c'è una graduatoria di superiorità fra una scimmia e un uomo, come non ce n'è fra un gatto e un elefante. Sono tutte il risultato di un processo evolutivo che è durato centinaia di milioni di anni. Tutte le creature viventi hanno percorso la stessa strada e nessuna è più avanti delle altre nella corsa verso un ipotetico traguardo di perfezione.

Ciononostante, fino a non molti anni fa, l'idea della superiorità umana (e della superiorità della "razza bianca") era un comune pensiero. Fra gli altri, ne hanno fatto le spese i Neanderthal, prototipi dei cavernicoli. Quale migliore esempio del manifesto destino dell'uomo bianco si poteva trovare? Il Neanderthal era la perfetta evidenza di una specie inferiore, non proprio l'anello mancante fra l'uomo e la scimmia ma, sicuramente, c'era evidenza di tratti "inferiori": arcata sopraccigliare prominente, fronte sfuggente, eccetera. Cesare Lombroso, l'antropologo dell'800 che aveva sviluppato l'arte di riconoscere i criminali dal loro aspetto fisico, li avrebbe sicuramente classificati come "criminali innati".

Perfino Jared Diamond è caduto in questo tipo di visione quando ha proposto che i Neanderthal siano stati spazzati via dai nostri antenati Cro-Magnon in qualcosa di simile a quello che oggi chiamiamo "pulizia etnica". Ma per fare una guerra di sterminio ci vuole un certo capitale accumulato e le società di cacciatori e raccoglitori semplicemente non ne ne hanno a sufficienza. Da quello che sappiamo dei cacciatori-raccoglitori moderni (per esempio gli indiani americani) sappiamo che il concetto di "guerra" gli è fondamentalmente alieno. Non che siano più pacifici di noi "civili", è solo che non hanno la possibilità di impegnarsi in azioni importanti: al massimo fanno dei raid stagionali per rubarsi donne e cavalli.

E verò, però, che le due specie (o sottospecie) Neanderthal e Cro-Magnon erano in competizione per lo stesso tipo di risorse: erano tutti e due cacciatori. Non era necessario che la competizione prendesse forme violente; bastava che i Cro-Magnon fossero leggermente più efficienti nella caccia per rendere un territorio poco interessante per i loro vicini Neanderthal. Questi ultimi erano costretti a spostarsi un po' più lontano e, piano piano, i Cro-Magnon avanzavano. Oppure, lo stesso meccanismo può essere stato il risultato di una maggiore adattabilità dei Cro-Magnon. Sembra che i Neanderthal fossero carnivori quasi puri e, in tempo difficili, forse sopravvivevano meno bene dei Cro-Magnon che, invece, si potevano adattare a una dieta vegetariana. In ogni caso, non dobbiamo pensare che la graduale sparizione dei Neanderthal sia stata dovuta ad atti violenti da parte dei Cro-Magnon.

L'Europa di quei tempi era uno spazio immenso, prevalentemente ghiacciato, dove Neanderthal e Cro-Magnon si incontravano sicuramente di rado e, probabilmente, si evitavano. Ma, forse, a volte la reciproca curiosità li spingeva a studiarsi da vicino. Non sappiamo cosa si siano detti, e se si sono capiti. Forse si sono scambiati pellicce e punte di freccia. Forse ci sono state fra loro storie d'amore o forse duelli e lotte crudeli. Non lo sapremo mai; l'unica cosa che sappiamo è che i Neanderthal ci appaiono sempre di più simili a noi: dignitosi, intelligenti, adattabili e interessanti.

Spariti i Neanderthal, noi siamo rimasti la sola specie del genere "homo"; tutte le altre, dall' homo abilis all'homo erectus si sono perse nei millenni. E' normale, comunque, che le specie facciano il loro ciclo e spariscano; toccherà anche a noi, prima o poi. Così, che noi siamo sopravvissuti e i Neanderthal scomparsi, potrebbe essere stato più un accidente del caso che una conseguenza della selezione naturale. Per questo, ci possiamo domandare cosa sarebbe successo se fosse successo il contrario. Se fossero stati i Neanderthal a ereditare il pianeta, avrebbero fatto le stesse cose che abbiamo fatto noi? Si sarebbero fatti guerra fra di loro? Avrebbero estratto carbone e petrolio? Avrebbero fatto i danni che stiamo facendo noi, oggi?

Non lo potremo mai sapere, ma sembra certo che i Neanderthal sapevano cantare, e forse questa è una cosa che loro ci hanno insegnato.


domenica, gennaio 18, 2009

Una cultura inadeguata



created by Armando Boccone


Alcuni giorni fa ho visto un programma televisivo su Rai 1 dal titolo”Verdetto finale”. Il format simula un processo con tanto di giudice e avvocati (che mi sembra siano veri) e di giuria. C’è anche la presentatrice, il pubblico, e un personaggio particolare fra il pubblico (che, almeno in questa puntata, è Barbara Alberti; ho visto per la prima volta questo programma per cui non so se sia un ospite fisso). Ovviamente ci sono anche i due contendenti-imputati che, sebbene siano attori, esprimono un fatto reale.
Il tema del processo in questa puntata è il seguente: i genitori di una ragazza di 14 anni hanno posizioni diverse sul modo di vedere il futuro a breve e a lungo termine della figlia.
Il giudice introduce il tema, parla dei diritti dei figli e dell’educazione che i genitori, in comune, devono dare al figlio affinché questo raggiunga le sue migliori condizioni di vita.
La ragazza fa nuoto agonistico e il padre (nonché allenatore) della ragazza vuole che continui in questa attività e che partecipi alle scadenze a breve termine (che mi pare sia la partecipazione a dei campionati regionali).
La madre invece dice che la figlia, in lacrime, si è confidata più volte con lei dicendole di non farcela in quella attività e di stare male. Vuole che la figlia per alcuni mesi sospenda l’attività per dedicarsi allo studio (che verrebbe compromesso dall’attività agonistica) e che faccia la propria vita di ragazza, con le sue amicizie e i primi amori.
Alcune volte intervengono la presentatrice e Barbara Alberti per dare ragione al padre: dicono se poi si dà importanza alle cose che dice la madre l’Italia non avrebbe mai conquistato medaglie d’oro alle olimpiadi.
Il padre (interrogato dall’avvocato che difende le ragioni del padre stesso) dice che quando la ragazza da adulta salirà sul podio e sarà la “number one” allora si scorderà dei fidanzatini e dei problemi che aveva a 14 anni.
Lo stesso padre, intervistato dall’avvocato che difende le posizioni della madre e che gli chiede quante volte la figlia, con quegli allenamenti continui e stressanti, riesca a vedere delle amiche, risponde: 1-2 volte al mese.
Interviene anche Barbara Alberti su questo punto, dando ragione al padre e aggiungendo che se non si facesse così l’Italia affonderebbe nel Mediterraneo (??) e che bisogna smetterla di dare sempre ragione ai ragazzi.
Alla “volata” in favore del padre si aggiunge la presentatrice dicendo che se i ragazzi non facessero sacrifici e stringessero i denti non si otterrebbero risultati.
Dopo le arringhe dei difensori delle due parti si riunisce la giuria per emettere il verdetto finale.
Il verdetto viene letto, con un po’ di suspence, da Barbara Alberti: il verdetto è a maggioranza ed è di 9 giurati a 4 a favore della posizione del padre.
Quale interpretazione dare dei valori veicolati dal numero di questo format andato in onda il 2 gennaio 2009? Da una piccola ricerca fatta sul Web sembra che con questo programma RAI 1 abbia vinto la battaglia per lo share contro Canale 5 sulla stessa fascia oraria.

Diceva Marshall McLuhan che il medium è il messaggio. Voleva dire che il messaggio è plasmato dalle caratteristiche tecniche del medium stesso (alle volte però questo studioso ha estremizzato). Però Marshall McLuhan diceva pure che il medium è il massaggio, nel senso che il medium massaggia, conforta, consola e conferma i valori culturali esistenti. Questo studioso dava questa funzione soprattutto alla televisione.
I valori veicolati dalla puntata del 02 gennaio di questo programma confermano, “massaggiano” dei valori che probabilmente sono abbastanza forti nella cultura italiana e non solo.
E’ anche vero che in televisione ci sono anche altri programmi ma molti di questi veicolano gli stessi valori.

L’attuale situazione è fortemente rivoluzionaria, in tutti i sensi. I problemi, compresenti e in continuo rapporto di feed back, sono l’esaurimento dei combustibili fossili, il rischio che cedano molti e delicati equilibri ecologici, la crisi finanziaria ed economica, ecc.

Pare che Einstein dicesse "Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l'ha generato."

L’attuale cultura, venuta a maturazione circa seimila anni fa in Mesopotamia, si basa sull’individuo, inteso come centro di interessi prima solamente diversi ma poi anche in contrapposizione a quella degli altri individui, sulla gerarchia intesa come orizzonte, il contesto, in cui si situano gli individui, indicandone le diverse posizioni e i connessi diversi oneri e diritti nella distribuzione di beni e servizi e, infine, sulla deriva culturale, intese come quel fenomeno per cui ogni popolazione umana, a contatto con un ambiente ecologico particolare, acquisisce un pacchetto culturale particolare e, in presenza di condizioni di penuria di risorse materiali, in contrapposizione a quello di altri gruppi umani. Il fenomeno della deriva culturale, bisogna aggiungere, ha riguardato anche le varie componenti sociali di una stessa popolazione.
Questa cultura ha le sue motivazioni in diversi fenomeni che sono iniziati col neolitico, e che, compresenti e in continuo rapporto di feed back fra di essi, sono l’adozione dell’agricoltura e dell’allevamento al posto della caccia e raccolta, l’incremento demografico, l’urbanizzazione, la creazione di un surplus alimentare, la specializzazione del lavoro, la scarsità di risorse materiali, i problemi nella gestione del know how, ecc.
Intorno e connessi ai valori di “individuo” e gerarchia” si creò una costellazione di valori: sorsero i valori di “regola” per indicare i valori da seguire, di “criterio-esame” come metodo di entrata nelle caste e nell’ottenimento di qualsiasi funzione, di “comando” come condizione per volgere le situazioni a proprio favore, di “auto-affermazione” nel senso del raggiungimento di una “singolarità” all’interno del corpo sociale, di “indispensabilità” in quanto detentori in esclusiva di know how, di “esclusione” nel caso dei non validi e/o dei non aventi diritto o, in ogni caso, esclusi da certe posizioni, di uso dei beni consentito al alcuni e privato ad altri, di “reato” nel caso di contravvenzione alle regole, di “colpa” inteso come definizione di un comportamento non regolare, e di “pena” come strumento e deterrente necessario per il rispetto delle regole.

I valori della cultura di cui si è parlato sopra hanno portato alla situazione attuale fatta di buone condizioni di vita (istruzione di massa, sviluppo tecnologico, adeguato soddisfacimento dei bisogni alimentari, sanitari, ecc.) per una parte della popolazione mondiale e pessime condizioni di vita per un’altra parte. In ogni caso le buone condizioni di vita di una parte della popolazione mondiale sono state raggiunte al prezzo di guerre, epidemie, genocidi, deportazioni, carestie e quant’altro.

Adesso la realtà è diversa da come era non solo molti millenni fa ma anche rispetto ad alcuni decenni fa. Il pianeta è una realtà finita e un sistema culturale-economico che si basa sulla continua crescita mostra, ora più che mai, la sua inadeguatezza e insostenibilità.

Ma qual è la cultura adeguata a risolvere i problemi che attualmente l’umanità ha di fronte?
Sarebbe il caso di iniziare a dare qualche risposta a questa domanda!

sabato, gennaio 17, 2009

Fossilizzarsi ... o rinnovarsi



Nella lingua parlata, e anche scavando nelle culture di varie popolazioni, il termine "fossilizzarsi" viene riferito a chi dimostra un atteggiamento retrogrado, oppure si fissa su aspetti marginali, oppure ancora insiste a perseguire una stessa via nell'approcciare un problema. Normalmente, il significato associato è negativo e si vuole evidenziare che il modo di vedere/agire è inadeguato al contesto e soprattutto all'obiettivo che si vuole raggiungere.

Viceversa, il concetto di "rinnovarsi" esprime un'elevata positività, tanto da essere utilizzato in svariati ambiti, dalla politica, alla religione (più di una) , alla psicologia dell'autostima. L'idea è quella di "rigenerare" e "ritrovare". Ricostruire un gruppo politico dalla base, rinnovare la propria visione di se stessi e degli altri (perdonando errori, aggressioni, prolissità, sfiducie ...), e tante altre cose simili.

Ora, l'enorme differenza tra i due concetti è praticamente identica a quella che esiste tra fonti energetiche fossili e fonti rinnovabili; non solo, ma anche tra la produzione da "minerale estratto di prima mano" e quella da "materia prima secondaria". Purtroppo, l'inerzia dei sistemi economici unita a una cattiva persuasione mediatica e a una certa pigrizia nella ricerca delle informazioni (congenita nell' homo catodicus) rendono estremamente lungo e tortuoso il cammino di liberazione da questa "cattività fossile".

venerdì, gennaio 16, 2009

Allons enfants

Contrariamente alle mie previsioni, ma favorevolmente ai miei auspici, Air France – Klm ha strappato a Lufthansa il controllo di Alitalia, diventando socio di maggioranza nella nuova compagine sociale e preparandosi ad acquisire gradualmente l’intera società, al massimo dopo il vincolo contrattuale del 2013, oppure, al momento non improbabile di una prossima ricapitalizzazione. Non sto a ripetere valutazioni politiche ed economiche sulla vicenda, che ho già abbondantemente espresso in precedenti interventi. Mi interessa qui approfondire i motivi e le conseguenze dell’ingresso dei francesi in Alitalia.
Per capire i motivi, dobbiamo allargare un po’ lo sguardo e notare quello che sta avvenendo nel sistema generale dei trasporti italiani. Alla fine del 2008 è stato annunciato l’ingresso in NTV, la nuova compagnia ferroviaria che farà concorrenza a Trenitalia sulle linee ad Alta Velocità, dei francesi di Sncf (Societé nationale des chemins de fer). Il progetto e l’assetto societario di Ntv sarà perciò il seguente: Mdp Holding (la società di Montezemolo, Della Valle e Punzo) ha il 38,4%, Intesa San Paolo (con Imi investimenti) ha il 20%, Generali Financial Holdings un altro 15%, Bombassei il 5%, la società dell’Ad. Giuseppe Sciarrone l’1,6%. E poi - per l’appunto - ci sono i francesi di Sncf con un 20%. Inoltre NTV è la prima società che ha scelto l’ultima generazione di treni ad alta velocità della società francese Alstom, presentato il 5 febbraio a La Rochelle, alla presenza del Presidente della Repubblica francese. Si chiama AGV e può raggiungere la velocità di crociera di 360 km/h con un consumo energetico minore del 15% rispetto agli altri treni ad alta velocità. Nella produzione sono coinvolti anche gli stabilimenti Alstom di Bologna e Savigliano.
Anche nel trasporto urbano i francesi, che hanno una grossa esperienza nel settore, sono molto attivi nel mercato italiano dove, ad esempio, la Ratp, la società che gestisce i trasporti pubblici di Parigi, ha acquisito tramite project financing la realizzazione e gestione delle tre nuove linee tranviarie in costruzione a Firenze.
Si comincia quindi a capire perché Berlusconi, che in passato aveva fatto fallire la prima trattativa di Alitalia con Air-France e, condizionato dagli alleati della Lega, aveva espresso pubblicamente la propria preferenza per Lufthansa, abbia fatto buon viso a cattivo gioco, di fatto ratificando l’accordo con Air France. Dietro c’è un’alleanza strategica della grande industria pubblica francese con il mondo industriale italiano che conta e del sistema bancario che Berlusconi si prepara a scalare.
Ma le strategie e i conflitti all’interno del mondo economico italiano mi appassionano poco. Quello che invece mi interessa sono le conseguenze di queste scelte industriali per il paese. E secondo me esse saranno positive.
Innanzitutto, i francesi investono sull’intero paese, a differenza dei tedeschi che sono interessati solo al mercato del Nord Italia e per questo, erano alleati forse inconsapevoli della strategia secessionista della Lega (principale sconfitto nell’affare Alitalia).
Secondariamente, i francesi portano in Italia la propria esperienza e le grandi capacità amministrative nei settori dei servizi pubblici, grazie a una tradizione secolare di buona amministrazione e a una cultura manageriale di eccellenza formatasi in prestigiose scuole di pubblica amministrazione. Noi italiani, storicamente e antropologicamente dotati di fantasia e creatività nel settore dell’iniziativa privata, ma incapaci nella gestione della cosa pubblica, avremo tutto da guadagnare, in termini di efficienza, dalla contaminazione con culture amministrative capaci di far funzionare egregiamente i servizi di interesse collettivo.
Si potrebbe ripetere cioè, in piccolo, quello che avvenne nell’800 in Italia con il breve governo napoleonico, che involontariamente favorì ed accelerò il processo di emancipazione e liberazione nazionale.