lunedì, maggio 02, 2011

Sicurezza dei reattori nucleari



Scritto da Domenico Coiante


La probabilità d’incidente di fusione del nocciolo

Nei primi 13 anni della mia vita lavorativa da fisico, mi sono occupato di emissioni nucleari, realizzando numerosi rivelatori a silicio e germanio destinati alla spettrometria delle radiazioni alfa, beta e gamma emesse nel corso degli esperimenti di fisica nucleare che erano condotti, sia a Frascati presso il Sincrotrone, sia alla Casaccia presso il reattore di ricerca Triga.
Nel 1974, in occasione dell’avvio del Programma Nucleare Italiano dei 20000 MW, detto di Donat Cattin dal nome del ministro dell’industria dell’epoca, fui selezionato per occuparmi di sicurezza nucleare nell’ambito della Direzione Centrale per la Sicurezza dell’allora Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare. Ho trascorso i successivi 5 anni a studiare e ispezionare i sistemi di sicurezza dei reattori italiani con speciale attenzione alle linee di strumentazione elettronica, dai sensori, preamplificatori, amplificatori e logiche di funzionamento, fino agli attuatori.

Oltre ad aver partecipato alla revisione decennale della licenza dei reattori di Latina e del Garigliano e, quindi, alla verifica sul campo delle condizioni della strumentazione dopo 10 anni d’esercizio, ho fatto parte del gruppo di esperti che ha eseguito le verifiche di conformità del progetto del reattore di Caorso, allora in costruzione quasi ultimata, per quanto riguarda le parti rilevanti per la sicurezza.
E’ in questa occasione che mi sono imbattuto per la prima volta nei dati della probabilità dei vari incidenti che possono capitare in un reattore e, in particolare, sul dato relativo all’evento più grave: la fusione del nocciolo.
Era allora attribuita a questo evento la probabilità d’accadimento di uno su centomila all’anno. Cioè, se un reattore potesse funzionare per 100000 anni, andrebbe sicuramente incontro alla fusione del nocciolo, oppure se ci fossero in funzione 100000 reattori, in uno di essi si verificherebbe l’incidente nel corso dell’anno.

Nel 1975 fu pubblicato il famoso Rapporto Rasmussen sulla sicurezza dei reattori nucleari, che era costato tre anni di lavoro ad un gruppo di esperti capeggiato da Norman Rasmussen. Ricordo questo evento per lo scalpore suscitato soprattutto perché innalzò di 5 volte il dato circa la probabilità della fusione del nocciolo portandolo al valore di uno su 20000 all’anno.
Il rapporto fu molto criticato, non tanto per il metodo, quanto per il merito e sorsero come funghi numerosi gruppi di studio che ne revisionarono i calcoli. In particolare furono inclusi nei danni anche i morti per cancro causati in tempo differito dalla dose di radiazioni assorbita dalla popolazione, che Rasmussen non aveva considerato. Il risultato finale della revisione fu un ulteriore aumento della probabilità dell’evento che fu portato al dato finale di uno su 10000 per reattore all’anno.

Successivamente, nel 1979, essendo stato fortemente ridotto il Programma Nucleare Italiano a soli 4 reattori ed essendo stata assegnata al CNEN la nuova competenza dello sviluppo delle fonti rinnovabili, fui incaricato di occuparmi del Progetto Fotovoltaico nell’ambito del Programma sulle Fonti Rinnovabili e lasciai le faccende nucleari.
Da allora non ho avuto più modo di seguire gli argomenti di affidabilità dei reattori fino ad un mese fa con l’evento catastrofico di Fukushima.
Spero che i miei soliti sei lettori mi scuseranno per aver iniziato il tema con alcune note autobiografiche, ma ho ritenuto necessario farlo per accreditarmi presso di loro come uno che ha conosciuto abbastanza da vicino i reattori nucleari.

A rammentarmi oggi la storia passata è stata la mia partecipazione al convegno, indetto dall’Associazione Amici della Terra, tenuto a Roma il 15 aprile scorso, dal titolo: “Dopo il disastro nucleare in Giappone, Energia: Rifare I Conti”, i cui atti possono essere consultati sul sito www.amicidellaterra.it. In tale occasione ho presentato una memoria sulle fonti rinnovabili ed ho potuto così ascoltare uno dei relatori sul nucleare, che, a conclusione del suo interessante intervento sul disastro di Fukushima, ha mostrato il grafico sperimentale della crescita cumulativa del numero di reattori per anno in funzione del tempo.
Il grafico mostrava come l’incidente di Fukushima fosse la conferma sperimentale del dato di probabilità dell’evento: cioè proprio uno su 10000 per reattore all’anno.
La considerazione immediata, richiamata da questo fatto, è che la situazione della sicurezza dei numerosi reattori della II generazione, (che sono ancora in funzione e per i quali è stato concesso l’allungamento della vita operativa da 30 a 40 anni), non appare affatto migliorata negli ultimi 35 anni: uno su 10000 era la probabilità di fusione del nocciolo nel 1975 quando mi occupavo di questo argomento e uno su 10000 è ora, nonostante le dichiarazioni di continui accorgimenti migliorativi apportati durante la loro gestione.

Tanti anni fa, nella mia ingenua razionalità cartesiana, mi ero posto il problema di come si potesse calcolare con precisione questo dato per un reattore. Mi dicevo: “Se ciò è possibile, possiamo qualificare ciascun tipo di reattore assegnandogli il suo dato di affidabilità e, quindi, effettuare il confronto tra le diverse tecnologie e scegliere razionalmente quella più sicura”.
Il fatto che ciò non fosse ancora stato fatto a distanza di 15 anni dalla commercializzazione dei primi reattori e che si continuasse a discutere circa la migliore sicurezza di un tipo di reattore rispetto ad un altro, senza mai portare a sostegno il dato numerico dell’affidabilità, mi lasciava profondamente perplesso. Non riuscivo a spiegarmi il perché.

A darmi l’occasione per affrontare questo argomento fu la partecipazione ad un corso di specializzazione sull’affidabilità dei sistemi complessi tenuto all’Euratom di Ispra dal professor Alessandro Volta (discendente diretto dal suo illustre avo), ritenuto un’autorità mondiale nel campo dell’affidabilità dei sistemi. Ho potuto così valutare il lavoro di Rasmussen, comprendendone le limitazioni.
Il metodo, che era stato usato era quello classico, messo a punto nell’avionica. Esso è concettualmente semplice. Il sistema complesso è scomposto in sottosistemi più semplici e questi a loro volta suddivisi nei diversi componenti, ciascuno dei quali contiene un certo numero di parti elementari, di cui si conosce l’affidabilità con un gran margine di confidenza. A questo punto si costruiscono i due cosiddetti “alberi”, quello degli eventi e quello dei guasti. Si seguono le diverse linee d’azione funzionale che, partendo dagli elementi più semplici del sistema, ne realizzano la missione. Si vede poi che cosa accade in caso di guasto di uno o più componenti e come questo guasto si ripercuote sulla catena funzionale dell’intero sistema allo scopo di verificare la possibilità dell’evento peggiore: il blocco del sistema stesso.

Nel caso di una bassa complessità e di assenza di interazione tra le diverse linee d’azione, il calcolo della probabilità totale di guasto si esegue percorrendo il percorso logico che porta all’evento finale. Le probabilità degli eventi intermedi si compongono in somme e prodotti fino a definire il valore finale. Purtroppo, il reattore nucleare è un sistema molto complesso e l’albero dei guasti costruito per l’evento di fusione del nocciolo risulta particolarmente complicato a causa delle numerose biforcazioni ed intersezioni dei vari percorsi logici che, partendo dalle numerose parti elementari, possono portare al guasto totale. Per arrivare ad un risultato, nella simulazione del calcolo anche sui grandi computers, è necessario ricorrere a ipotesi semplificative, cosa che, unita alla incertezza con cui si conosce l’affidabilità dei vari stadi intermedi, porta ad avere il dato finale con un margine di incertezza molto alto.
Proprio questa fu la principale critica, non al metodo, ma al risultato finale di Rasmussen. Anzi, si riconobbe che non era possibile nemmeno conoscere con precisione quale fosse il margine d’incertezza di quel risultato.
Ma allora come si fa a stabilire che la probabilità della fusione del nocciolo è pari a uno su 10000?
Si fa ricorso all’esperienza, applicando il metodo statistico dei grandi numeri. Si segue il seguente ragionamento: “Siamo nel 2011 ed oggi ci sono in funzione nel mondo 437 reattori, di ciascuno dei quali si conosce esattamente l’età (Fonte: IAEA-PRIS, MSC, 2011). Moltiplichiamo il numero dei reattori per la corrispondente età e sommiamo i risultati: otteniamo la quantità cumulata di reattori per anno di funzionamento. Nella fattispecie abbiamo 11489 reattori anno. Sempre dalla fonte citata possiamo ottenere il numero dei reattori che, ad oggi, sono stati spenti per fine esercizio e per ciascuno di essi conosciamo gli anni di operatività. Ripetendo l’operazione precedente ricaviamo il numero cumulativo dei reattori per anno che hanno operato e che ora sono spenti. Sono 2880 reattori anno.

In definitiva l’esperienza ci mostra come, fino ad oggi, 14369 reattori anno abbiano assolto la loro missione di produrre energia elettrica.
Dalle statistiche sugli incidenti nei reattori nucleari per la produzione elettrica, apprendiamo che, ad oggi, si sono avuti tre eventi certi di fusione del nocciolo: Three Mile Island 1979, Chernobyl 1986, Fukushima 2011 (anche se i reattori fusi sono almeno due, li consideriamo un solo caso perché la causa di guasto è stata comune). Pertanto, la probabilità di questo evento è pari a 3 su 14369, cioè 2 su 10000 per reattore all’anno”.
Ed ecco fatto: il dato sperimentale ci porta ad una probabilità doppia rispetto a 1 su 10000, ma siamo sicuramente dentro il margine d’incertezza del dato calcolato con i modelli di simulazione.
In definitiva, possiamo considerare assodato che la probabilità di fusione del nocciolo nei reattori nucleari è pari ad 1-2 casi su 10000 per reattore all’anno.

Il significato del numero

A far comprendere alla casalinga di Voghera che cosa significhi questo arido numero, ci pensano i cultori della scienza statistica, che subito si affannano ad elaborare chiarimenti esemplificativi per trasformare il dato in forma più accessibile. Si comincia con il considerare che, una volta avvenuta la fusione del nocciolo, la probabilità di rilascio d’emissioni all’esterno del contenimento primario è stimata in uno su cento. Allora, la probabilità che una persona esterna, che si trovi a passare vicino alla centrale, possa incontrare le emissioni radioattive è pari a 1 su 1 000 000 per reattore all’anno.

Proseguendo in modo grossolano lungo questo percorso, diciamo che la probabilità che la dose delle radiazioni assorbite possa produrre la morte del passante è stimata in meno di 1 su 10, per cui la probabilità totale che un incidente di fusione del nocciolo possa causare la morte di un passante è stimata in un valore più basso di 1 su 10 milioni per reattore all’anno.

A questo punto si compie un passaggio logico, considerato come corretto e consequenziale, mentre non lo è affatto: si effettua il confronto del dato ottenuto con quello della probabilità di morte per l’accadimento dei più importanti sinistri con i quali siamo abituati a convivere. Questa operazione comparativa contiene l’assunto implicito, non dichiarato, che i numeri siano omogenei. Come tutti sanno fin dalle elementari, le patate si confrontano con le patate e le mele con le mele. Come vedremo meglio in seguito, in questo caso il dato di probabilità dell’evento nucleare non è omogeneo con quello degli incidenti convenzionali e quindi non ha senso effettuare il confronto.
Fatta questa puntualizzazione, vediamo come procede il discorso. In genere è riprodotta la seguente tabella, i cui dati sono stati stimati per gli abitanti degli USA e che, pertanto, vanno considerati soprattutto come indicativi dell’ordine di grandezza (Fonte: Mazzini M., 2001, Corso di Sicurezza ed Analisi di Rischio, Università di Pisa: www.dimnp.unipi.it/m.carcassi/materialedidattico/RISCHIO_VERS_2.pdf

Rischio individuale di morte per anno
Rischio di morte persone adulte Probabilità per anno
Mortalità generale 6 * 10-3
Cancro 2 * 10-3
Incidenti totali 5 * 10-4
Incidenti d’auto 2 * 10-4
Incidenti d’aereo 5 * 10-5
Folgorazione 6 * 10-6
Uragani, fulmini, tornados, alluvioni, ecc 1 * 10-6
Incidenti nucleari 5 * 10-7

Il gioco è fatto: morire per incidente nucleare è cento volte meno probabile che morire in un incidente aereo e 400 volte inferiore al rischio di crepare per un banale incidente d’auto. Il rischio di morte per incidenti totali, (sinistri automobilistici, ferroviari, cadute, scoppi di gas, incendi, ecc.), è 1000 volte più alto del rischio nucleare.
La conclusione è che, siccome accettiamo tranquillamente tutti i giorni il grande rischio di morire in un incidente d’auto, dobbiamo molto più tranquillamente accettare il debolissimo rischio, praticamente inesistente, di passare a miglior vita per un incidente nucleare. Tra la miriade di rischi di morte che affrontiamo tutti i giorni della nostra vita, quello nucleare è assolutamente il meno preoccupante perché è di gran lunga il più piccolo.
Il significato quantitativo dei dati dimostra come sia del tutto irrazionale considerare il rischio nucleare come il più pericoloso.

Il rischio percepito

Queste considerazioni, tranquillizzanti, sono state fatte più volte nel corso della storia del nucleare, sia in occasione dell’incidente di Three Mile Island, sia di quello di Chernobyl. Le stesse argomentazioni sono recentemente riapparse in relazione alla presentazione del nuovo programma nucleare italiano e sono state oggetto di discussione nella campagna per la raccolta delle firme del referendum abrogativo previsto per giugno prossimo. La nuova, drammatica situazione conseguente all’incidente di Fukushima dell’11 marzo ha improvvisamente reso anacronistiche e stonate le argomentazioni filonucleari e, per qualche tempo, il dibattito si è sopito.
Dall’11 marzo sono passati quasi due mesi ed ancora sono in corso in loco le attività per bloccare il rilascio dei prodotti radioattivi, che continuano ad uscire dai reattori danneggiati. Siamo quindi ancora in piena emergenza e, tuttavia, qualche epigono del nucleare ha già ricominciato a proporre testardamente le solite considerazioni rassicuranti basate sui dati del bassissimo rischio numerico.

Ma allora, se è vero che il rischio è praticamente inesistente come ci dicono i numeri, perché il nucleare genera questa irrazionale paura?
Ci deve essere qualcosa che i numeri non dicono, qualcosa che gli analisti non sono riusciti a quantificare nei numeri, o che forse non è esprimibile numericamente. Deve essere qualcosa che attiene alla sfera emotiva ed intuitiva degli individui, a quelle preziose qualità istintive, non sempre razionalizzabili, che ci hanno guidato attraverso i numerosi pericoli naturali che abbiamo dovuto affrontare nel nostro percorso evolutivo. L’uomo ha imparato a convivere con il rischio di morte che gli proviene dalle numerose attività perché ne percepisce e ne comprende la natura e le conseguenze. Ad esempio, chi vive in prossimità di un deposito di combustibile sa che può capitare un incendio e perfino un’esplosione, le cui conseguenze possono coinvolgerlo. Sa che ci possono essere danni immediati alle cose ed alle persone, anche con numerosi decessi. L’incidente può durare qualche giorno e può impegnare grandi risorse per contrastarlo, ma dopo un periodo relativamente breve tutto torna sotto controllo. Si fa l’inventario dei danni e dei feriti, si esprime la pietas solidale per i morti e si inizia a ricostruire, cancellando i segni del dramma accaduto. A distanza di qualche anno, solo chi ha vissuto in prima persona l’evento ne ricorda i dettagli e ne riconosce qualche segno residuo nel territorio. Per gli altri tutto è come prima.
Per il nucleare non è così. Pensiamo, ad esempio, all’aprile del 1986, a Chernobyl. I morti immediati sono stati sepolti ed ormai sono trascorsi 25 anni. Ma i segni della catastrofe sono ancora ben presenti, sia nel perimetro della centrale e nelle ampie zone limitrofe divenute inaccessibili, sia nelle migliaia di persone oggi adulte che lottano con i danni fisici provocati dalla dose di radiazioni allora assorbita.

A volerli cercare, i segni dell’incidente sono ancora presenti anche in Italia, soprattutto nelle zone del Nord Est, investite dal margine della nuvola radioattiva. Chi ha buona memoria ricorderà che fu rilevata la presenza di iodio e cesio perfino nelle verdure coltivate nella campagna romana (tutta la produzione ’86 dei carciofi di Ladispoli fu buttata per protesta in mezzo all’Aurelia, causando difficoltà al traffico per giorni). Proviamo allora a chiederci che fine hanno fatto questi radionuclidi cosparsi nei campi ed assorbiti nel terreno. Lo iodio, che ha un tempo di dimezzamento di circa una settimana, è ormai praticamente scomparso e non desta preoccupazione. Il cesio invece ha un tempo di dimezzamento di 30 anni ed essendone trascorsi solo 25, anche se in misura ridotta, è ancora ben presente nel terreno e quindi nel ciclo vegetale ed animale.

La conclusione è che l’incidente nucleare di Chernobyl è ancora attuale e presente anche da noi e non può essere messo alle spalle come un qualsiasi altro disastro avvenuto lontano. Allo stesso modo, il disastro di Fukushima continuerà a far sentire le sue conseguenze nell’ambiente complessivo ancora per decine di anni, indipendentemente dalla volontà di sottovalutarlo o ignorarlo.

Sta proprio qui la differenza fondamentale tra gli incidenti convenzionali e quelli nucleari. Sta nella differente natura del rischio, nella sua qualità specifica di estendersi sia nella dimensione spaziale, sia in quella temporale, aspetti che nessuna valutazione probabilistica è in grado di quantificare, ma che le nostre ancestrali facoltà intuitive sanno perfettamente percepire ed associare al “rassicurante” valore numerico.
Uno può pure continuare a dire che la probabilità dell’incidente di fusione del nocciolo è piccolissima: una su diecimila. Però l’evento è già accaduto almeno tre volte e, quando accade, la natura dei danni non è affatto convenzionale, perché le conseguenze sull’ambiente e sulla salute si trascinano per generazioni. E’ questo che determina la percezione del rischio in modo amplificato rispetto alla semplice valutazione probabilistica ed è questo aspetto intuitivo, non secondario, che dovrebbe essere preso seriamente in considerazione da chi propone la tecnologia nucleare come soluzione dei problemi energetici.

14 commenti:

mirco ha detto...

E'un piacere leggere scritti di questo tenore: scientificamente coerenti, basati sull'esperienza e articolati razionalmente.
Si parla dell'importanza dell'intuizione senza soccombere all'emotività.
Mi chiedo a quali sotterfugi mentali si debba ricorrere per poterne confutare le conclusioni.
Mirco

Ubaldo ha detto...

ora siamo almeno 7....lettori...
Articolo molto chiaro, e capibile anche dalla casalinga di Voghera e dal di lei marito pallonaro, ove volessero leggerlo (ovviamente).
Lo faremo girare....
grazie.
ubaldo

giorgio nebbia ha detto...

Proprio così: arrotondando per la casalinga di Voghera, tre incidenti gravi in circa 14.000 anni-reattore fanno un incidente ogni 4.500 anni-reattore, cioè una volta ogni dieci anni, per i circa 450 reattori in funzione. (Liberazione, 15 marzo 2011).
Giorgio Nebbia

Sennuccio ha detto...

Ringrazio vivamente l'amico Coiante per il suo illuminato intervento e condivido in particolare le conclusioni finali sulla durata delle conseguenze.
Mi permetto tuttavia di chiosare che altre ben più gravi conseguenze sono le modifiche genetiche che introducono nel DNA delle persone fattori che si tramanderanno alle generazioni future, anche dopo centinaia o migliaia di anni dall'evento.
Inoltre non si può tacere un ulteriore fattore di rischio determinato da hacker informatici che possono introdurre virus specializzati per alterare il software gestionale delle centrali nucleari. Non è fantascenza e l'anno scorso questo sistema è stato utilizzato appositamente per sabotare il programma nucleare iraniano, sabotando in tal modo il software di gestione delle centrifughe per l'uranio arricchito.
Dunque si fanno i calcolo di probabilità senza considerare eventuali intrusioni criminali, e ciò non è realistico.
Spero di essere stato utile ad aprire maggiormente gli occhi.
Un saluto
Sennuccio

Fra ha detto...

..Alla fine del bel post si mette in dubbio la possibilità che la la tecnologia nucleare a fissione possa risolvere il problema energetico...Scusate, ma se oggi fossero operative migliaia di centrali a fusione, secono voi il problema energetico sarebbe risolto, senza avere batterie da 1 a 2 ordini di grandezza più efficienti delle attuali ?...E nel frattempo io investirei in ricerca e sperimentazione nucleare da 1/4 ad 1/10 delle risorse destinate alle rinnovabili...( Hubbert non a caso vedeva le rinnovabili come direttamente finanziate dai fossili per addolcire la lunga planata in attesa della fusione nucleare ..)...Ma se non riusciamo a destinare almeno il 5% di Pil, ed altrettanto di spesa pubblica diretta in rinnovabili, progressivamente in percentuali crescenti, vista la probabile riduzione assoluta delle risorse diponibili, per una ventina di anni, di cosa stiamo a parlare ?

Mauro ha detto...

Leggo Domenico Coiante e penso all'attuale respnsabile della sicurezza nucleare...
Come siamo caduti in basso!

Unknown ha detto...

bravo Mimmo! per la gioia dei tuoi fans, ti condivido su fb.

Domenico Coiante ha detto...

troppo buoni. grazie a tutti per i commenti, che ho letto con molto interesse.

amlet ha detto...

veramente bellissimo post complimenti davvero...non e' che per caso ti scappa di fare un post sui reattori veloci?ciao compliemnti ancora

amlet ha detto...

veramente bellissimo post complimenti davvero...non e' che per caso ti scappa di fare un post sui reattori veloci superphoenix?ciao compliemnti ancora

Anonimo ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Joe Galanti ha detto...

Grazie per il testo molto chiaro, che girerò agli amici. Vorrei aggiungere una considerazione: negli incidenti convenzionali di tutti i tipi è possibile operare (innovando tecnologie e sistemi) sia per la riduzione del rischio (ad es. maggiore affidabilità, stabilità, robustezza, ecc.) che per la riduzione del danno (protezioni attive e passive, ecc.). In questi casi è possibile ridurre la mortalità, riconducendola a danni fisici. Di fronte all'incidente nucleare abbiamo solo la possibilità della riduzione del rischio, non certo quella della riduzione del danno. Gli effetti delle emissioni radioattive sulla popolazione e sul territorio non sono riducibili....

thebest_i_one ha detto...

io penso che il rischio più grave connesso al nucleare non sia tanto l'incidente catastrofico, che volendo può essere prevenuto, ma il rischio più grave è rappresentato dalle scorie radioattive, che non si sa come trattare o meglio non si vuole sapere come trattare. Noi viviamo in un territorio dominato dalla mafia e non ci vuole niente a smaltire queste scorie in maniera illegale. Io vivo in provincia di Napoli e sotto il terreno del mio paese ci sono tonnellate di rifiuti tossici e nocivi per la salute. Il mio territorio è la zona con più alta incidenza di tumori d'Europa. Immaginate cosa può succedere con il nucleare in Italia. Anche in questo caso i morti per le scorie non sarebbero quantificabili, ma sarebbero sicuramente in numero superiore rispetto ad i morti per una catastrofe nucleare!

Anonimo ha detto...

Ma 2 incidenti ogni 10.000 reattori all'anno, sono 100 incidenti ogni 10.000 reattori in 50 anni, cioè 1 ogni 100 reattori in 50 anni.
Se in Italia in 50 anni dovessimo avere (dico a caso) 25 reattori, mi sembra che la statistica dica perciò che avremmo il 25% di probabilità che si verifichi un incidente... non male.
Magia dei numeri e di come si utilizzano.