Luca Mercalli, Società meteorologica italiana – www.nimbus.it
L’Italia spende e sperpera dappertutto distruggendo il bello e costruendo il brutto. Leonardo Borgese, 1951
Il primo sentimento è quello di non scrivere. Tacere, muti nella propria rabbia e frustrazione. Semplicemente perché quello che vorresti dire è già stato scritto, anzi gridato alla disperazione già trenta, quaranta, cinquant’anni fa. Inutilmente. E dunque, perché insistere se a nulla è servito, se oggi si vive immersi in quello scenario che tristemente era già stato predetto? L’amaro pensiero nasce dalla lettura degli scritti di Leonardo Borgese raccolti in «L’Italia rovinata dagli Italiani» (Rizzoli, 2005). Cosa resta ancora da dire quando leggi frasi come queste?
«Un articolo della Costituzione afferma, salvo errore, che la Repubblica difende il paesaggio. Bugia. La Repubblica non difende nulla, e anzi lascia offendere vergognosamente il paesaggio» (1950), oppure «…alcune brave persone si riuniscono, piangono, strillano, votano e spediscono lettere […] che ci parlano sempre di distruzioni, di imbruttimenti e impoverimenti, di ignobili speculazioni, di prepotenze, di vergognosi compromessi. […] Però, se la miglior parte del popolo – dagli intellettuali fino agli operai – capisce, si affligge e protesta, purtroppo una potente minoranza di affaristi e di guadagnatori a ogni conto, valendosi della debolezza e della pigrizia di funzionari comunali o statali, riesce quasi di regola a vincere la battaglia del brutto e della progressiva miseria.» (1950). E ancora: «Falsi, dappertutto in Italia, non soltanto quegli edifici che stonano fra gli altri – come un incisivo d’oro in una bocca a denti naturali, come una toppa rossa in un vestito blu – ma falsi, falsissimi e falsanti sia i regolamenti edilizi sia i piani regolatori, dappertutto. Regolamenti e piani che sono la causa principale, o meglio gli strumenti più adatti, per la furiosa, barbarica e futuristica devastazione a cui assistiamo lacrimando, strillando, e firmando.» (1952).
Cinquant’anni dopo raccogliamo i frutti bacati di questa domanda che Borgese si poneva nel 1958: «Quali false modernità, quali miserabili e prepotenti vecchiumi di alluminio, cromo, vetro, eternit, quali stupide e odiose tinte futuristiche e astrattistiche, quali giallacci e blu e rossi e verdi stridenti, quali buchi e tubi, quali marmi da macellaio o da gabinetto dovremmo invece seguitare a vedere dappertutto domani?»
Quindi, a far violenza al nostro paesaggio, c’è stato dolo, ignoranza e perseveranza. Tutto lì?
E’ una spiegazione sufficiente? L’estensività del danno procurato, capillare e totalizzante su pressoché tutta Italia, sembra render conto di un processo storicamente inevitabile, frutto di un sistema «autorganizzantesi», ovvero, si potrebbe dire, generatosi perché quello era il percorso più facile, più probabile, al quale l’opposizione di pochi animi sensibili suona quasi come vano tentativo di impedire all’acqua di scorrere verso il basso. Eppure se guardiamo al paesaggio che l’uomo ha plasmato nel passato, troviamo un altro processo “autorganizzantesi”, però in senso opposto rispetto ala modernità. E’ un paesaggio antico fatto di armonia dei materiali e delle proporzioni, nel quale – dice ancora Borgese - «qualunque cosa veniva subito bene e bella, chiunque la facesse, e subito si intonava felicemente». Il territorio costruito durante i millenni ci appare dunque come «un’opera d’arte: forse la più alta, la più corale che l’umanità abbia espresso» (Magnaghi, Il progetto locale. Bollati Boringhieri, 2000).
Perché dunque solo negli ultimi cinquant’anni si opera una cesura così netta con il filo rosso della storia? Credo si possa intravedere la causa dell’improvvisa involuzione estetica e funzionale nella disponibilità in eccesso di energia fossile: tanta e a basso prezzo. L’età del petrolio ha reso facili, o meglio banali e riproducibili innumerevoli volte, processi come il distruggere e il costruire, che nella precedente storia dell’uomo richiedevano fatica e quindi saggia ottimizzazione delle risorse e dei gesti. Ogni pietra, prima dell’energia meccanica di fonte fossile, estratta dalla cava, trasportata in cantiere e elevata sull’edificio, aveva un senso: i movimenti dovevano essere misurati, frutto di necessità, intelligenza, passione. La disponibilità di materiali non omogenei e dalle caratteristiche strutturali soggette a precisi limiti, il flusso energetico a bassa intensità dei muscoli umani e animali, guidavano in un certo qual modo la progettazione, imponendo vincoli termodinamici entro i quali la creatività si muoveva con la giusta misura, facendo emergere un ordine diffuso: pietra, legno, malta, mattoni, elementi naturali solo parzialmente trasformati e assemblati, una sorta di continuum con il substrato pedolitologico. La fatica fisica consigliava prudenza, “costruisci bene e che duri”. Accarezzando ora una pietra millenaria, si può dire che essa ci parla, porta il segno dell’uomo e del suo ingegno, i colpi di scalpello, la mano che l’ha posizionata, insomma, trasuda di storia. Poi arrivano l’acciaio, il vetro a specchio, la piastrella per esterni, il calcestruzzo grigio e monotono. Sono materiali in un certo senso nuovi, figli dell’era industriale, che staccano con il locale substrato terrestre, anche perché spesso provengono da lontano grazie a trasporti facilitati. Dico in un certo senso, perché per esempio la piastrella in esterno c’era già, mi vengono in mente i tegolini in smalti policromi sui tetti dell’ Hôtel-Dieu di Beaune, in Borgogna, ma – forse perché fatti a mano, con le loro irregolarità e le loro soffuse differenze – hanno un effetto diverso dalla piastrella prodotta in serie, rigorosamente identica nella forma e nel colore. Che va benissimo nel chiuso di una toilette, ma forse non si amalgama con la variabile diversità del ramo dell’albero o delle nubi in cielo. E qui oltre alla natura e alla provenienza del materiale entra in gioco un altro concetto, lo chiamerei quello della “biodiversità dei materiali”, un po’ mutuandolo dalle scienze della vita, un po’ perché in ogni pezzo fatto a mano c’è un afflato di vita. La diversità, è uno dei segreti ingredienti della bellezza? Forse sì, se oggi si sceglie di creare un ciclo automatico di verniciatura falsamente casuale per conferire ai coppi che escono tutti uguali dalla fornace l’ombra del tempo: spruzzi di colore chiaro e scuro che si alternano nel tentativo di riprodurre il lichene, la muffetta, la polvere che solo l’irriproducibile combinazione di clima e materiale disomogeneo sapevano creare. L’effetto è stucchevole, l’inganno non dura, il senso di falso emerge e la contraddizione pure: si distrugge il processo che creava autonomamente la diversità in nome della standardizzazione e del basso prezzo, ma poi si sente nostalgia e si vuole ugualmente l’effetto estetico (finto) che ne traeva origine. Di nuovo, qual è il fattore scatenante se non l’energia abbondante che consente di sostenere la linea di produzione a ciclo continuo? Nel calcestruzzo non c’è varietà, non c’è creatività, non c’è attenzione, non c’è misura. Posso farne quanto ne voglio e accumularne da un centimetro a un chilometro senza soluzione di continuità. Toccando il calcestruzzo si percepisce solo il rumore della betoniera, un po’ di odore di gasolio e il gesto di un operatore che aziona una leva e scarica il getto di cemento. Il cemento non ha nessuna storia da raccontare. L’eccesso di energia non produce nuova informazione, anzi la riduce, la banalizza. Tappa finale di questa involuzione è il capannone industriale: uno scatolone grigio privo di rapporti con il luogo e la sua cultura, frutto di un assemblaggio standardizzato di elementi ipersemplificati e ultraripetibili. La fase terminale dell’overdose energetica.
Claudio Saragosa ha ben interpretato questa sensazione in «L’insediamento umano» (Donzelli, 2005): «L’informazione che nei sistemi urbani prima dell’avvento dei combustibili fossili era prodotta principalmente dallo studio dell’utilizzazione delle risorse naturali, nella trasformazione di tali risorse, nel processo di territorializzazione locale (e che quindi è informazione particolare, differente da luogo a luogo: culture, lingue, modalità di costruzione, adeguamento alla coltivazione di luoghi ecc.), negli insediamenti a combustibili fossili proviene da un ambiente di entrata ampio quanto il mondo, per mezzo dei lavorati importati, dei mezzi di produzione progettati e realizzati altrove, dei mass media confezionati nei luoghi alti della costruzione culturale, cioè nelle capitali nazionali e mondiali. Questo flusso incessante di informazione inibisce la capacità creativa locale e omologa il territorio alle modalità di trasformazione mondiale: l’ecosistema locale non ha più una propria esperienza di relazione con l’ambiente locale; applica, quando vi sono le opportunità, modalità di trasformazione inventate altrove e, quando le opportunità mancano, abbandona i sistemi territoriali, degradandoli. Il risultato di questo flusso di informazione totalmente estraneo, senza cioè un’elaborazione critica locale, è l’omologazione del territorio agli altri territori del mondo: la perdita totale dell’identità locale.»
E alla perdita di bellezza e armonia del colpo d’occhio, si aggiunge ora una estrema fragilità: il sistema urbano, concentrato o disperso che sia, che ha tagliato tutti gli anelli che lo vincolavano al territorio, trasformando il suolo in un mero supporto per le fondazioni, è gravemente esposto al collasso non appena il cordone ombelicale dell’energia fossile a buon mercato si interromperà. Uno scenario atteso a brevissimo termine. Il poco tempo che resta potrebbe essere impiegato per recuperare il contatto con i flussi di energia e di materia tipici del luogo e ricostruire l’«ecosistema territoriale» auspicato da Saragosa, ma non tanto per impedire un naufragio ormai inevitabile, quanto per inventarsi scialuppe di salvataggio decenti e per mettere al sicuro antichi e nuovi saperi utili nel mondo che verrà, a bassa intensità energetica.
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