L’agricoltura intensiva ed il picco del petrolio.
Di Giovanni Pancani
altamareagio@yahoo.it
Uno dei più gravi, ed apparentemente irrisolti, problemi per chi si trova di fronte alle questioni relative al picco del petrolio è sicuramente quello del mantenimento di una produzione agricola che sia sufficientemente estesa e produttiva da consentire il sostentamento del maggior numero possibile di persone.
Fino ad oggi questo è avvenuto essenzialmente grazie ad un uso massiccio di fertilizzanti, diserbanti ed antiparassitari, che sono in più o meno diretta dipendenza da processi industriali che vedono come elementi primi il metano ed il petrolio, mentre la cosiddetta agricoltura biologica è apparentemente ancora incapace di creare un volume di produzione paragonabile a quello dell’industria tradizionale.
Il problema è stato posto anche dall’UE, sebbene in termini diversi: il rapporto Millennium Ecosystem Assestment 2005” ha infatti denunciato il fatto che l’agricoltura intensiva rappresenta “la più grave minaccia per la biodiversità e l’ecosistema rispetto a qualunque altra attività umana”.
Attualmente l’80% dei suoli coltivati è occupata da cereali, legumi, e semi oleosi: questi danno naturalmente anche come sottoprodotto un’ingente quantità di mangime per animali d’allevamento. Di questo 80% di suoli coltivati, la metà è impiegato nella coltivazione di soli tre cereali: frumento (17,8%), riso (12,5%), e mais (12,2%). Seguono in ordine decrescente di importanza soia, orzo, sorgo, cotone, fagioli, miglio e colza.
La “rivoluzione verde”, combinata ad un uso sempre più intenso di fertilizzanti, ha creato colture cerealicole estremamente produttive, arrivando a superare il raddoppio di produzione rispetto a colture biologiche. La coltivazione di piante annuali richiede però un alto dispendio energetico: devono essere riseminate dopo ogni trebbiatura e necessitano di cure costanti: inoltre la scarsa profondità delle radici e l’uso di diserbanti creano erosione del suolo, impoverimento e inquinamento delle acque.
E’ però dagli anni ’70 che esiste il tentativo di rendere l’agricoltura assai meno dipendente dalle fonti fossili: Wes Jackson, un genetista vegetale, cominciò a ipotizzare allora la possibilità di incrociare le principali colture annuali con i parenti perenni più prossimi. Questo processo, possibile attraverso le biotecnologie vegetali, dovrebbe permettere di selezionare i tratti delle specie selvatiche ritenuti più interessanti e adattarli alle coltivazioni di cereali su larga scala: questo permetterebbe di avere piante più resistenti alle malattie, minore necessità di macchinari agricoli e di fertilizzanti, quindi un minore dispendio energetico. Anche più importante è il fatto che le piante perenni sembrano essere molto più adatte allo sfruttamento di terreni marginali, che si impoverirebbero in poco tempo con la coltivazione intensiva.
Attualmente ci sono vari progetti che cercano di rendere il potenziale genetico di molte coltivazioni cerealicole comuni il più vicino possibile a certe caratteristiche delle piante perenni; lo stesso Wes Jackson ha fondato il Land Institute, un’associazione senza fine di lucro che si propone di promuovere un’agricoltura sostenibile. Ci sono essenzialmente due tecniche, potenzialmente complementari, per ottenere lo sviluppo delle colture perenni: la domesticazione diretta delle piante selvatiche e l’ibridazione di piante annuali comuni con i loro parenti selvatici.
La domesticazione è il metodo più diretto e consiste nella selezione degli individui sulla base di determinate caratteristiche quali semi di grande formato, resa abbondante, facile separabilità del seme dalla pianta ecc. Si tratta di accentuare o meno dei caratteri grazie ad incroci mirati, ripercorrendo quindi il percorso già compiuto da moltissimi popoli nello sfruttamento delle piante, rendendo il più breve possibile tale percorso e stabili i risultati.
I progetti attualmente in corso coinvolgono il girasole di Maximilian (Helianthus maximiliani), il Desmanthus illinoensis, e l’erba della pampa (Thinopyrum Intermedium), un parente perenne del frumento; quest’ultimo progetto sembra essere quello in fase più avanzata. L’ibridazione consiste invece nel mescolare le caratteristiche di due specie diverse di piante, una perenne ed una già domesticata, attraverso un accoppiamento forzato: naturalmente le piante domesticate hanno già raggiunto risultati soddisfacenti, ma l’incrocio può produrre nuove piante con caratteristiche particolarmente soddisfacenti, ad esempio piante aventi la sola nuova particolarità di essere perenni. L’ibridazione può essere di due tipi diversi: tra specie (ibridazione interspecifica) e tra generi (ibridazione intergenerica).
Il Land Institute attualmente lavora sia alla domesticazione diretta che all’ibridazione e sono allo studio circa 1500 ibridi con migliaia di derivati; l’intero processo è molto complesso, sia per la quantità di incroci da compiere che per i potenziali problemi di infertilità parziale o totale dovuta alle incompatibilità genetiche delle piante madri. Questi problemi come altri (ad esempio il diverso numero di cromosomi presenti nel DNA delle piante madri blocca la meiosi e quindi lo sviluppo di piante) vengono superati con l’uso di varie tecniche come il backcrossing e l’uso di sostanze come la colchicina. Le varie tecniche utilizzate per produrre piante perenni non sono però tali da compromettere l’uso dei cereali nell’agricoltura biologica: non si tratta infatti di piante geneticamente modificate, ma di piante che hanno subito un processo accelerato di sviluppo e selezione genetica.
La perennialità dei cereali è però un risultato complesso e per ora non è stato individuato nessun tratto specifico per il miglioramento di piante perenni: è stato però individuato dalla Washington State University un cromosoma, il 4E, in Th. Elongatum, che è necessario alla ricrescita della pianta dopo un ciclo di riproduzione sessuata. La complessità stessa del tipo di operazione necessaria alla creazione di ibridi perenni esclude per il momento l’utilità di modifiche transgeniche, ovvero l’inserimento di DNA estraneo nel patrimonio genetico della pianta; nel futuro saranno forse utili inserimenti mirati di singoli tratti, ad esempio relativi alla codifica di proteine come il glutine, qualora la miglior versione domesticata disponibile di erba della pampa si dimostrasse incapace di produrlo.
La strada per la creazione di cereali perenni è ancora lunga: i ricercatori del Land Institute calcolano un tempo variabile tra i 25 ed i 50 anni per un inserimento produttivo su larga scala dei cereali perenni. Questo orizzonte di tempo è evidentemente molto più ampio di quello prospettatoci da un’emergenza immediata come quella del picco del petrolio; nondimeno, lo sviluppo di colture perenni per l’alimentazione umana può essere la via migliore per un’agricoltura realmente sostenibile di massa.
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11 commenti:
...ma qualcuno si è posto il problema di cosa si ottiene bruciando un combustibile oleoso in un motore a ciclo diesel?
esiste qualche analisi in merito?
...scusate, mi riferivo, naturalmente, a un combustibile oleoso di origine vegetale...
Credo che le mie mail su Petrolio siano state in sintonia con questo post; dopo tutto non ho fatto 49 esami ad agraria per niente
Toufic
La differenza tra produzione bio e industriale è però solo del 20%, come dimostra la ricerca DOK:
http://www.fibl.org/english/research/soil-sciences/dok/yields.php
Ste riporta una differenza tra produzione biologica e "convenzionale" intorno al 20% (ho anche letto la ricerca indicata, che parrebbe confermare quel dato medio nel caso degli esempi citati).
Questo mi porta a chiedermi: come mai allora si insiste nel praticare colture di tipo "convenzionale", con i loro intrinseci e ampiamente riconosciuti problemi di natura ambientale? Ragionando in termini puramente monetari, non è che il risparmio di fertilizzanti e pesticidi compenserebbe in parte quella percentuale già non estrema portandola a livelli ancor più accettabili? Che so, tirando a indovinare, intorno a un 10%? Considerando che il prezzo degli alimenti "al consumo" (pessima espressione) è solo in parte determinato dal costo della materia prima all'origine (quel che si raccoglie nei campi, per intendersi) presumo che le differenze di prezzo tra biologico e "convenzionale" potrebbero tranquillamente aggirarsi intorno a percentuali inferiori al 5%. Più che tollerabili, dunque. (Correggetemi se sbaglio)
Evidentemente, non è una questione di prezzi. Che ci si dica, finalmente, la ragione per la quale non possiamo rinunciare a quel 20% di produzione agricola. Vorrei sentirlo spiegare e ripetere ogni giorno al telegiornale, al posto di tutte quelle corbellerie sui filarini dei vip e simili. Quella sarebbe informazione.
La domanda è dunque: per quale ragione non possiamo rinunciare a quel 20% di produzione agricola? Qualcuno mi risponde?
voi che avete letto la ricerca, ne potete ricavare anche informazioni sul consumo di energia della agricoltura biologica? io temo che sotto questo aspetto la AB più diffusa non si discosti molto da quella convenzionale
franco
>La domanda è dunque: per quale ragione non possiamo rinunciare a quel 20% di produzione agricola?
>Qualcuno mi risponde?
Perché ovviamente le corporazioni dedite alla vendita di fertilizzanti, pesticidi, erbicidi e macchinari non vogliono perdere il mercato.
Recentemente leggevo un libro di Eliot Coleman dove racconta che, negli anni 70', un bolletino dell'USDA (Dipartimento per l'agricoltura negli USA) affermava che l'azoto é azoto e il fosforo é fosforo. Pertanto non importa da dove arriva, sia esso sintetizzato oppure da letame.
Coleman da buon aspirante coltivatore organico, e pure squattrinato, intepretó l'articolo a sua maniera; ovvero, invece di comprare fertilizzanti usare letame facilmente disponibile e pure gratis.
Ma solo dopo un pó di tempo (nella sua ingenuitá dice) si rese conto che in realtá l'articolo mirava a screditare i coltivatori organici, che affermavano essere i concimi organici migliori dei chimici. Infatti lo sono, ma per tutta una serie di ragioni che non hanno a che vedere solamente con i nutrienti apportati.
D'altro canto il passaggio da agricoltura industriale intensiva a biologico intensivo non é fattibile da un giorno all'altro ma richiede una conversione graduale, un apporto superiore di manodopera, modifica dei macchinari usati e un infinitá di considerazioni aggiuntive. Non che non sia possibile anzi, é auspicabile e probabilmente il cammmino obbligato per il prossimo futuro.
P.S. A grosso modo eh, non era una domanda semplice ;-)
Dido, non sei sulla strada giusta, secondo me. Ritengo che le ragioni per le quali non possiamo rinunciare al 20% della produzione siano ben altre.
Altre ipotesi?
P.S. "Perché ovviamente le corporazioni dedite alla vendita di fertilizzanti, pesticidi, erbicidi e macchinari non vogliono perdere il mercato" è una questione di prezzi, quindi poco in tema con la domanda che ho posto. Anche l'assunto che vorrebbe il letame "pure gratis" non corrisponde a verità. Il letame, come ogni altro prodotto, ha dei costi ben precisi e neppure particolarmente contenuti.
Beh la tua domanda non é che fosse molto chiara scusa, parli di ragionare in termini puramente monetari pero trovi la mia risposta poco in tema perché tratto una questione economica.
Visto che ci sono svariate ragioni sul perché la agricoltura organica non si é impiantata come avrebbe potuto (e dovuto) se ti spieghi meglio evitiamo di andare a tentoni.
Peraltro, il letame non é ritenuto indispensabile nell'agricoltura biologica in quanto é sostituibile con compost, concimi verdi e coltivi di copertura; in ogni caso, qualunque fattoria biologica che tenda alla sostenibilitá cercherá di utilizzare concimi, quindi anche letame, prodotti nella stessa fattoria.
Il citato Mr. Coleman, inizialmente, e in una epoca dove ormai si sostituiva il letame per composti NKP (quindi essendoci abbondanza di letame), lo otteneva gratuitamente semmai pagando il trasporto.
Successivamente mise in atto sistemi di coltivazione atti a limitare l'apporto esterno di fertilizzanti.
Dido, sei stato gentilissimo e ho apprezzato le tue risposte. Quel che volevo evidenziare è che di quel 20% di differenziale in tonnellaggio prodotto non possiamo probabilmente fare a meno, giacché pare che la produzione agricola sia già insufficiente (e continuerà ad esserlo a dispetto di qualsiasi aumento, fintanto che non si ridurrà la domanda; viste le previsioni di crescita, dubito che la domanda si ridurrà... anzi...).
Se si considera a breve termine probabilmente hai ragione, anzi, visto che il passaggio al biologico richiede un tempo per ripristinare la fertilitá probabilmente la perditá immediata di produttivitá, nella transizione, é superiore.
Se si considera a lungo termine invece l'agricoltura biologica e sostenibile é la strada da seguire.
Infatti, nonostante l'abbondanza di risorse energetiche, la resa dell'agricoltura industriale va diminuendo fino a incontrare il suo peak. Non solo per via della futura mancanza di petrolio e gas, ma soprattutto perché il coltivo industriale provoca la perdita della fertilitá, erosione, desertificazione e abbassamento delle falde acquifere, obbligando la espansione verso nuove aree da sfruttare.
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