domenica, febbraio 01, 2009

L'arte del management secondo Ugo Bardi


Per qualche ragione, Attila l'Unno (qui interpretato da Diego Abatantuono) è stato portato ad esempio di buon management in un libro dal titolo "Leadership Secrets of Attila the Hun" di Wess Roberts (nel 1987). Non sono troppo sicuro che Attila sia un esempio da imitare, ma il fatto che sia proposto come tale è una buona indicazione di come sia difficile gestire le organizzazioni, specialmente quando sono grandi. In questo post, sostengo che le grandi organizzazioni soffrono di qualcosa di simile alla sindrome della "Tragedia dei Commons" come l'ha descritta Garrett Hardin.


Quando ero "postdoc" all'università di Berkeley, il mio capo cercava di far lavorare di più i suoi collaboratori mettendoli uno contro l'altro. Ci chiamava nel suo ufficio, uno per uno, e ci raccontava di come il nostro vicino di stanza stava facendo di più e di meglio e come mai tu non riesci a tenere il passo? L'idea era di stimolarci. Bene, poi noi ci ritrovavamo tutti insieme a bere birra e ci raccontavamo le cose che il capo ci aveva detto singolarmente e ci facevamo sopra delle gran risate.

Quel capo non era un cattivo capo. Aveva solo certe piccole manie, una delle quali era di volere il premio Nobel. Questa idea lo faceva diventare nervoso e lo spingeva a rompere le scatole ai suoi collaboratori. A parte questa forma di lieve follia (e il premio Nobel non è riuscito a prenderlo) nel complesso era una brava persona e procurava a tutti le risorse necessarie per lavorare. Questo è quello che il capo deve fare. C'è solo un errore irrimediabile che il capo può fare: fregarsene dei suoi collaboratori.

Gli anni sono passati, e oggi sono il "capo" di un piccolo gruppo di ricerca all'università. Non so quanto a lungo questo gruppetto di 7-8 persone potrà continuare a esistere, vista la situazione attuale di disastro finanziario. Ma finora ha funzionato benino. Vi posso dire anche che la mia tecnica di gestione del gruppo è una tecnica di "non-management". Ovvero, cerco di procurare ai miei collaboratori le risorse di cui hanno bisogno e poi li lascio lavorare in pace.

Tuttavia, se appena esco dalla situazione abbastanza idillica del mio gruppo (o dei gruppi dei colleghi), vedo subito che le cose cambiano. L'università intesa come istituzione è un disastro. Vi ricordate la storia del ragionier Fracchia, personaggio di Paolo Villaggio? Era un impiegato statale a cui avevano rubato la gomma il primo giorno di lavoro e aveva passato tutto il resto della sua carriera a cercarla. Beh, nell'amministrazione dell'università ci sono veramente situazioni del genere; magari non proprio a livello del mitico Fracchia, ma non tanto distanti. Certe volte ti prende la disperazione e ti verrebbe voglia di chiamare, non solo il ministro Brunetta, ma Attila in persona; inteso come lo storico "flagello di Dio."

Ma, nella mia esperienza di ricerca per tanti anni per la Fiat e per altre grandi industrie, la loro efficienza non mi è parsa molto migliore di quella dell'università. Se la sindrome di Fracchia è tipica degli enti statali, nelle industrie c'è la "sindrome di Wally". Wally è un personaggio della striscia di "Dilbert" che ha passato un intera vita nella ditta senza mai aver fatto nulla anche se ha dovuto ingegnarsi un po' per non farsi scoprire.

Gestire una grande industria o un'amministrazione statale è una cosa molto difficile. Ho visto più di un caso di industrie partite come un gruppetto di amici entusiasti che poi si sono ingrandite con operai, dirigenti, rappresentanti, contabili, quality manager, personale di pubbliche relazioni, eccetera. Non puoi gestire tutta questa gente semplicemente lasciandoli tranquilli. La faccenda non è più soltanto un problema; è diventata un incubo.

Deve essere per questo motivo che ci sono tanti libri che ti spiegano come essere un buon manager; per esempio quello che si intitola "I segreti di management di Attila l'Unno". Ce ne sono tanti altri che si trovano, tipicamente, nelle librerie degli aereoporti dove i manager passano molte ore della loro vita. Evidentemente, se si vendono vuol dire che hanno una ragione di esistere e la sola ragione che si può pensare per la loro esistenza è che essere un buon manager è cosa difficile. In effetti, se uno compra un libro che ti spiega come fare una certa cosa, vuol dire che quella cosa non la sa fare bene. Pensate a vostra nonna che cucinava così bene e non aveva certamente bisogno do comprare libri di cucina. Ma non è affatto detto che comprare un libro vi faccia diventare un bravo manager (o un bravo cuoco).

L'efficacia di questi libri deve essere piuttosto modesta; almeno per quello che ne posso dire io dalla mia esperienza. Libri o non libri, l'efficienza delle grandi organizzazioni rimane sempre molto modesta e, a mio parere, peggiora più sono grandi. Le organizzazioni veramente grandi, come le università o le industrie automobilistiche, sono terribilmente inefficienti. Se poi saliamo su di qualche tacca in dimensioni, troviamo gli stati nazionali i cui governi hanno fatto le più grandi bestialità che la storia riporti.

La mia impressione è che le grandi organizzazioni siano soggette a una forma di "tragedia dei commons". Vi ricordate di Garrett Hardin, che propose questo concetto: c'è un pascolo comune, ci sono dei pastori che ci portano le loro pecore. Ogni pastore ha un vantaggio a portare al pascolo quante più pecore può; ma il pascolo non può sostenere più di un certo numero di pecore. Va a finire che tutti i pastori portano qualche pecora in più; il pascolo si rovina irrimediabilmente e pastori e pecore muoiono di fame.

Il modello di Hardin non è stato tanto citato come applicabile alle industrie e ai sistemi statali, ma credo che spieghi molte cose. Quello che succede, a mio parere, è che quando l'organizzazione supera una certa dimensione, chi ci lavora dentro cessa di lavorare "per il bene dell'azienda", ma piuttosto per il bene di se stesso o dei collaboratori vicini. Vale il principio di Hardin: il manager cerca di accaparrarsi risorse al massimo possibile. Se l'organizzazione è piccola, facendo così danneggerebbe prima di tutto se stesso. Ma, se è grande, il vantaggio personale che ne ricava è superiore al danno che ne subisce in quanto membro dell'organizzazione stessa. Del resto, se leggete i libri di management che si trovano negli aeroporti, non ci troverete istruzioni su come agire per il bene dell'azienda, ma per il proprio bene come manager (chiamato "sviluppo", "realizzazione", "successo" e simili).

Questo credo che sia un meccanismo talmente comune che non ci facciamo nemmeno caso, se non quando il contrasto fra il bene del manager e quello dell'azienda non appare talmente eccessivo da non poterlo ignorare. Mi risulta, per esempio, che Giancarlo Cimoli, amministratore delegato dell'Alitalia, aveva uno stipendio di 2 milioni e 700 mila euro all'anno fino a non molto tempo fa. Questa è una delle cose che ha fatto gridare allo scandalo. Ma, se l'Alitalia non fosse andata in crisi, chi avrebbe protestato? Cimoli ha semplicemente agito secondo le linee di un classico modello dei commons: l'andamento dell'Alitalia non dipende dal suo stipendio e anche se lui se lo fosse dimezzato - o anche avesse lavorato gratis - questo non avrebbe avuto alcun effetto pratico su un deficit di parecchie centinaia di milioni di Euro. Il problema è che, ho l'impressione, tutti all'Alitalia, un po' a tutti i livelli, hanno ragionato in questo modo e i risultati si sono visti.

Quasi tutte le organizzazioni sono afflitte da questo problema, contro il quale non c'è veramente molto da fare. Non c'è libro di management che tenga contro la tendenza umana ad accaparrarsi quel che si può, quando si può. Pugno di ferro, regole severe, controlli capillari; si, possono aiutare. Ma chi controlla i controllori che, anche loro, sono soggetti alle stesse tentazioni dei controllati?

Alla fine dei conti, sembrerebbe che la soluzione migliore per questo problema sia la "distruzione creativa". Ovvero, tornando ai commons di Hardin, se i pastori sono appena arrivati nel pascolo, possono decidere che gli conviene piuttosto cercare zone ancora non utilizzate piuttosto che rovinare quelle in cui già si trovano. Ci vuole un po' di tempo prima che la "tragedia dei commons" si instauri. Così, una possibile ricetta per migliorare le prestazioni delle organizzazioni è di smantellare le strutture ormai irrecuperabili e costruirne di nuove. Questo è quello che dovrebbe fare il libero mercato con le aziende obsolete. Anche per le organizzazioni statali, può darsi che il fatto che la democrazia sia normalmente un sistema più efficiente delle dittature non è tanto che gli elettori scelgono i governanti migliori, ma piuttosto che ogni tanto si fa una distruzione creativa e si cambiano le persone ai vertici.

Purtroppo, queste forme di distruzione creativa sembrano avere un'efficacia abbastanza limitata. Non solo, ma nei momenti in cui una ditta o una società si trovano in gravi difficoltà, gli stati tendono ad abbandonare la democrazia per affidarsi all'uomo forte del momento e le ditte invocano aiuti statali per la salvezza. Proprio le cose che perpetuano la stasi e fanno i danni peggiori.

Ci troviamo oggi nella necessità di gestire un intero pianeta; per esempio per controllare le emissioni di gas-serra. La cosa non è facile; anzi, è un compito qualitativamente molto più difficile di qualsiasi cosa che la storia ricordi. Vedremo se ci riusciremo; se non ci riusciamo può darsi che la distruzione che ne conseguirà non sarà per niente creativa.


11 commenti:

Anonimo ha detto...

Il problema è capire qual'è il limite di dimensione come uomini e mezzi per cui un'organizzazione passi da "piccola" a "grande" e cioè cominci ad autodistruggersi.

Per quanto riguarda i manager, anni fa in una grande azienda, il capo ci dava degli obiettivi impossibili da raggiungere e la sua motivazione era "se vi chiedo il 110% voi mi darete il 100%". Io obbiettai che così a lungo andare, ci avrebbe frustrato e le nostre prestazioni sarebbero calate. Non sarebbe stato meglio darci degli obiettivi raggiungibili?
Ma io non sono un manager e probabilmente non ho mai capito nulla della gestione del personale.

Anonimo ha detto...

Sono lieto che il "capo" non abbia preso il premio Nobel, così avrà ancora la possibilità di riscoprire l'essere umano che c'è in lui. Il premio Nobel, come tutti gli alti riconoscimenti, sono dei piccoli certificati di morte (stando a quel che dice Dario Fo).

PS: al contrario di una collettività basata sulla cooperazione, una società competitiva porta complessivamente a minor benessere per tutti, come spiegato dal "dilemma del prigioniero": http://it.wikipedia.org/wiki/Dilemma_del_prigioniero

Anonimo ha detto...

Sono ogni giorno più convinto che siamo una specie intrinsecamente difettosa.Il cui difetto irrimediabile sia quello di albergare la coscienza dell'infinito,e questo ci porta al desiderio della vita eterna,con tutte le conseguenze e implicazioni che ne derivano.Non c'è quantità di materia o di energia,e quindi nè di spazio nè di tempo,che possano bastare ad un essere fatto come siamo fatti noi.
E per quanto riguarda l'informazione,le cose sono ancora più irrimediabili.Ognuno nasce con la sua mente in grado di percepire e comprendere alcune cose,ma sovente non quelle che vorrebbe.
In una situazione del genere,l'organizzazione delle migliaia di miliardi di cellule del nostro organismo,in grado di durare decine e decine di anni,è letteralmente parlando,sovrumana.
E qui si manifesta l'enigma in tutta la sua magnificenza.
Come mai, noi che siamo frutto di una così mirabile organizzazione,
siamo praticamente incapaci di metterci d'accordo fra noi stessi,se non a prezzo di enormi sofferenze, che se fossimo vivi tutti quanti insieme, non saremmo che una milllesima parte del numero delle nostre cellule?
I preti di ogni ordine e grado, accompagnati da altrettanti filosofi,da millenni cercano di fornire una spiegazione a questo dilemma, che oggi è quanto mai pressante,ma visti i risultati,
c'è poco da sperare che trovino mai una risposta esauriente.
In un certo senso,allora, è una fortuna vivere soltanto cent'anni su questa terra,fatti di queste carni ed ossa.
Forse il nostro posto si trova in un universo appena appena differente da questo in cui siamo.
Ma tra tutte le differenze possibili, e oltretutto immaginabili da esseri come noi, evidentemente,non sappiamo quale sia quella decisiva.

Marco Sclarandis

Anonimo ha detto...

Come direbbe il buon Silvano Agosti, il problema è che le persone - all'interno di QUESTA cultura - non vivono, ma esistono soltanto: ed è tipico di chi non vive preoccuparsi di ciò che verrà dopo la morte… chi vive, aggiunge, sa di essere nell'eternità del vivere. Le grandi organizzazioni fanno parte di questo processo del non-vivere che, semplicemente, ha come finalità la ricerca del profitto anziché la felicità degli esseri umani i quali, di conseguenza, sono condannati a diventare ruoli vaganti da un'angoscia ad un altra.
http://it.youtube.com/watch?v=AgkJjWA_U2Y

Anonimo ha detto...

Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza.
Così scriveva un certo Dante Alighieri nella sua opera più grande.
L'evoluzione è il risultato di variazioni genetiche casuali: quelle che meglio si adattano all'ambiente si propagano, le altre scompaiono.
Questa fu la conclusione di Charles Darwin.
Se la specie umana si è evoluta in senso intelligente è perchè i comportamenti "intelligenti" permettono una migliore probabilità di sopravvivenza. La specie umana ha inoltre la capacità di autoregolarsi, cioè di creare regole interne (leggi) in grado di influenzare la propria evoluzione sociale. Le leggi non sono immutabili, ma si evolvono in base al senso comune. Il loro scopo è quello di evitare e se necessario reprimere comportamenti nocivi alla società e/o ai suoi singoli membri e di promuovere quelli positivi.
Quando prevale l'intelligenza si possono affrontare i problemi sociali senza troppi traumi, quando prevale il cervello rettiliano, la parte più arcaica della mente umana, allora la violenza, la guerra e la miseria fanno parte della vita quotidiana dell'umanità.
Non esistono ricette facili o miracolose, tuttavia le attuali dichiarazioni di Obama sono una speranza per il mondo.

Carlo Z.

Anonimo ha detto...

Non sono affatto d'accordo con l'ultimo intervento : violenaza e guerra non sono i principali mali di questo secolo, ma piuttosto sovrappopolazione e impronta ecologica abnorme delle attività umane, tra cui, ai primi posti, tutta la sanità che attualmente non si occupi del mero controllo delle infezioni.

Anonimo ha detto...

Ma perché i Bonobo hanno capito tutto e noi no?

Anonimo ha detto...

Certamente un secolo di civiltà petrolifera, se così si può chiamare, ha permesso a miliardi di persone di affrancarsi dalla estenuante fatica necessaria alla pura e semplice sopravvivenza,e dedicarsi alla ricerca e scoperta del significato della nostra esistenza.Di fatto, molti si sono poi illusi che, essendo la vita umana apparentemente limitata,sia meglio arraffare quanto più possibile,finchè è possibile farlo.
Purtroppo,non abbiamo nessuna certezza che la coscienza di tipo umano,sia limitata ad una unica manifestazione.Anzi,il solo fatto
che siamo capaci di ragionamento matematico,che è inseparabile da considerazioni che riguardano l'infinito è un forte indizio che la nostra reale natura sia quella di esseri immortali.
Tutto ciò non ha niente a che fare
con vaghe speranze di vite ultraterrene.
Sopratutto se immaginate simili a puri e semplici prolungamenti del "cammin di nostra vita".
So bene che questo non è un blog che discute di filosofia in senso stretto,e quindi non aggiungo altro, ma sono assolutamente convinto che sia impossibile evitare di chiederci che cosa ci stiamo a fare,su questa terra,per cent'anni,nella maniera in cui siamo fatti.Evitare ostinatamente questa domanda,
tanto quanto pretendere di rispondervi in modo definitivo,sono due strade che portano entrambe alla follia.
Non è l'energia a mancarci, nè la materia bruta e ancor meno la conoscenza per manipolarle.
E' il significato di quello che facciamo, a sfuggirci in continuazione.
E senza significato,siamo polvere
dilaniata dal ricordo che almeno una volta eravamo solide e concrete pietre.

Marco Sclarandis.

Anonimo ha detto...

Ho trovato questo breve filmato tratto dal film Ratataplan di Maurizio Nichetti a proposito di come vengano fatte le selezioni del personale nelle grandi aziende.
Chi vi ha lavorato o chi ha partecipato ad una di queste selezioni, vi si ritroverà completamente.
Il video fa sorridere ma rispetta la realtà.
Su YouTube

Anonimo ha detto...

Simpatica e significativa la scenetta di Nicchetti. Se volete su YouTube potete vedere anche alcuni estratti dei film di Jaques Tati, un grande autore di cinema che (come Chaplin in Tempi moderni) ha realizzato una brillante parodia dell'attuale cultura.

Marco C ha detto...

Il problema secondo me non è che la creatività manchi nelle persone delle grandi organizzazioni, che da neolaureato comincio a conoscere. Anzi, se vogliamo, proprio per raggiungere gli "obiettivi del 110%" di cui parla Pippolillo la creatività è quanto mai stimolata per rifilare il daffare (o la colpa per un errore commesso) a qualcun altro :-)

A parte questa prima considerazione semi-seria, torno al punto: le grandi organizzazioni son appunto inefficienti e qua riprendo il tema di Bardi - per inciso, e a maggior ragione, in esse ho visto gente che lavora da matti tutto il suo tempo, anche extraorario tipo i managers, e chi invece magari lavoricchia o addirittura non viene in azienda per nulla, protetto da un contratto a tempo indeterminato ottenuto in epoche più felici... non certo per le persone della mia età che si laureano in questo periodo e che tendenzialmente vivono di stage...

Son inefficienti e se sopravvivere in una organizzazione vuol dire spesso barcamenarsi tra la burocrazia tipica aziendale e tra i vari poteri decisionali sopra di te, beh...allora è ben diffcile cambiare la "testa" all'azienda: è difficile, usando un esempio da fantascienza ma per capirci, che Marchionne decida che per non andare contro al sindacato che gli impedisce di licenziare operai decida che anziché automobili in fiat si producono pannelli fotovoltaici e torri eoliche. Perché vorrebbe dire distruggere un'organizzazione per crearne un'altra... chissà se qualcuno avrà mai tanto coraggio e tanta bravura per arrivare a qualcosa dl genere. Ma c'è un altro fattore: il mestiere dell'auto (ad esempio, ma la cosa vale per tutti i settori industriali), che genera il 10% del pil Italiano pare, è quello a cui molta gente ha dedicato la vita in cambio di uno stile di vita ben diverso da quello delle generazioni precedenti. E qua chiudiamo il cerchio e torniamo ai consueti argomenti argomenti sulla vita "post picco", più parca e dove andranno riprese molte abitudini e CONOSCENZE dei nostri padri e che dovremmo cominciare a riprendere...

Marco C.