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mercoledì, marzo 16, 2011

Auguri, Italia

Il 17 Marzo si festeggiano i primi 150 anni di storia nazionale. La grande maggioranza degli italiani sta rispondendo con entusiasmo alla importante ricorrenza. Secondo un recente sondaggio, quasi il 90% degli italiani ritiene che l’Unità d’Italia sia stata un fatto positivo e, udite bene, persino il 70% dell’elettorato leghista la pensa allo stesso modo. Quindi, archiviate le farneticazioni secessioniste dei dirigenti leghisti, non ci resta che porci l’unica domanda seria che la Festa ci propone: quale sia l’eredità del grande moto risorgimentale ancora attuale nel 2011.

Se si ha voglia di studiare e approfondire quel lontano passato, si scopre un’inaspettata ricchezza e complessità di contenuti e motivazioni, una vera età dell’oro italiana. E’ come quando si apre un antico armadio in un angolo nascosto della casa, scoprendo gli abiti un po’ ammuffiti dei nostri antenati. Ma se apriamo la finestra e li osserviamo con attenzione alla luce, rilevano bellissimi colori e disegni e originalità incomparabili con gli indumenti massificati che siamo soliti indossare.
Fra quei contenuti e motivazioni io ne enucleo tre che mi paiono i più attuali.

1) L’epoca risorgimentale ha rappresentato uno dei pochi momenti della nostra storia in cui il merito e la valorizzazione del talento abbiano prevalso sui criteri clientelari e “familiari” di selezione della classe dirigente. Gli uomini e le donne che hanno fatto l’Italia erano non solo i migliori, ma in alcuni di essi l’enorme statura etica, intellettuale, militare e politica travalicava persino i confini nazionali. Tra tutti, si staglia a mio parere, la figura immensa di Giuseppe Garibaldi e l’episodio decisivo della spedizione dei Mille. Ispirato dalle teorie proto - socialiste di Saint-Simon, Garibaldi lottò disinteressatamente l’intera vita per la libertà, l’indipendenza e l’eguaglianza dei popoli. Fu un generale originale, abile e coraggioso che risolse a proprio favore con geniali strategie le sorti di molte battaglie per l’indipendenza, combattendo e rischiando la vita sempre in prima fila insieme ai suoi soldati. Il suo capolavoro fu la spedizione dei Mille, che non può minimamente essere offuscata dai revisionismi d’accatto di storici improvvisati. Si è detto che un esercito poco numeroso e male armato non avrebbe potuto sconfiggere un’armata organizzata come quella borbonica e che ci sia riuscito solo grazie all’aiuto di potenze straniere e con la corruzione dei generali nemici. Questo sospetto denigratorio non ha alcun fondamento storico e non corrisponde allo svolgersi dei fatti. L’unificazione del sud d’Italia al resto del paese fu determinata grazie alle straordinarie capacità militari di Garibaldi (geniale la strategia adottata per espugnare Palermo), all’esperienza acquisita sul campo in precedenti battaglie per l’indipendenza, all’impeto “garibaldino” e alle superiori motivazioni ideali (“Qui si fa l’Italia o si muore”) dei Mille volontari, all’appoggio delle antiborboniche popolazioni locali, alla progressiva formazione di un esercito più numeroso e a un pizzico di fortuna che, come noto, aiuta gli audaci. Per comprendere meglio i fatti e il valore delle “Camicie Rosse”, giustamente definite da Luciano Bianciardi “uno degli eserciti più colti che la storia ricordi”, consiglio la lettura del gioiello letterario “Da Quarto al Volturno” dello scrittore – soldato Cesare Abba.

2) Il movimento risorgimentale ebbe come suo scopo principale la liberazione dell’Italia dalla secolare dominazione straniera e l’unificazione del paese ma fu anche, in termini sociali ed antropologici, il tentativo tuttora attuale e a tratti ciclopico, di promuovere la rigenerazione etica e morale degli italiani, precipitati dopo il Rinascimento in secoli bui di arretratezza e degrado civile.

3) L’ultimo e per me più importante “messaggio nella bottiglia” lasciato dai patrioti risorgimentali, ha molta attinenza con le motivazioni di questo blog: ciò che rende una vita umana degna di essere vissuta non è il semplice soddisfacimento di esigenze materiali e di pulsioni e istinti primordiali, ma soprattutto combattere e impegnarsi per alti obiettivi e nobili ideali.

Concludo con un ricordo commosso a tutti gli italiani che hanno dato la vita per il Paese, durante il Risorgimento ma anche nella “Grande Guerra”, nella Resistenza, nella lotta al terrorismo e nella guerra tuttora in corso contro le mafie. Viva l’Italia.

venerdì, novembre 26, 2010

Ricordo di Ennio Flaiano


Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Ennio Flaiano (morto nel 1972), scrittore e intellettuale dotato di finissimo umorismo, capace di analizzare con spietato realismo e con visione precorritrice dei tempi le storture della società italiana. Egli è ricordato soprattutto per i suoi fulminanti e sagaci aforismi, di cui vi propongo una breve rassegna dei miei preferiti, i primi riguardano l’Italia e noi italiani, i secondi alcune riflessioni sociali molto attinenti al tema di questo blog. L’ultimo, quello che mi piace di più, riguarda però un’ironica riflessione sulla vita privata.

Fra trent’anni l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione.

La situazione politica in Italia è grave ma non è seria.

Per gli italiani l’inferno è quel posto ove si sta con le donne nude e con i diavoli ci si mette d’accordo.

Gli italiani sono i primi a correre in aiuto del vincitore.

In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti.

In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco.

Gli italiani sono un gruppo di uomini indecisi a tutto.

Gli italiani sono un popolo di santi, di poeti, di navigatori, di cognati, cugini e nipoti…

L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori.

L’italiano ha un solo vero grande nemico: l’arbitro nelle partite di calcio, perché emette un giudizio.

Anche il progresso, diventato vecchio e saggio, votò contro.

Il traffico ha reso impossibile l’adulterio nelle ore di punta.

La pubblicità unisce sempre l’inutile al dilettevole.

Senta Agnelli, faccia pure quante automobili vuole, tanto io non ho la patente.

La civiltà del benessere porta con sé proprio l’infelicità.

Il dramma della vita moderna è questo: tutti cercano la pace e la solitudine. E per il fatto stesso di cercarle, le scacciano dai luoghi dove le trovano.

L’oppio ormai è la religione dei popoli

Una delle principali cause di divorzio è il matrimonio.

giovedì, aprile 15, 2010

Intelligenza: merce sopravvalutata?



created by Dario Faccini


In un recente post Terenzio Longobardi ha affermato che più che in una ‘Age of Stupid’, ci troviamo in una ‘Age of Clever’, poiché è dalla brillanti intuizioni di pochi geni che sono scaturite le soluzioni tecnologiche che ora minacciano lo stesso benessere che hanno contribuito a creare.

Questa affermazione mi ha stimolato qualche considerazione sulla natura dell’intelligenza umana e sull’abitudine a sopravvalutarne la portata.

L'intelligenza distingue certamente in modo netto la nostra specie da tutte le altre. Mi sembra però che il nostro - per ora ancora breve - successo derivi da innumerevoli altri meccanismi e fattori di contesto, spesso aleatori o comunque destinati, in qualche modo, a vedere un’inversione di tendenza:

• C'è una gaussiana dell'intelligenza. Questa è legata al totale della popolazione: più scoperte, più successo di specie, più popolazione totale e meno in percentuale impegnate in agricoltura, più geni della coda della gaussiana liberi di fare nuove scoperte e così via. Questo feedback positivo è pero destinato ad esaurirsi con l'arrestarsi della crescita della popolazione. Inoltre, come un mio amico mi ha fatto notare, la scienza, in particolare la ‘Big Science’, è destinata a ‘piccare’. Pensiamo alla fisica delle alte energie: siamo passati da ciclotroni fai-da-te ad acceleratori come l'LHC (che ha un budget di 9 miliardi di dollari). Sarà mai possibile un investimento di risorse maggiore? In generale, quello che c'era da scoprire con più facilità potrebbe, in massima parte, essere già stato studiato. Una inesorabile legge dei ritorni decrescenti potrebbe affacciarsi anche sulla ricerca scientifica ele sue scoperte.

• La specie Umana, come civiltà, ha potuto giovarsi di un contesto molto favorevole. Si è sviluppata in un periodo geologico-climatico adatto, l'Olocene. Ha trovato enormi riserve di energia stellare immagazzinate in forme facilmente estraibili (combustibili fossili+elementi fissili). Ha potuto compiere così un'evoluzione tecnologica di slancio, in un periodo di tempo relativamente breve, evitando che i fenomeni di 'entropia dei materiali' (perdita irreversibile delle risorse minerali concentrate, ad es. ossidazione metalli in opera) potessero minarne lo sviluppo. La dipendenza da fonti minerali ed energetiche concentrate è cruciale. Se invece di essere la prima specie intelligente fossimo stati la seconda, avremmo trovato ancora il petrolio in Medio Oriente e le miniere di rame in Cile? Senza di essi avremmo avuto lo stesso sviluppo?

La stessa intelligenza umana si manifesta inoltre con caratteristiche che dovrebbero farci dubitare della sua valenza a lungo termine:

• L'intelligenza, spesso, sembra solo una componente di miglioramento rispetto ad un processo di adattamento per tentativi casuali quale è l'evoluzione. Mentre da un punto di vista genetico la comparsa di un nuovo carattere vantaggioso ha bisogno di migliaia di anni per esprimersi e fissarsi, la comparsa di un nuovo comportamento vantaggioso può essere scoperto e fissato anche solo in una generazione grazie alle superiori capacità intellettive dell'uomo. In questo aspetto l'intelligenza si prefigura come un acceleratore evolutivo basato comunque su un meccanismo di prova-errore di singoli individui piuttosto che su una strategia collettiva di valutazione delle possibilità, dei rischi e di scelta ponderata delle direzioni di sviluppo. L'intelligenza ci ha lanciato quindi in un percorso di crescita assolutamente non pianificato.
Molti salti tecnologici sono improvvisazioni sul momento, avvenuti non per una scelta a tavolino di un Governo, ma secondo necessità contingenti provocate da un sovrasfruttamento: ad esempio il passaggio tra legna e carbone in Inghilterra nel 700, o quello da Olio di Balena e Petrolio nell'800. La civiltà umana si comporta più come un microrganismo in crescita esponenziale in un piastra di Petri ricca di nutrienti, piuttosto che una quercia che cresce lentamente in un bosco fino a diventarne elemento integrante. Finora è andata bene, la piastra di Petri era molto più grande del previsto, ma prima o poi dovrà pur finire. Forse sarà proprio nella gestione di questi limiti che emergerà un giudizio definitivo sull’intelligenza posseduta dalla nostra specie.

• L'intelligenza stessa è una caratteristica emergente dell'evoluzione. Non ci sono però garanzie che essa sia una caratteristica 'stabile'. Una specie media dura 5 milioni di anni, la nostra ne ha ancora solo 200 mila (a star larghi) e la storia umana, ove si è manifestata l'estrema efficienza di sfruttamento dell'ambiente, circa 10000. L'intelligenza potrebbe essere anche una caratteristica perdente, un esperimento evoluzionistico destinato all'autoconclusione, oppure potremmo non essere ancora sufficientemente evoluti sul percorso dell'intelligenza per riuscire a valutare le conseguenze delle nostre azioni o per evitare che le capacità logico-razionali soccombano al nostro retaggio emotivo in scelte cruciali.
La crisi dei missili di Cuba nell’ottobre del ’62 sembra un buon esempio di ‘scelta cruciale’. La costituzione di arsenali atomici, e la conseguente assunzione di un rischio di ‘inverno nucleare’ a livello globale, è stata frutto di inconsapevolezza delle conseguenze? Oppure è stata una decisione guidata da una profonda sfiducia nelle intenzioni di un altro popolo/governo/ideologia? Non credo si possa rispondere, ma sicuramente non si è trattato di una scelta guidata da una ‘intelligenza di specie’ di cui il genere umano possa andare fiero. (1)



(1) In pochi hanno ben chiaro il rischio (inteso come probabilità) di conflitto nucleare corso dal genere umano nella crisi dei missili di Cuba. Se al posto di un Kennedy , che ha resistito alle pressioni di un’opzione militare basata su informazioni CIA clamorosamente sbagliate, ci fosse stato un altro presidente, poniamo un Bush, quale sarebbero state le sue decisioni? Va notato che all’epoca, non si sapeva ancora che un conflitto nucleare su vasta scala avrebbe portato ad un ‘inverno nucleare’ paragonabile ad un’era glaciale, quindi la tentazione all’uso degli arsenali atomici era significativa sia per gli USA che per l’URSS.

giovedì, luglio 09, 2009

Il lavoro nobilita?


Che il lavoro nobiliti, ce lo insegnavano già i nostri nonni a inizio novecento. Ed è così, in linea di principio; tuttavia, viste le evoluzioni che ci sono state nel nostro secolo, qualche domandina di puntualizzazione sorge spontanea.
L'aumento della produzione industriale (a sua volta indotto dall'aumentata disponibilità energetica fossile) ha creato uno spontanea migrazione di forza lavorativa dalla campagna alla città, e la conseguente urbanizzazione. Le condizioni di lavoro del contadino apparivano più dure di quelle dell'operaio della fabbrica, anche se nella realtà dei fatti non era detto che fosse così; tuttavia, l'industria trasmetteva un "senso di sicurezza economica" maggiore.

Tra le domande che ci possiamo porre troviamo ad esempio:

- è così nobile svolgere lavori ripetitivi e magari nocivi, per garantirsi uno stipendio che sta raggiungendo un asintoto e difficilmente reggerà le ondate inflattive (legate al peak oil&gas) ?
- quanto è nobile stare fuori casa per lavoro 10-12 ore al giorno, trascurando la famiglia e le relazioni?
- conosco persone che sul lavoro si trasformano; padri di famiglia che per il loro ristretto interesse, anche minimo, sono pronti a scavalcare e denigrare il prossimo. E' nobile, questo?
- che senso ha volersi ostinare a produrre sempre di più, quando il sistema linfatico dell'attività industriale, che è la disponibilità energetica e mineraria, sta mostrando difficoltà sempre più evidenti?
- è così gratificante (per chi fa questo tipo di lavoro) passare ore a compilare moduli, farne n copie e generare n plichi da archiviare in n posti diversi, che saranno ignorati da chi verrà dopo?


A una più profonda analisi, il lavoro nobile è quello che più si avvicina alla rinnovabiltà, al riuso delle risorse. Quindi, possiamo pensare a imprese agricole a bassa meccanizzazione e basso uso di chemicals, oppure a medie industrie di riciclaggio materiali per il manifatturiero o di produzione di generatori di energia rinnovabile, magari autoalimentate con fotovoltaico, eolico o minidro.

Tutto il resto, la grande industria per capirci, sta vivendo la fase discendente dell'impero Romano. Le gerarchie sovrapopolate da individui a basso EROEI sono un sottoprodotto del surplus energetico, e declineranno allo stesso modo in cui hanno prolificato (anche se quelli che resteranno saranno ossi duri ...) .

PS1 In questo contesto, le idee di aumentare l'orario lavorativo a 65 ore/settimana e di innalzare progressivamente (fino a quando?) l'età pensionabile sono chiarissimi indicatori dello sbando cui ci sta portando lo stallo energetico

PS2 Ovviamente nei dubbi sull'utilità di certe mansioni includo anche me stesso :-)

sabato, giugno 20, 2009

Il mondo contadino




created by Andrea De Cesco






Con questo post vorrei fare eco al recente “I contadini e la crescita zero” di Ugo Bardi, per portare un contributo personale alla discussione un po' più esteso di quanto non si possa fare in un commento al post.

Pur premettendo che le mie esperienze e i libri di Farb si riferiscono a località e realtà molto lontane, completamente diverse tra di loro e che l'agricoltura non è una pratica che si sviluppi uniformemente in tutto il mondo, ma si adatta alle mutanti condizioni ambientali, climatiche e sociali, mi sento in dovere di portare il mio parere basato sulla mia esperienza riguardo il mondo contadino dell'Italia settentrionale negli anni '70 e più precisamente della campagna friulana.
Lo faccio perché, cresciuto in una società agricola negli anni in cui Farb scriveva il suo libro, posso dare un immagine diversa rispetto a queste opinioni che mi sembrano frutto di una forzatura di chi dall'esterno vede il mondo agricolo immobile e condannato alla rassegnazione perpetua, creando una generalizzazione tra varie realtà spesso molto diverse fra di loro.

Certamente il mondo agricolo è sempre stato un mondo conservatore, spesso anche politicamente, ma non poteva essere diversamente, in un ambiente in cui tutto il sapere veniva da secoli tramandato oralmente da padre in figlio, con corollario di credenze popolari ed errori, dovuti principalmente ad ignoranza e superstizione, ma si tenga in considerazione che ogni anno l'agricoltore doveva ricrearsi i mezzi per la propria sussistenza e commettere errori avrebbe significato comprometterla.
Far un gran numero di figli era una cosa ovvia in anni in cui la mortalità infantile era molto elevata, del resto la prolificità deve essere una caratteristica innata e presente nel patrimonio genetico dell'Homo sapiens, visto che l'ha portato a colonizzare l'intero pianeta e che se non ci fosse stata probabilmente l'avrebbe portato all'estinzione da molto tempo.
Inoltre più figli significava avere più braccia per lavorare in un mondo in cui il lavoro era essenzialmente sforzo fisico, le famiglie erano numerose in quanto traevano forza dal numero di componenti, inoltre non esisteva lo stato sociale e una qualunque malattia o infortunio di un membro adulto per una famiglia mononucleare avrebbe creato le condizioni per la morte per fame della stessa, visto che venivano a mancare due braccia indispensabili al sostentamento, cosa che non accadeva in una famiglia numerosa dove la mancanza di due braccia da lavoro veniva compensata dall'intervento di altri familiari.
Del resto questo modo di pensare riguardava anche le classi operaie già allora inurbate, tanto che a metà 800 fu coniato per le famiglie povere in cui l'unico mezzo di sostentamento e di garanzia per il futuro era solamente il lavoro dei figli il termine di proletariato.
Nel mio piccolo sono stato testimone di un passaggio epocale, dall'agricoltura tradizionale che usava ancora le tecniche tradizionali nonché la forza degli animali, praticata ancora dalla generazione dei miei nonni, nati ad inizio 900 a quella moderna dell'epoca dei miei genitori, nati negli anni 30 dello stesso secolo.
Devo dire che lo scontro fu molto forte, seppur non cruento, visto che la conoscenza accumulata in millenni di pratiche tradizionali diventava inutile, soppiantata dall'agricoltura meccanizzata, tutte le certezze fino ad allora accumulate venivano superate dal progresso tecnologico.
Gli anziani all'inizio vedevano questo progresso come una moda passeggera che poi avrebbe lasciato tutto come era prima e quindi ne diffidavano, per i giovani era l'inizio di un'epoca radiosa in cui l'agricoltura si affrancava dalla fatica fisica bestiale e diventava un settore produttivo analogo agli altri (industria, commercio) quindi apportatore di danaro e beni materiali non solo quindi mezzi di sostentamento, anche se continuava ad avere lo svantaggio di dover essere praticata all'aperto, quindi soggetta alle intemperie e alle variabili climatiche e soprattutto legata ad una stagionalità.
Lo sconvolgimento fu anche sociale, infatti le gerarchie interne alle comunità cambiavano, gli anziani perdevano il loro ruolo di guida della società che avevano avuto per millenni, ormai il loro ruolo non era più funzionale alla produzione la loro memoria, a volte fallace, non era più un metro di paragone, tutto cambiava.
A quel tempo scherzando questa generazione aveva un modo di affermare il suo disagio con una semplice frasetta “Quando ero giovane comandavano i vecchi e io dovevo ubbidire, oggi che sono vecchio comandano i giovani e io devo sempre ubbidire, chissà quando verrà il giorno in cui comanderò io?”.
Spesso non erano più le famiglie più abbienti a cogliere al meglio questo cambiamento, ma quelle composte da coloro che riuscivano a utilizzare proficuamente le risorse tecnologiche offerte, cioè persone che si erano un minimo istruite o che per un periodo erano emigrate altrove per lavoro ed erano venute in contatto con altre realtà agricole più evolute.
In quegli anni quindi una generazione si era trovata impreparata allo sviluppo della tecnologia, non sapeva usare i trattori, non conosceva i fertilizzanti e gli antiparassitari, non aveva nozioni di meccanica e di gestione aziendale neanche minime, quindi si trovo in breve superata dagli eventi.
Ma è sbagliato dire che quella generazione e le precedenti fossero restie al miglioramento al progresso, fu soltanto la velocità con cui avvenne che li trovò impreparati e non in grado di adeguarsi.
Non pensiamo che l'agricoltura fosse ferma nei millenni, ma solo che i progressi erano molto lenti, certo non era facile abbandonare pratiche consolidate per le novità, quindi queste dovevano essere introdotte molto lentamente.
Vengo da una zona in cui da più di 100 anni si coltivano i vitigni francesi, che hanno sostituito o affiancato le varietà autoctone, importati da un agricoltore illuminato, certamente un grosso agrario, che aveva visitato quel paese per istruirsi e poi si era riportato a casa il materiale di propagazione, lo distribuì e tutti gli altri accettarono la miglioria.
In quella come in altre realtà l'agricoltura era sempre in lento, impercettibile movimento, non era mai ferma (con tempi molto lunghi).
Del resto la patata, il mais, il pomodoro erano tutte specie estranee al mondo rurale italiano, e furono nei secoli lentamente introdotte, utilizzate e tramandate tanto da diventare la base alimentare delle popolazioni.

Non è neanche corretto affermare che le famiglie contadine siano sempre state individualiste, refrattarie alla cooperazione e che vedessero le risorse come non ampliabili e quindi tollerassero malvolentieri i progressi di una famiglia perché considerata una minaccia al benessere delle altre.
Proprio in Italia a partire da fine '800 si diffusero le prime cooperative, proprio legate alla produzione agricola, esempi come quelli dell'Emilia Romagna, del Veneto, del Friuli e successivamente del Trentino, furono da esempio, i caseifici, i circoli i consorzi, nacquero su queste basi e sono ancora un modello attualissimo.
Il vero problema delle comunità contadine erano in primis l'ignoranza e poi le piccole dimensioni delle comunità, ed il loro isolamento.
Non è possibile immaginare il progresso di una comunità o di una nazione, senza una adeguata istruzione, se le uniche informazioni sono quelle tramandate, riguardanti la mera sopravvivenza, non può esservi miglioramento delle condizioni di vita.
Molto spesso l'ignoranza era “coltivata”, dato che una massa ignorante e dipendente è più facilmente malleabile ed influenzabile (ma questo succede anche ai giorni nostri) da chi detiene il potere.
Inoltre le limitate dimensioni delle comunità facevano si che vi fosse una scarsa circolazione delle idee, in particolare quelle più innovative e “rivoluzionarie”, favorendo di fatto una omologazione dell'intera comunità al pensiero di poche persone, che dettavano legge, stabilendo quello che era o non era giusto.
Pertanto, anche un'innovazione tecnica introdotta in una comunità impiegava molto tempo ad essere accettata, ed anche quando questo accadeva faticava ad espandersi alle zone o alle altre comunità limitrofe
Può essere vero che a volte regnasse la rassegnazione ad un destino di miseria e di vita stentata, da cui si poteva fuggire solo con l'emigrazione, ma si consideri che per molti la rassegnazione traeva origine dal fatto che intere comunità spesso venivano tenute in condizioni di autentica sudditanza, dai vari poteri politici, economici o religiosi del tempo.
Infatti fino al secondo dopoguerra, molti agricoltori non erano nemmeno padroni del loro destino, in quanto mezzadri (la mezzadria rappresenta solamente un gradino sopra la servitù della gleba) quindi fornitori solamente di manodopera al padrone, senza alcun diritto sul terreno che lavoravano e senza garanzie per il futuro, in quanto il mezzadro e la sua famiglia, poteva essere allontanato dal fondo senza molti complimenti da parte del proprietario.
Venendo all'oggi, lo scenario che ci si presenta davanti è molto diverso, la diminuzione della disponibilità di energia da combustibili fossili non è una cosa da poco, sicuramente creerà degli scompensi enormi soprattutto nei paesi più poveri; fame, carestie disordini sociali saranno, anzi mi sembra lo siano già, all'ordine del giorno.
Ma a mio parere non è prevedibile un ritorno a quel passato.
Le nostre tecnologie e conoscenze si sono ampliate moltissimo, la mentalità è cambiata, certo non sarà facile abituarsi a delle situazioni di scomodità che si credevano superate, oppure neanche mai conosciute, ma sicuramente l'insieme delle professionalità degli sviluppi in campi come fisica, biologia, chimica, potranno fare in modo che l'agricoltura e gli agricoltori non ritornino indietro ai tempi bui della pura sussistenza.
La seconda fase dell' ”era del petrolio” sarà contraddistinta da un calo dei redditi e del tenore di vita medio, delle possibilità economiche e del possesso dei beni materiali, e per il mondo agricolo come per quello urbano industriale ci saranno difficoltà.
La scarsità di mezzi tecnici (fertilizzanti, antiparassitari, combustibili, attrezzature meccaniche) farà precipitare le produzioni agricole, ponendo problemi enormi di sussistenza in un pianeta sovrappopolato, ma sono fiducioso che in questo come in altri settori, l'uomo con la sua cultura sarà in grado di dare una prospettiva alla civiltà che ha costruito.

domenica, giugno 07, 2009

Una cosa chiamata politica



Tempo di elezioni. Comunali, provinciali, europee.

Una cosa curiosa, la politica; si sente davvero di tutto un po'. In un piccolo Comune di poche centinaia di anime, un aspirante consigliere mi confidava che stava cercando di recuperare voti all'ultimo momento con sms alle conoscenze personali; i motivi di fidelizzazione erano legati a servizi marginali di "aiuto", quali sgombero neve e cose del genere.
A livello più ampio, come grandi Comuni e Province, troviamo gli slogan: "NO agli immigrati"; "SI alle centrali nucleari" ; "VOGLIAMO più infrastrutture"; "NO agli inceneritori" ; "MANTENIAMO i posti nelle attuali industrie" e via dicendo.

La strutturazione in partiti, come suggerisce il nome, genera una partizione sull'insieme delle persone che si occupano di politica; ciascun gruppo (o classe, o categoria) propone programmi, che dovrebbero avere un certo grado di differenziazione (altrimenti cade il senso dell'esistenza di più partiti). Nei fatti, però, è sempre di meno così. Si cercano serbatoi di voti sulla base di motti ad effetto, come quelli citati sopra, che facciano leva su sensazioni; per il resto, la differenziazione sta diventando sempre più sfumata. Ad esempio, un po' tutti parlano di crisi e di ambiente, ma più per effetto moda; pochissimi o nessuno trattano in modo più scientifico l'imminente rischio di stallo dei sistemi complessi, e la politica si riduce a "scienza della constatazione".
Approvvigionamenti energetici e minerari, biologici e alimentari, cementificazione, demografia e migrazioni, clima: sono tutti aspetti che assumono un significato quando sono studiati simultaneamente; tuttavia, soprattutto a livello locale, nessuno ha la percezione o il coraggio necessari per proporre azioni che in qualche modo parrebbero ostacolare il mito della crescita.

La progressiva integrazione cui stiamo assistendo dimostra che ci sono processi spontanei, naturali, che lentamente e in ragione della sostanza scientifica sottostante riescono ad andare contro le forzose divisioni inventate dall'Uomo. Una cosa analoga sta succedendo nella classicissima bipartizione pubblico/privato: i confini diventano sempre più sfumati, come insegna il caso di General Motors e di molti gruppi bancari statunitensi.

La politica non dovrebbe ridursi ad essere la strenua difesa di interessi di una parte contro le altre, ma dovrebbe ergersi ad arte dello studio dei sistemi complessi su basi scientifiche, e delle decisioni migliori per garantire la stabilità dei sistemi.

Sarò sicuramente un idealista, ma il mondo politico non dovrebbe essere popolato da persone che smaniano di permanerci per mezzo secolo e anche più. Qualche dubbio sui reali obiettivi di tanta bramosia è lecito che venga; non si deduce nulla ma si induce molto.

Teoricamente, e indicativamente, il periodo "buono" per dare un contributo al bene comune dovrebbe essere la fascia che va dai 40-45 ai 60-65 anni, periodo un cui non si è troppo "giovani" ed inesperti, ma nemmeno "anziani" da rischiare di essere refrattari alle rapide evoluzioni che la transizione energetica sta richiedendo. E' un discorso di massima, è chiaro che ogni persona è un caso a sè e il valore aggiunto che può dare permette di andare anche oltre questa forcella.

lunedì, ottobre 06, 2008

Le conseguenze del picco sull’uomo ... e sulla donna



created by Armando Boccone


(Questo post serve un po’ a sdrammatizzare, sotto diversi punti di vista, la cupa situazione che si sta prospettando)


Ci si domanda sulle conseguenze dell’esaurimento dei combustibili fossili sulla vita quotidiana dell’uomo. Ma quale saranno le conseguenze sulla vita quotidiana della donna?
Stamattina stavo andando all’ufficio-personale quando una collega (a cui non avevo chiesto niente) mi dice che il Comune ha deciso che si può già accendere il riscaldamento. Dopo un po’ torno nel mio ufficio e una collega, che stava rientrando nel suo ufficio, chiede ”Ma quando accenderanno il riscaldamento?”.
In passato quando cambiava il tempo e minacciava di piovere o di nevicare vedevo le colleghe impaurite per l’evento che si prospettava. Dicevano “Non deve nevicare altrimenti diventa difficoltoso il traffico in città. Deve nevicare solamente in montagna”. Ovviamente se avevano in programma di andare in ferie esprimevano i loro desideri sul tempo che avrebbe dovuto fare. Se la vacanza sarebbe avvenuta d’estate allora avrebbe dovuto fare bel tempo, col sole sempre splendente e senza pioggia. Nel caso invece fosse avvenuta in montagna a sciare allora avrebbe dovuto fare abbondanti nevicate perché “Non è la stessa cosa sciare sulla neve sparata dai cannoni”.
Mi chiedo quale possano essere le conseguenze della scarsità di energia su questi comportamenti delle donne! Mi chiedo quali possano essere le conseguenze sull’abbigliamento di un certo numero di donne, sempre con le pance e qualcos’altro scoperti! Mi chiedo quali possano essere le conseguenze su certi consumi soprattutto femminili quali il possesso di un cane o di un gatto!

Però non sono solamente le cose dette che mi hanno colpito del comportamento delle donne; in particolare, mi ha impressionato positivamente il fenomeno delle banche del tempo, in cui proprio le donne hanno un ruolo di primo piano.
Cosa sono le banche del tempo?
Sono delle associazioni fatte da poche decine di persone che si scambiano soprattutto servizi. Questi servizi sono misurati dal tempo che si impiega per svolgerli. Per esempio una insegnante è disposta a dare lezioni di lingue o ripetizioni in cambio della prestazione di baby sitter per i propri figli; per esempio si ottiene il servizio manutenzione del proprio giardino o di riparazione del lavandino in cambio dell’assistenza ai genitori anziani della persona da cui si è ricevuto il precedente servizio. Quando si ottiene un servizio si emette un assegno, con l’indicazione delle ore, a favore di chi ha svolto il servizio. Le ore di credito e di debito vengono contabilizzate. E’ necessario che in un certo arco di tempo si arrivi ad un certo equilibrio fra ore di cui si è usufruito e di quelle fatte. Lo scambio avviene all’interno dell’associazione ma sono previste anche scambi fra diverse banche del tempo. Non necessariamente il servizio deve essere fatto a favore di colui da cui in precedenza si è ricevuto un altro servizio, anzi è bene che i servizi siano diversificati sia nel tipo che nelle persone fra cui avvengono gli scambi. Le ore sono contabilizzate indipendentemente dal tipo di servizio svolto per cui una ora di ripetizione di inglese corrisponde ad una ora per la riparazione di un lavandino o per potare un albero in giardino o di baby sitting oppure per dare una lezione di cucina o di cucito.
Nelle banche del tempo non circola denaro, salvo il rimborso di spese vive. Per esempio se il servizio prestato corrisponde nell’accompagnare in macchina una persona allora è previsto il rimborso delle spese per il carburante; se un’associata ottiene da un’altra associata il servizio di preparazione di una cena per i suoi ospiti allora è previsto il rimborso per la spesa fatta, ecc.
Le banche del tempo non servono solamente a soddisfare bisogni materiali che in vario modo non sono soddisfatti dal mercato o dalla scuola o dai servizi pubblici ma creano anche una socialità che prima non esisteva. Si creano rapporti basati sulla fiducia, sulla stima reciproca, sull’accettazione. Inoltre i rapporti fra i membri delle banche del tempo prescindono dallo status sociale, culturale ed anagrafico dei membri stessi.
Le banche del tempo in Italia sono nate negli anni novanta del secolo scorso in Emilia Romagna. Sono sorte per iniziativa di donne per risolvere problemi che, anche se sono di donne e uomini, per come è strutturata l’attuale società, gravano soprattutto sulle donne. In seguito sono entrati anche uomini anche se l’aspetto femminile è tuttora preponderante.
L’organizzazione delle banche del tempo richiama l’organizzazione delle popolazioni del paleolitico, cioè delle popolazioni che vivevano di caccia e raccolta. Erano gruppi di circa trenta persone fra uomini, donne e bambini, in cui non c’era gerarchia sociale, con parità fra donne e uomini. Non c’erano capi se non persone a cui si faceva riferimento nei rapporti con altri villaggi. Le banche del tempo sono composte da 15-20 persone al massimo (che con i figli e qualche genitore anziano non autosufficiente fanno circa 30-40 persone). Non esiste praticamente gerarchia perché gli incarichi sono distribuiti fra un certo numero di persone che si alternano nello svolgimento di questi stessi incarichi e facendoli svolgere anche a persone che non li hanno mai svolti.. E’ essenziale che ognuno conosca il funzionamento della banca: è sbagliato che lo sappiano solamente 2-3 persone.

Penso che le banche del tempo, insieme ad altre invenzioni culturali che si dovranno fare, facciano parte di una nuova cultura che, magari iniziata in altri contesti e con altre motivazioni, diventerà, come in una sorta di bricolage, quella adeguata alle nuove situazioni che saranno determinate dalla riduzione di disponibilità dei combustibili fossili.

Un post che era iniziato in modo un po’ scherzoso e forse irriguardoso verso le donne, si è trasformato in una breve analisi delle risposte agli sconvolgimenti che la riduzione di disponibilità di risorse energetiche avrà sulla vita quotidiana. Nella nuova cultura che si delineerà le donne svolgeranno un ruolo importante.

venerdì, ottobre 03, 2008

Confessioni di un Pubblicitario Aspista.





created by David Conti


[pubblicitario e aspista]


(Se amate leggere con un sottofondo musicale, suggerisco Mad World di Gary Jules)

Anno 2020, Roma è una città diversa da come ce la ricordavamo nell'ormai lontano 2008. Niente ingorghi sul lungotevere o sulle consolari in entrata, insomma "se score", per dirla in romanesco come un fortunato personaggio interpretato da Carlo Verdone. In base all'ultimo censimento effettuato l'anno precedente, quasi un milione di persone hanno lasciato la città eterna per trasferirsi definitivamente nelle non più piccole città di provincia, un fenomeno che molti definiscono "la grande contro-migrazione dell'Italia moderna". I tanti rimasti nell'urbe si arrangiano come possono, più che altro con lavori saltuari e occasionali, nonostante la svalutazione dell'Euro, il timido ritorno della Lira come moneta alternativa, l'inflazione galoppante ed i black-out, sempre più frequenti. Le ville comunali, un tempo mete di pic-nic domenicali, sono state ribattezzate "orti comunali", visto che la vecchia dicitura "orti di guerra", a livello di marketing non era molto spendibile. All'aeroporto di Fiumicino ormai i pochi voli in arrivo provengono quasi esclusivamente da paesi arabi e dalle ex repubbliche sovietiche, scaricando centinaia di Mohamed e Igor con famiglie al seguito, intenti nell'affrontare il loro "Grand Tour" in un Europa che definire decadente è poco.

Il sottoscritto, lasciata Roma da qualche anno, per "rifugiarsi" con la famiglia nella sua eco-villetta di campagna, ogni tanto vi ritorna per salutare i suoi genitori. Il primo approccio con la città è stato tramite la cara, vecchia, stazione Termini. E' stato un piacere rivederla com'era un tempo, prima della sbornia consumistica del 2000. Dove prima c'erano cartelloni pubblicitari sistemati in ogni anfratto visibile, ora rimangono solo le policromie dei bellissimi marmi che i progettisti d'epoca fascista prima, e repubblicana poi, fecero arrivare da ogni angolo del paese. Il viaggio, piacevole a prescindere, essendo stato fatto in treno è durato un paio d'ore più del previsto, vista la sosta forzata a Frosinone, quando la motrice del Minuetto a causa del black-out è stata costretta a passare all'alimentazione a gasolio. E' un segno dei tempi, credo. Più passa il tempo, più i ritardi dei treni aumentano, forse nel 22o secolo organizzeranno le cuccette dalla Campania a Roma.

Ritornando alla mia rimpatriata romana, presa la mia bici a noleggio direttamente in stazione, mi faccio prendere dalla nostalgia e opto per una deviazione verso una delle più belle piazze di Roma, una volta sede dell'agenzia pubblicitaria nella quale lavoravo fino a qualche anno fa. E' bastato un caffé pagato a farmi entrare nelle grazie del portiere che mi concede così un furtivo ingresso negli uffici deserti, in attesa di chissà quale nuovo utilizzo... sempre se ne avranno ancora uno. Tutto ciò che poteva avere un valore, è stato portato via, venduto, o rubato, fa poca differenza, in quei corridoi spogli, la mente inizia a viaggiare a ritroso, verso il 2008, quando un copywriter, fra una capatina su Petrolio e una su Energy Bulletin, con il lobo destro si alambiccava per decantare le lodi di un motore Euro4 o delle offerte irresistibili di una compagnia aerea nazionale ormai presente solo sui libri di storia, mentre con il sinistro ragionavo su permacultura e solare termico. Mi ricordo che fu proprio in quel periodo che il vento iniziò a cambiare. Ogni settimana una e-mail di un collega annunciava la sua partenza verso altri lidi lavorativi, i dirigenti ci comunicavano che per un paio di venerdì al mese l'agenzia sarebbe stata chiusa "in forma eccezionale", senza fornire ulteriori spiegazioni.

Me li ricordo ancora benissimo i miei colleghi, gli account, quelli che fungevano da raccordo fra i clienti e noi creativi, impegnati giorno dopo giorno a scrivere pagine e pagine di "brief" nelle quali si dannavano per farci capire (senza mai riuscirci veramente) cosa intendeva il cliente, cosa voleva comunicare. Me li ricordo, con quelle espressioni serie, dove riscontravo nei loro occhi un qualcosa che si avvicinava alla passione, al trasporto per un lavoro che, e questo lo sapevo solo io, era destinato a scomparire gradualmente. E mentre mi ritrovavo costretto ad annuire annoiato le loro filippiche, avrei avuto una voglia di matta di ridergli in faccia e spiegargli così tutta l'assurdità di quel teatrino. Con i miei colleghi creativi mi ci trovavo sempre bene, davvero. Era piacevole passare giornate a ridere e scherzare, parlando di ogni scibile umano, convinti che in qualsiasi momento l'idea buona per "quel" prodotto sarebbe potuta uscire. Ma questa cosa l'ho sempre vissuta con un certo disincanto, come se io fossi una comparsa, circondata da decine e decine di protagonisti assolutamente inconsapevoli della realtà che li circondava, come una sorta di Truman Show al contrario. E' pur vero che ogni tanto mi divertivo a buttar lì il discorso sul Picco prossimo venturo, parlare di crisi economica, aziende che muoiono come mosche, con le agenzie pubblicitarie come il classico canarino nella miniera. A quelli che avevano la fortuna di avere familiari nei piccoli paesi dell'entroterra, preconizzavo loro il futuro di un mesto "ritorno alla terra", lontano anni luce dalle presentazioni creative a Zurigo e dalle ore passate su Facebook. Erano ami che lanciavo nella speranza di poter portare qualcuno di loro "al lato oscuro" del Picco. Niente. La loro percezione non andava oltre quella di una crisi economica "normale", parte di un ciclo che nel bene e nel male, sarebbe comunque coinciso con un rassicurante "status-quo".

La mia ultima pubblicità risale al 2013, quella di una macchina francese che prometteva di fare "50 chilometri in un sorso". Già allora molti creativi si sono persi per strada, e magari, chissà, forse qualcuno di loro continua ancora oggi a svolgere questa professione, magari per un artigiano di scarpe, o un rivenditore di auto usate. Si può dire comunque che io sia stato uno degli ultimi "a spegnere la luce", quando nel 2014 anche il nostro ultimo cliente di un certo peso, una linea aerea disgraziata nata dalle ceneri di un'altra ancora più disgraziata chiuse i battenti con un ultimo sgangherato A320 da spolpare di parti metalliche ancora utilissime. Oggi di quel mondo non rimane più niente, ed io me ne sto lì, in mezzo a quel corridoio, pensieroso, con un magone pesantissimo addosso ed i ricordi che tornano al 2008, l'anno dell'inizio del crollo. Chiudo il portone, saluto il portiere, rimonto in sella, per non tornare mai più.

Anno 2008. Sarà il lunedì, sarà che sono appena rientrato da una piacevole settimana di ferie, ma oggi mi sentivo particolarmente malinconico, tanto da raccontare una prospettiva romanzata della visione del futuro fatta dall'unico pubblicitario Socio di ASPO. (Sfido a trovarne un altro e se ci fosse, mi piacerebbe incontrarlo personalmente). Probabilmente, in pochi altri luoghi si respira un clima di illusione come in un agenzia pubblicitaria. Un luogo dinamico, giovanile, anche divertente, dove l'ottimismo viene sparso a quattro mani come se fosse una dotazione obbligatoria, per citare come mi piace sempre fare Kunstler, dove la "psicologia dell'investimento precedente" non consente a chi ci lavora di capire quanto è veramente profondo l'abisso.

Qualcosa però sta cambiando anche da noi e si vede. Poco lavoro, gente che inizia a guardarsi intorno alla ricerca di qualche lavoro diverso, giorni di chiusura imposti e un senso di sfiducia nel futuro che inizia lentamente ad attecchire anche qui. Proprio mentre sto finendo di scrivere questo pezzo, un mio collega si appresta a fare il grande salto, in partenza per la filiale svizzera con l'obiettivo ultimo del grande salto transatlantico nell'ufficio newyorchese. In bocca al lupo Max, in bocca al lupo a tutti loro.

martedì, luglio 15, 2008

Bar del Popolo

Il bar è uno degli elementi caratteristici e specifici dell’identità italiana. Questo locale, disseminato a decine di migliaia sul territorio urbano, è diventato un pezzo importante del costume nazionale e dell’immaginario collettivo. Rete di produzione e distribuzione diffusa della principale bevanda nazionale, il caffè, ma anche luogo di svago e socializzazione. Ritrovo maschile per eccellenza, i ragazzi ci giocavano al bigliardino e al flipper, ora ai videogiochi, gli adulti al biliardo, i vecchi a carte. Nei bar ci si riuniva una volta per seguire le trasmissioni nazional-popolari, ora per guardare le partite della squadra locale o della nazionale. I bar sono da sempre anche produttori di sogni ed emozioni, nascosti tra le colonne della mitica schedina o dietro il gesto frenetico del gratta e vinci contemporaneo. Ma il bar è soprattutto il luogo sia della conversazione rilassata e generalista che della disputa accesa su argomenti sportivi, politici, sociali della quotidianità, dove il linguaggio della superficialità e del luogo comune viene sublimato in un colossale processo di formazione dell’identità collettiva e di socializzazione popolare. Questo sistema di comunicazione sociale è entrato ufficialmente anche nel vocabolario nazionale con la ormai comune definizione di “chiacchiere da bar”.
Seguiamo ora una delle innumerevoli “chiacchiere da bar” che si svolgono in questi giorni. Chiameremo i protagonisti immaginari di questo dialogo uno Silvio e l’altro Giulio.

S: Ciao Giulio, come stai.
G: Male, con questo caldo, venire al bar a piedi è un’autentica sofferenza.
S: Perché, hai l’auto dal meccanico?
G: No, ma il prezzo della benzina è diventato così caro che preferisco usarla il meno possibile. Sai, con le pensioni che ci danno!
S: Hai ragione, bisognerebbe che il governo facesse qualcosa per risolvere questo problema. Non è possibile che lascino fare ad arabi, petrolieri e speculatori tutto quello che gli pare. Innanzitutto, se fossi il presidente del consiglio, insieme agli altri capi di governo, direi a lor signori che è finita la pacchia e che oltre un certo prezzo non possono andare.
G: Bravo, Silvio, tu ne sai sempre una più del diavolo. Però, io combatterei anche la speculazione di tutti quei furbastri che si stanno arricchendo alle nostre spalle. Credi a me, gli speculatori sono la peste della società, andrebbero scovati uno per uno e messi al rogo. E poi, a questi beduini che fanno la bella vita galleggiando su mari di petrolio, gli andrebbe data una bella lezione. Io lo scioglierei, come si chiama, l’Opel.
S: No, Giulio, quella è la mia macchina. Opec, si chiama l’accolita dei produttori di petrolio.
G: Ah, sì, Opec. Li chiuderei tutti questi club che fanno fortune sulla povera gente.
S: Giulio, i nostri governanti pensano solo a se stessi e ad arricchirsi, cosa vuoi che gli importi della povera gente! Fanno tanti discorsi ma non concludono nulla. Cosa ci vuole a costruire una quarantina di centrali nucleari e a dare un calcio in culo agli arabi e al petrolio?
G: E a mettere una bella tassa sui petrolieri, così Moratti la smette di pagare a peso d’oro quei giovanotti tutti muscoli e niente cervello. E forse il nostro Milan rivince lo scudetto, eh, eh, eh.

Ebbene, sembra che Berlusconi e Tremonti abbiano preso davvero sul serio le chiacchiere da bar dei tanti Silvio e Giulio del nostro paese. Ieri, al vertice di Parigi, dopo aver ascoltato “O sole mio”, il Presidente del Consiglio ha dichiarato che “ è necessario che i paesi consumatori si incontrino al più presto per trovare un accordo sul prezzo massimo e ragionevole del petrolio che non può essere superato: in alternativa serve un massiccio programma di costruzione di centrali nucleari …. Siamo tutti in balia della speculazione.” E il Ministro dell’Economia Robin Hood Tremonti, dopo aver annunciato la tassa sui petrolieri, ha proposto agli altri paesi europei di combattere la speculazione finanziaria sulle materie prime, vera peste del secolo e ha illustrato al vertice Ecofin la sua strategia per proteggere il mercato e i cittadini europei contro i cartelli e le intese collusive oltre che contro la speculazione finanziaria che alimenta il caro-petrolio. Per il numero uno di Via Nazionale “l’Opec è un cartello tra imprese e non tra Stati e per questo può essere perseguito in Europa applicando il comma due dell’articolo 81 del Trattato di Roma che vieta alle imprese di prendere decisioni per limitare o controllare la produzione”.

E fu così che, grazie Berlusconi e Tremonti il governo del paese si trasformò in un grande, luccicante meta-bar, il Bar del Popolo, delle Libertà naturalmente.