Un'articolo di oggi sulla "Stampa" dove Joscha Fischer riesce a andare avanti per un pezzo raccontando la storia degli ultimi vent'anni senza mai nominare la parola "petrolio." Nemmeno mai accenna neanche vagamente che il problema energetico e quello delle materie prime potrebbero aver giocato un ruolo in tutto quello che è successo in questo periodo.
Interessante come esempio di come la political correctness possa raggiungere traguardi di banalità addirittura trionfali. E' anche una preoccupante illustrazione dei limiti culturali di persone che vengono spesso additate fra i più illuminati dei nostri politici
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La Stampa, 25.10.06
CROLLO URSS, EUROPA UNITA, IRAQ
L'Occidente in cerca di identità
di Joschka Fischer
Come possiamo definire l'Occidente? Durante la guerra fredda
l'America e i suoi alleati lo incarnavano, e l'Europa era divisa tra
Est e Ovest per una ragione ideologica, non geografica. Io sono nato
in questo sistema, e non avrei mai potuto immaginare che si
dissipasse. Per trent'anni ho vissuto pensando che oltre la cortina
di ferro il mio mondo finiva.
L'Occidente era basato su una cultura, le istituzioni democratiche,
lo Stato di diritto, le libertà individuali. Un sistema di valori lo
definiva, e questo era vero ancora di più per la Germania, perché
eravamo un paese diviso. Chi guardava la nostra televisione all'Est
pensava che voleva vivere come noi, ma non poteva, perché le guardie
di frontiera sparavano su chi si azzardava a varcare il confine. Non
credevo che questo ordine potesse finire da un momento all'altro.
Quando guardo indietro, non trovo altri esempi della storia in cui
una grande potenza come l'Urss sia collassata così, in pochi giorni,
senza neanche un colpo sparato.
Il crollo dell'Unione Sovietica è stato il momento più brillante per
quell'alleanza e quella cultura che chiamavamo Occidente. Sembrava un
periodo magnifico, ma stava anche emergendo un nuovo mondo con
situazioni e problemi mai visti prima. La grande sfida per l'Europa,
dopo la fine della guerra fredda, era la nuova unificazione. Il
nostro continente aveva avviato questo processo dopo la Seconda
Guerra Mondiale grazie a due idee lungimiranti: quella degli Stati
Uniti, che decisero di rimanere per aiutare la ricostruzione; e
quella di uomini illuminati come i francesi Schuman e Monet, ma anche
l'italiano De Gasperi e il tedesco Adenauer, che volevano superare i
vecchi interessi nazionalistici costruendo una casa comune.
L'edificio era bello, non c'è dubbio. Però una sua parete era il Muro
di Berlino, e quando è caduto abbiamo scoperto l'esistenza dei
parenti poveri che pensavamo lontani. All'inizio siamo stati felici
di accoglierli, ma dopo un po', quando alzandoci la mattina trovavamo
la fila al bagno, abbiamo cominciato ad irritarci. Eppure la
riunificazione dell'Europa era e resta la nostra grande sfida del
dopo guerra fredda.
Negli Stati Uniti, quando è crollata l'Urss, la situazione era molto
diversa. C'erano stati altri momenti unilaterali nella storia
americana. In fondo, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Usa
si erano già trovati in una posizione unica. E' vero, c'era l'Urss,
ma i soldati americani erano ovunque e l'economia a stelle e strisce
dominava. Eppure quel periodo unilaterale fu anche uno dei momenti
più alti per la politica estera di Washington: fu fondata l'Onu,
nacquero le grandi alleanze come la Nato, e venne varato il Piano
Marshall. Il secondo momento unilaterale, quello seguito al crollo
dell'Urss, è stato più complicato. Gli Usa erano una grande potenza,
l'Europa cercava di diventarlo, e tanti piccoli Stati le sfidavano, a
cominciare dai Balcani. Quando scoppiò quella crisi, mi chiesi: dov'è
l'Occidente? La Francia appoggiava i serbi, la Germania i croati e
gli sloveni. Sembrava tornata la vecchia Europa, che non è quella
irrisa dal ministro della Difesa americano Rumsfeld, ma quella
spaccata dai nazionalismi. Se ci fossimo mossi prima, credo che circa
200.000 persone sarebbero ancora vive. Ma per noi tedeschi era una
crisi molto difficile. La mia generazione è cresciuta con due punti
fissi: mai più guerra e mai più olocausti. Non era facile per noi
intervenire con la forza nei Balcani, dove le armate di Hitler si
erano macchiate di tanti delitti.
Gli Stati Uniti, da parte loro, si chiedevano che interesse avessero
in quella crisi, e la risposta era nessuno. Però alla fine sono
dovuti intervenire a salvare l'Europa, per la terza volta nello
stesso secolo. La lezione dei Balcani è stata che non avremo pace nel
nostro continente finché ci saranno due Europe: quella di Bruxelles e
quella dei nazionalismi. Per questo l'allargamento dell'Unione resta
una questione di pace o di guerra. Non è un'idea, ma un pratico
interesse di stabilità. Eppure molti europei oggi sono ciechi, e lo
rallentano.
Gli Stati Uniti, invece, hanno appena vissuto un altro momento
unilaterale. Dopo l'invasione del Kuwait, George Bush padre aveva
creato una coalizione. Avrebbe potuto farne a meno, ma scelse di
formare un'alleanza, e poi usare la potenza americana per raggiungere
l'obiettivo prefissato. Era un esempio di come agire per cambiare in
meglio le cose, ma non è stato più seguito.
Dopo gli attentati dell'11 settembre, una tragedia che nessuno
dimenticherà, noi tedeschi tenemmo una manifestazione alla Porta di
Brandeburgo a cui partecipò anche la sinistra estrema. Tutto il mondo
era con l'America in questa sfida comune, e tutti comprendevamo che
lo status quo in Medio Oriente non era più accettabile. La Germania
aveva concordato sulla necessità di andare in Afghanistan a
rovesciare i taleban, e aveva fatto la sua parte. A quel punto si
trattava di sfruttare la solidarietà mondiale verso gli Stati Uniti
per creare una coalizione mondiale dell'intelligence e delle forze
dell'ordine, allo scopo di combattere il terrorismo, e nello stesso
tempo affrontare la questione mediorientale per arrivare a una pace
fra israeliani e palestinesi, che forse sarebbe stata dolorosa da
entrambe le parti, ma avrebbe avviato davvero la nascita di un nuovo
Medio Oriente.
La situazione, invece, è cambiata con l'Iraq. Noi tedeschi abbiamo
avuto posizioni diverse dal principio e lo abbiamo detto, perché
questo è il compito dei veri amici. Possedevamo le stesse
informazioni di intelligence di Washington, e non capivamo le ragioni
della guerra. Saddam era in gabbia. Se c'erano le armi, gli ispettori
dell'Onu le avrebbero trovate, dato che noi li indirizzavamo. Perché
fermare questo processo? Gli americani si rendevano conto che
invadere Baghdad significava accollarsi la responsabilità dell'intero
Medio Oriente? E come avrebbero tenuto insieme un Paese così
complesso? Capivano che esportare la democrazia significava
consegnare il Paese alla maggioranza sciita, e quindi dare all'Iran
un'influenza che non aveva mai avuto prima? Ma la differenza,
rispetto agli altri momenti unilaterali della storia recente
americana, era che stavolta i neocon erano al potere. Le conseguenze,
adesso, le scontiamo tutti.
La radice del problema del terrorismo islamico non è politica, ma
culturale. E' il blocco della modernizzazione, dopo il fallimento del
nazionalismo arabo. L'Europa deve fare attenzione a non complicare la
situazione bloccando l'allargamento alla Turchia, perché così farebbe
deragliare il suo processo secolare di ammodernamento. Se la
allontaniamo, sarà spinta a coltivare il rapporto con la Russia e
l'Iran, dove il sentimento anti-occidentale continua a crescere. Così
rischiamo di riuscire nell'impossibile, cioè favorire un'alleanza tra
Ankara, Mosca e Teheran.
L'altro problema urgente, oltre alla stabilizzazione dell'Iraq, è
l'ambizione nucleare iraniana. Se la Repubblica Islamica riuscirà ad
ottenere la bomba atomica cambierà il Medio Oriente, avviando una
corsa alla proliferazione. Chi può prevedere cosa faranno a quel
punto Turchia, Egitto e Arabia Saudita? Il mondo rischierà di essere
minacciato da decine di piccole e medie potenze nuclearizzate.
La sicurezza nel Ventunesimo secolo è un concetto che va ridefinito.
Deve essere basata sullo sviluppo, sulle opportunità, su un sistema
di valori simile a quello che definiva l'Occidente durante la guerra
fredda, e anche sulle garanzie militari. Americani ed europei non
possono risolvere questi problemi da soli: serve un nuovo consenso
strategico nella relazione atlantica, per affrontare le nuove sfide.
L'Europa dovrà proseguire l'allargamento, perché è lo strumento con
cui può cambiare anche il «software» degli altri Paesi. Gli Stati
Uniti dovranno tornare a riconoscere che la vera forza è basata anche
sulla saggezza, la politica, e gli alti orizzonti morali.
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