Tempo fa, mi trovavo a conversare con una signora colta e raffinata, fra le altre cose anche blasonata con un titolo nobiliare. A una sua domanda sul mio lavoro, risposi che mi occupavo di petrolio, cosa che normalmente è sufficiente per dirottare la conversazione su argomenti più interessanti. In questo caso, tuttavia, la signora in questione si è incuriosita al punto da chiedermi qualche ulteriore dettaglio. Al che, ho bofonchiato qualcosa a proposito della "fine del petrolio." La signora mi ha guardato ancora più incuriosita, commentando, "Che strano, io sapevo che il petrolio si rigenera in continuazione nelle viscere della terra".
Ad un approfondimento da parte mia, mi è apparso chiaro che la nobildonna con cui conversavo non faceva parte della perniciosa schiera dei folli pericolosi che sostengono che il petrolio è infinito sulla base della cosiddetta "teoria del petrolio abiotico". No, la signora semplicemente aveva mancato la rivoluzione intellettuale (una delle tante) che a partire dalla fine del '700 aveva portato a capire che le risorse minerali del pianeta sono effettivamente limitate. Mancandogli dati sull'argomento, la signora non aveva motivo di ritenere che il petrolio dovesse prima o poi finire. Lo aveva semplicemente catalogato insieme alle barbabietole e ai cavolfiori, come cose che ricrescono tutti gli anni, magari innaffiandole un po'.
Se non a tutti si può chiedere di aver studiato geologia, certe volte si rimane perplessi di fronte a manifestazioni di ignoranza abissali da parte di persone che, viceversa, si potrebbero presumere di dover conoscere certi elementi del loro mestiere. Una cosa del genere mi è capitata di recente.
Seguivo la sessione di bioarchitettura di un congresso sull'energia e ho sentito la presentazione di un architetto che ha mostrato la sua ultima creazione; una casa "bio-eco-climatica" a bassissimo consumo energetico. L'oggetto è tutto fatto in materiali naturali, legno, argilla e poco più ed è isolato con uno spesso strato di sughero che lo rende impermeabile al caldo e al freddo. Costa poco e si monta in un giorno con pezzi prefabbricati.
Vi dirò che l'oggetto, pur interessante, non mi ha entusiasmato più di tanto. Come proporzioni ricorda quelle di una scatola da scarpe. Come concetto mi ricorda, in effetti, la scatola da scarpe riempita di bambagia ove, in tempi ormai remoti, avevo tenuto un passerotto caduto dal tetto. Come estetica, non lo definirei ne particolarmente brutto ne bello, ma troverebbe la sua collocazione ideale in qualsiasi centro commerciale con un insegna tipo "fast food" sulla facciata anteriore.
Alla fine della presentazione ho quindi fatto un commento e una domanda: "E' lodevole," ho detto, "che si cerchi di ridurre al massimo i consumi di risorse non rinnovabili, come il petrolio e il gas naturale. Tuttavia, mi sembra che facendo edifici a basso costo che si montano in un giorno si rischia di veder proliferare nuove costruzioni che aumenterebbero il consumo di un'altra risorsa non rinnovabile forse anche più importante dei combustibili fossili: il territorio." Citando un dato del WWF che parla di un area occupata da nuove costruzioni di circa 1500 km2 all'anno, ho continuato dicendo, "Non pensa il relatore, o uno dei cortesi amministratori seduti al tavolo dei relatori che sarebbe il caso di preoccuparsi altrettanto dell'occupazione del suolo quanto dei consumi energetici?"
Le risposte che ho ottenuto non sono state molto entusiasmanti. L'architetto che aveva costruito la grande scatola da scarpe ha detto, sostanzialmente, che non era compito suo preoccuparsi di dove e quante case si costruiscono, ma solo che vengano costruite bene. L'amministratore che ha risposto alla mia domanda ha citato qualcosa che ha chiamato il "protocollo di Itaca" che tuttavia, a detta dello stesso amministratore, non è studiato allo scopo di conservare suolo.
In sostanza, amministratori e architetti - e non solo di quella particolare conferenza - sembrano considerare il territorio allo stesso modo in cui la nobildonna che citavo prima considerava il petrolio: infinito in mancanza di dati contrari.
Non ho dati precisi, ma da una ricerca su internet sembra che nessuno sappia con esattezza quanto suolo del nostro paese è occupato da costruzioni o, comunque, impermeabilizzato da cemento, bitume o cose del genere. Il dato del WWF, 1500 km2 all'anno, è un dato troppo "rotondo" per essere affidabile. Potrebbero essere solo 1000 km2 all'anno, oppure magari 2000. E poi, nel computo, si contano anche gli spazi fra le case? Si contano i vasi di gerani sui balconi? Quanto è l'effetto indiretto, in termini di ombreggiature e zone inaridite dal passaggio umano e di veicoli? Che tipo di suolo viene effettivamente coperto? Quanto suolo fertile viene effettivamente sottratto all'agricoltura? Quanto al pascolo, al bosco, o all'allevamento? Che effetto ha quesa impermealizzazione sul sistema idrogeologico? Che effetto ha sul sistema climatico? Ma soprattutto, quanto possiamo ancora coprire suolo prima che la produzione alimentare si trovi in difficoltà? In confronto ai 300.000 km2 di territorio italiano, coprirne qualche migliaio l'anno magari non sembra tantissimo, ma ricordiamoci che solo la metà circa del territorio è coltivabile. E cosa sappiamo in termini di tendenze? Sta aumentando la frazione coperta ogni anno, e se si con che velocità? Potrebbe darsi che il problema possa comincare a porsi in maniera drammatica non fra secoli ma fra pochi decenni e forse anche meno?
E' curiosa questa nostra ignoranza quasi totale di tutte queste cose, soprattutto se la compariamo con quello che sappiamo del petrolo, del quale abbiamo dati sui più sottili dettagli delle varietà di greggi, provenienze, produzioni, stime delle riserve eccetera. Tuttavia, sembra che i dati sull'occupazione del suolo da parte di strutture artificiali non solo non siano disponibili, ma non interessino a nessuno. Come nel caso del petrolio, può darsi che cominceremo ad accorgersi della gravità del problema quando sarà troppo tardi
2 commenti:
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